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Il liceo, un’ottima scelta

L’istruzione tecnica non corrisponde più ai nuovi modelli organizzativi delle imprese, perché destinata a formare figure professionali rigide. Oggi, invece, si richiedono lavoratori che abbiano maggiore flessibilità e autonomia, qualità acquisibili soltanto attraverso un’educazione di tipo liceale. Non a caso, gli Stati Uniti, dove la diffusione contestuale dell’Ict e delle pratiche di lavoro flessibili ha consentito significativi incrementi di produttività e occupazione, privilegiano i sussidi all’educazione generalista. Al contrario di Germania e Italia.

Dati nazionali ancora provvisori segnalano una preferenza delle nuove generazioni per i licei e una certa disaffezione per gli istituti tecnici. Tutto ciò viene accolto con preoccupazione. Eppure, in altri paesi tendenze analoghe rappresentano l’adeguamento del sistema educativo alle esigenze di modernizzazione delle imprese.

Come cambia l’organizzazione del lavoro

Alcuni commentatori hanno espresso preoccupazione sull’abbandono dell’istruzione tecnica da parte delle nuove generazioni, sostenendo che si tratta di un sintomo del loro crescente distacco dal mercato del lavoro. (1)
Poiché i timori sulla crisi dell’istruzione tecnica nascono da una visione datata dell’organizzazione del lavoro nelle imprese, è opportuno delineare con chiarezza le tendenze in atto, orientate al superamento del modello basato sull’impiego di figure professionali rigide e affermatosi in presenza di una sostanziale stabilità della tecnologia.
Molti studi hanno mostrato come fin dall’inizio degli anni Novanta le tecnologie dominanti – cioè quelle dell’informazione e della comunicazione – siano tipicamente ad ampio spettro e soggette a rapida obsolescenza. Gli studi hanno anche dimostrato che l’introduzione dell’Ict ha prodotto i risultati migliori quando accompagnata da un’accelerazione del cambiamento organizzativo che, partito dalla fabbrica fordista (con maestranze specializzate nell’esecuzione di mansioni immutabili nel corso della loro vita lavorativa), è approdato all’adozione di pratiche di lavoro flessibili e orizzontali (con maestranze in grado di acquisire competenze continuamente rinnovate e responsabilità decisionali).
Queste nuove pratiche, che nulla hanno a che fare con la precarizzazione del lavoro, indotta semmai dalla proliferazione di contratti a tempo determinato, includono la decentralizzazione e la deverticalizzazione gerarchica a favore di una maggiore responsabilizzazione e autonomia dei lavoratori. Possono essere sintetizzate da due prassi ormai consolidate nelle organizzazioni produttive più moderne ed efficienti: 1) la misurazione e l’incentivazione/premiazione del contributo collettivo, cresciuta di importanza con la diffusione del lavoro in team; 2) la flessibilità e multifunzionalità del singolo lavoratore, al quale viene richiesto di ruotare tra mansioni, sfruttando a questo scopo la capacità di apprendere e adattarsi a situazioni in continua evoluzione.
Studi recenti condotti per Francia e Stati Uniti mostrano che le nuove pratiche organizzative richiedono lavoratori che abbiano maggiore flessibilità e maggiore autonomia, acquisibili soltanto attraverso un’educazione generalista e incrementabili con l’impiego di idonee strategie di gestione delle risorse umane da parte delle imprese.
Pratiche di questo tipo sono meno alienanti di quelle precedenti, perché permettono al lavoratore di seguire una più ampia varietà di fasi del ciclo produttivo e comportano, attraverso il decentramento delle decisioni, una democratizzazione sostanziale dell’attività lavorativa. L’Ict, che favorisce tali pratiche e ne è a sua volta favorita, richiede però nuove competenze nelle forze di lavoro: senza un’opportuna riqualificazione delle risorse umane, nel migliore dei casi tarda a diffondersi oppure determina quell’impatto negativo sulla produttività e sulla competitività che va sotto il nome di “paradosso di Solow”.

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La formazione che serve

Se, dunque, gli incrementi di produttività resi possibili dall’Ict presuppongono riorganizzazione di funzioni e mansioni nonché innalzamento delle qualifiche, la politica per l’educazione non può più concentrarsi sulla preparazione specifica indispensabile all’utilizzo diretto della tecnologia, come avvenuto per decenni grazie alla funzione meritoria degli istituti tecnici e professionali. Deve indirizzarsi invece verso l’estensione e il rafforzamento della formazione generalista e delle capacità relazionali. In quest’ottica, i gloriosi istituti tecnici fanno parte di un modello di formazione che, cruciale in un mondo nel quale la tecnologia evolveva lentamente e senza strappi, risulta oggi meno rilevante che in passato. Alla formazione specialistica che tanto ha contribuito allo sviluppo industriale italiano fino agli anni Ottanta, va oggi preferita una che addestri operatori in grado di apprendere sul lavoro (on-the-job training) e fuori dal lavoro (off-the-job training), e agevoli la diffusione di pratiche flessibili e degerarchizzate, nelle quali il processo decisionale diviene prerogativa di chi esegue la mansione e prescinde dal controllo di livelli gerarchici intermedi che nelle moderne realtà organizzative non esistono più.
Da questo punto di vista, l’educazione generalista/relazionale gode di almeno tre vantaggi: a) non viene resa obsoleta dall’accelerazione del progresso tecnologico; b) predispone a una flessibilità di impiego che ben si coniuga con il carattere pervasivo delle nuove tecnologie; c) è orientata al conseguimento di quelle capacità di visione generale che sono requisiti essenziali di una forza lavoro in grado di adattarsi ai cambiamenti tecnologici e organizzativi in atto.
Tuttavia, un mutamento di indirizzo nelle strategie educative può essere realizzato soltanto attraverso politiche attive che riequilibrino i finanziamenti pubblici nazionali e locali tra educazione generalista (licei e lauree triennali non professionalizzanti) e educazione specialistica (istituti tecnici e lauree triennali professionalizzanti). Non a caso, il rapporto tra sussidi all’educazione generalista e sussidi all’educazione specialistica è di 2,55 negli Stati Uniti, dove negli ultimi due decenni la diffusione contestuale dell’Ict e delle pratiche di lavoro flessibili ha consentito significativi e simultanei incrementi di produttività e occupazione, mentre è di 1 in Germania e Italia, dove ristagnano sia l’occupazione che la produttività.
Che nuove generazioni di lavoratori formatesi in un sistema educativo che antepone il “capire” al “saper fare” possano essere viste come inadatte a soddisfare le esigenze di imprese moderne e capaci di competere sui mercati internazionali, o come vittime del neo-liberismo, sembra un apriorismo neo-conservatore, legato alla difesa di un “piccolo mondo antico” che per fortuna (dei lavoratori) è stato ridimensionato dall’interazione virtuosa tra innovazione tecnologica e organizzativa.

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Per saperne di più

Krueger, D. e K. B. Kumar (2004), “Skill-specific rather than General Education: A Reason for US-Europe Growth Differences?”, Journal of Economic Growth, 9(2), 167-207.
Piva, M., E. Santarelli e M. Vivarelli (2005), “The Skill Bias Effect of Technological and Organisational Change: Evidence and Policy Implications”, Research Policy, 34(2), 141-157.

(1) Lo afferma ad esempio G. Barbiellini Amidei sul Corriere della Sera del 15 febbraio. Ma è istruttiva in proposito anche la polemica bolognese sui tagli dei fondi all’istituto tecnico Aldini decisi dall’amministrazione comunale della città. Vedi l’articolo di F. Berardi su Liberazione del 27 dicembre 2005.

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Clima di allarme

  1. Tritto Franco

    La scuola generalista (liceo) dove tutto si insegna e niente si impara o si prepara è stata (ma non lo è più) il cavallo di battaglia della scuola Gentile. La scuola Moratti vuole rendere generalisti tutti gli indirizzi con la conseguenza che anche le scuole tecniche diverranno (ma in qualche modo già lo sono) scuole in cui tutto si insegna e niente si prepara. Il problema è che è stata fatta una scelta politico-culturale da parte degli amministratori di alto (basso) livello con la quale si sposta in avanti l’entrata nel mondo del lavoro dei giovani che si iscrivono alle scuole tecniche (18 – 22 anni) imponendo l’iscrizione all’università triennale (generalista) e quindi lavoro se tutto va bene 26- 28 anni, naturalmente (ed è questa la conseguenza) dequalificando la scuola media superiore tecnica. Le conseguenze economiche, sociali e di spreco di risorse le lascio alle magnifiche menti lettori di questo bellissimo sito.

    • La redazione

      Grazie per il Suo commento.
      Quaranta anni fa gli iscritti in totale nelle università italiane erano poche centinaia di migliaia. Oggi sono oltre un milione e ottocentomila, mentre i soli nuovi immatricolati ammontano ogni anno ad un numero (circa trecentocinquantamila) prossimo a quello degli iscritti in totale negli anni Sessanta (cito dal sito http://www.crui.it). Tutto questo non è necessariamente spreco di risorse o creazione di una grande area di parcheggio per studenti, anche se dobbiamo riconoscere che istruzione secondaria e terziaria stanno vivendo nel nostro paese una difficile transizione. In realtà l’aumento degli anni passati da ciascun individuo nel sistema educativo riflette una tendenza di lungo periodo affermatisi in tutti i paesi maggiormente industrializzati e che vede una progressiva ricomposizione dei lavoratori occupati a favore della componente più scolarizzata e a discapito di quella meno scolarizzata.
      Cordiali saluti
      Enrico Santarelli

  2. Marco Rossi

    Sono uno studente universitario e, a suo tempo, studente di liceo scientifico… Credo quindi di aver titolo per parlare della questione.
    Vi propongo una semplice riflessione: avete notato che i paesi con dinamiche economiche più positive (leggi: Asia orientale) sono quelli i cui sistemi educativi si basano sulla preponderanza degli studi tecnici?
    Altra riflessione: avete notato che di recente il governo USA ha lanciato l’allarme sulla carenza di ingegneri da introdurre nel sistema produttivo nazionale?
    A ciò si aggiunge che le organizzazioni imprenditoriale, anche in Italia, lamentano continuamente l’assenza di tecnici qualificati? siete sicuri che servano altri diplomati liceali?
    forse bisognerebbe: 1) migliorare la formazione negli Istituti Professionali; 2) aumentare la quota di studenti degli Istituti Tecnici, anche con nuove specializzazioni; 3) porre un limite alla moltiplicazione di studi universitari poco qualificanti dove gli studenti si “parcheggiano”, con elevate spese a carico della collettività.

    • La redazione

      Grazie per le osservazioni e i commenti.
      Mi rendo conto che la distinzione tra educazione generalista e educazione specialistica possa risultare fuorviante se collocata al di fuori della letteratura economica sul tema. Mi rendo anche conto che il titolo “Il liceo, un’ottima scelta”, efficace dal punto di vista della comunicazione, possa a sua volta essere frainteso. Vorrei però che le mie riflessioni fossero lette con un approccio diverso da quello del pedagogista e che, soprattutto, non si pensasse che io stia contrapponendo educazione umanistica e educazione scientifica.
      In realtà quello che il mio pezzo e l’ampia letteratura sulla quale esso si basa suggeriscono è la necessità di formare individui che, all’interno delle varie aree disciplinari, siano “addestrati ad apprendere”. L’ingegnere che esce dalle università anglosassoni, in tal senso, incarna perfettamente il modello al quale mi riferisco. Se guardiamo al piano degli studi degli Engineering Course di, ad esempio, Stanford e Cambridge (UK) vediamo che almeno per i primi due anni la formazione è, appunto, generalista e ad ampio spettro sia pure, ovviamente, in ambito ingegneristico. Non a caso, Tigri asiatiche e India hanno tratto enorme beneficio nello sviluppo dei settori high-tech dal rientro in patria di giovani formatisi in quelle università. Giovani dotati di competenze generaliste e capacità relazionali che consentono loro di metabolizzare senza grossi problemi i rapidi cambiamenti che nell’era della globalizzazione si verificano a ritmo sostenuto sia nella sfera tecnologica che in quella organizzativa.
      Quanto alle “lamentele” delle nostre organizzazioni imprenditoriali, farei attenzione a non cadere in un luogo comune tipicamente italiano. Se il paese è specializzato in produzioni tradizionali e, comunque, nelle fasi produttive a minor valore aggiunto e a più basso contenuto tecnologico di numerose produzioni siamo sicuri che la migliore medicina per risollevarne le sorti sia continuare a disegnare tutto il sistema dell’educazione sulle esigenze di tali produzioni e tali fasi? O un miglioramento qualitativo del capitale umano potrebbe attrarre investimenti diretti esteri e, in generale, aiutare il necessario riposizionamento su produzioni e fasi a maggiore intensità tecnologica?
      Cordialmente
      Enrico Santarelli

  3. Claudio Alberti

    Condivido l’impostazione dell’articolo, credo anch’io che una liceizzazione delle medie superiori non arrechi troppi danni a livello economico, purché si tengano presenti dei paletti: 1) I licei, anche se frequentati da studenti più attenti ai temi professionalizzanti, devono porre finalmente come cardine della loro azione la meritocrazia (se uno che vuol fare l’idraulico prende 4 in matematica, non va perdonato, ma bocciato); 2) L’autonomia scolastica deve aiutare a predisporre dei percorsi di formazione extracurriculare per gli studenti, flessibili e stimolanti;3) Dopo le superiori, credo che in Italia abbiamo ancora bisogno di Politecnici che funzionino veramente e che rompano la tendenza del nostro Paese, in cui o si insegna una teoria mediocre con una pratica scadente, o si insegna una pratica mediocre con una teoria scadente.

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