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Tra mobilità e salario

I differenziali di reddito e occupazione fra le regioni dell’Unione Europea si attestano su livelli assai elevati. Tuttavia, la mobilità geografica resta bassissima. Né si riesce ad agire sui salari, spesso contrattati a livello nazionale, senza tener conto delle condizioni locali del mercato del lavoro. E la disoccupazione nel Sud Italia è tre volte quella del Nord. La politica economica deve fare una scelta chiara, in favore di una maggiore mobilità del lavoro o di una maggiore flessibilità regionale dei salari. Altrimenti, i divari tra regioni continueranno a essere pronunciati.

I divari di reddito e occupazione tra regioni all’interno dell’Unione Europea a 15, rimangono elevati, nonostante il forte impegno finanziario delle politiche europee di coesione. Nella seconda metà degli anni Novanta, il coefficiente di variazione del reddito pro-capite nelle 50 regioni dell’Unione Europea era quasi il doppio di quello dei 49 stati continentali Usa. La dispersione nei tassi di disoccupazione era ancora più pronunciata, 0,55 nell’Unione europea contro lo 0,24 negli Stati Uniti.

I DATI

I dati aggregati non rivelano pienamente l’entità delle differenze territoriali nell’Unione Europea a 15. Nel 2002, l’ultimo anno per il quale è disponibile un insieme di dati comparabili, il reddito pro-capite – in parità di potere d’acquisto – nella Inner London era più di due volte e mezzo quello della media dell’Unione Europea a 15. Al contrario, il Pil pro-capite nella regione greca di Dytikis era circa il 50 per cento del valore europeo. Gli ampi divari nel Pil pro-capite riflettono differenze di produttività e di andamenti del mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione varia moltissimo: si va dal 27 per cento di Halle in Germania al 2,2 di Utrecht in Olanda. Ma forse ancora più preoccupante è il fatto che in Europa le regioni ad alta disoccupazione tendono a coincidere con le zone a basso reddito pro-capite: povertà e disoccupazione sono così due facce della stessa medaglia.

SCARSA MOBILITA’

Differenze così grandi nelle condizioni di reddito e occupazione dovrebbero favorire importanti flussi migratori dalle regioni a basso reddito e alta disoccupazione verso quelle ad alto reddito e bassa disoccupazione. Ma non è così. Con l’eccezione del Regno Unito, i flussi migratori interni sono modesti, soprattutto in confronto a quanto accade negli Stati Uniti, nonostante che la variabilità di reddito e occupazione sia molto più bassa rispetto all’Europa.
È risaputo che una maggiore mobilità può costituire un potente strumento per favorire la convergenza nei livelli di reddito e occupazione e promuovere quindi la coesione regionale, un obiettivo dichiarato delle politiche europee. Ci si aspetterebbe quindi che la politica economica cerchi di agevolare la mobilità fra paesi e regioni europee. Stranamente, però, né per la Commissione europea né per i governi dell’Unione una politica volta favorire i flussi migratori interregionali risulta prioritaria.
La Commissione europea nel suo Rapporto sulla coesione economica e sociale elenca una lunga serie di fattori che ostacolano la coesione, ma tra questi non cita l’assenza di mobilità. Nel complesso, i governi europei sono colti da una strana forma di schizofrenia quando devono affrontare il tema della mobilità geografica del lavoro. Talora i ministri delle Finanze lamentano l’assenza di mobilità, che inevitabilmente ostacola il processo di aggiustamento a shock idiosincratici; i loro colleghi degli altri dicasteri sembrano però assai restii ad avventurarsi su questo terreno.

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LA FLESSIBILITA’ DEL SALARIO

In una situazione in cui la mobilità interregionale del lavoro è modesta, il compito di attenuare l’impatto di shock regionali dovrebbe essere attribuito alla flessibilità del salario. Ma anche in questo caso l’evidenza non è rassicurante. Nei due paesi dove le differenze territoriali sono più marcate, Germania e Italia, i salari sono in larga parte determinati dalla contrattazione a livello nazionale e, di conseguenza, poco reattivi a shock regionali. Diversi studi empirici evidenziano poi come, perlomeno in Italia, i salari regionali non rispondono che debolmente alle condizioni del mercato del lavoro locale. La flessibilità dei salari è poi assai minore nei settori più sindacalizzati.
I salari contrattuali sono quindi fissati a livelli troppo alti per le regioni a bassa produttività, in particolare se si tiene conto che il costo della vita è ivi minore; si alimenta così la crescita dell’economia sommersa. Soprattutto, le regioni meno sviluppate non hanno strumenti per rispondere a shock sfavorevoli.
I governi hanno fatto assai poco per agevolare un accordo fra le parti sociali che conduca a un sistema più flessibile di determinazione dei salari a livello regionale. Una tesi diffusa è che le distorsioni del mercato del lavoro non sono il problema principale delle regioni meno sviluppate. Si cita spesso a tale proposito il fatto che i livelli di produttività sono pressoché allineati tra regioni sviluppate e arretrate. Ma questo non dovrebbe rassicurare nessuno, poiché l’allineamento della produttività riflette semplicemente la diminuzione dell’occupazione nelle regioni meno sviluppate e, di riflesso, la crescita della disoccupazione.
Il fatto è che la disoccupazione nel Sud Italia è ancora tre volte più alta rispetto al Nord: 13,2 per cento contro il 3,9 per cento. È difficile sostenere che il meccanismo di determinazione dei salari abbia poco o nulla a che fare con questo fatto. Le distorsioni del mercato del lavoro possono non essere la sola questione, ma sono certamente parte del problema. I politici devono fare una scelta chiara, in favore di una maggiore mobilità del lavoro o di una maggiore flessibilità dei salari. Altrimenti, la combinazione di rigidità salariale e limitata mobilità del lavoro continuerà a determinare forti differenziali di disoccupazione e reddito tra regioni arretrate e sviluppate.

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Sommario 20 febbraio 2006

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Le priorità della politica economica

  1. riccardo boero

    Egregio Professore,

    vorrei complimentarmi per il suo intervento sintetico, documentato e ineccepibile nello sviluppo e nelle conclusioni. Personalmente ritengo che il problema della mobilita` intraeuropea sia causato in primo luogo dalle fortissime differenze linguistiche e in secondo luogo dallo Welfare che allevia le situazioni di grave disagio. Non tutti i lavoratori europei sono scienziati poliglotti, e se le molte persone che a volte parlano con difficolta` la lingua nazionale preferiranno sempre il sussidio di disoccupazione al duro compito di apprendere una lingua straniera, anche il lavoratore medio, titolare di un diploma di scuola secondaria trovera` sempre piu’ facile adattarsi ad un lavoro meno remunerativo nel proprio paese che a nuovi regolamenti scritti in lingua straniera, nuove culture e diciamolo anche purtroppo spesso pregiudizi e emarginazione.
    Io stimo che non vi sara` una soddisfacente mobilita` intraeuropea fino a che non avremo una lingua unica. Basta vedere l’esempio svizzero dove la mobilita` fra le zone linguistiche e` modestissima, e il contro esempio italiano dove malgrado un recente rallentamento, le ondate migratorie dal Sud hanno cancellato l’identita` culturale e dialettale di interi territori soprattutto del NordOvest industriale, meta privilegiata dell’emigrazione meridionale.

  2. Nicola Borri

    Gentile prof. Faini,
    almeno in Italia, le distorsioni del mercato del lavoro nelle zone a elevata disoccupazione suppliscono in parte alla mancanza di una struttura di welfare e di ammortizzatori sociali. Il lavoro “protetto” e retribuito secondo contratti nazionali che non tengono conto del diverso costo della vita finisce spesso per essere un sussidio nei confronti dei componenti della famiglia privi di lavoro perche’ disoccupati, non occupati , anziani o malati. Ritengo che questa sia stata una scelta politica precisa, che personalmente non condivido. Tuttavia, mi sembra non si possa pensare ad una riforma del mercato del lavoro come quella da lei descritta (che appoggio) se non accompagnata da una riforma del welfare.

  3. Andrea Mantovani

    Concordo pienamente con quanto espresso dal Professor Faini. Tra l’altro vorrei sottolineare che mobilità del lavoro e flessibilità dei salari sono una delle condizioni già individuate (da anni) dalla teoria delle aree valutarie ottimali affinchè una unione monetaria funzioni bene. Finchè i governi non si decideranno ad affrontare il tema delle riforme del mercato del lavoro, dell’unione monetaria vedremo solo i costi. Mi pare però che, almeno in Italia, manchi un governo che abbia un “capitale politico” sufficiente da spendere in una riforma di questo tipo. Il timore è che la mancanza di coraggio politico dei governanti finisca per mettere in crisi l’unione.

  4. lucaverbo

    Egregio professore vorrei aggiungere al suo articolo una breve riflessione partendo da quanto è successo con il caso Fiat a Melfi. L’operaio lucano obiettivamnte percepiva uno stipendio misero e l’aumento era giustissimo. Ma altrettanto giusto sarebbe che se l’operaio di Melfi percepisce ora 1000 euro (prima 700) quello di Torino avesse un salario almeno di 1500. Non nascondiamoci dietro un dito, a Melfi come in tutto il sud il costo della vita è nettamente inferiore rispetto al nord, mediamente è quasi la metà (il pane giù costa 1 euro al kg, a bologna in media 4). Il sindacato non dovrebbe difendere solo la sua forza e il suo potere con la propaganda dell’uguaglianza dei lavoratori, ma difendere il loro reale potere d’acquisto. Si potrebbe partire dalle gabbie salariali o da strumenti ancora più flessibili per ristabilire una certa parità di tenore di vita tra la popolazione italiana. Faccio un altro esempio per capirci ancora meglio: l’insegnante milanese che percepisce 1200 euro, per non morire di fame è costretto a fare il doppio lavoro, lo stesso insegnante a Lecce o altrove nel sud conduce un buon tenore di vita. E’ ora che il sindacato faccia veramente la sua parte in difesa dei lavoratori e non di se stesso.
    Grazie e buon lavoro a tutti!

  5. Gianluca Cocco

    Salve,
    Vorrei esprimere il mio modesto disappunto rispetto alla tendenza che vede nelle rigidità salariali la causa principale del dualismo territoriale italiano. E’ vero che i pur significativi differenziali salariali tra Nord e Sud non riflettono i più ampi differenziali di produttività tra queste macro-aree. Tuttavia, finchè al Sud ci saranno una notevole carenza di infrastrutture, un costo del denaro più elevato, una più scarsa capacità di innovazione e la carenza di programmi di formazione professionale mirata, potremmo anche legalizzare il lavoro sommerso, ma il divario in termini di tassi di disoccupazione rimarrebbe. Quanto al potere d’acquisto, i salari reali al nord sono gia notevolmente superiori, almeno nel privato. Penso che all’insegnante che paga il pane 4 volte tanto rispetto al collega del Sud non rimanga che indignarsi di fronte alla liberalizzazione dei prezzi dei beni di prima necessità!
    Saluti
    http://www.tesionline.it/default/tesi.asp?idt=9866

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