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Come superare il dualismo del mercato del lavoro

L’opzione congressuale della Cgil per il superamento del dualismo del diritto e del mercato del lavoro può costituire la via giusta per un “superamento” non regressivo della legge Biagi; a condizione che la nuova “rete di sicurezza” universale, uguale per tutti, preveda un accesso graduale al regime di stabilità piena, per sdrammatizzare l’atto dell’assunzione in azienda e consentire a ciascuno di trovare più facilmente la collocazione in cui può dare il meglio di sé. Tre progetti indicano altrettanti modi in cui questa strada può essere realisticamente battuta dal nuovo Governo.

Come superare il dualismo del mercato del lavoro, di Pietro Ichino

La scelta compiuta dalla Cgil con il congresso di marzo, sul terreno della riforma dei rapporti di lavoro, è difficilmente contestabile nel suo assunto di fondo: la protezione offerta dal diritto del lavoro, quale che ne sia il contenuto, deve essere estesa a tutti i lavoratori in posizione di dipendenza economica; va superata la distinzione, in larga misura artificiosa, tra “subordinazione” e “parasubordinazione”, tra “lavoratori” e “collaboratori continuativi”; va disboscata la giungla dei rapporti di lavoro “atipici”, che genera distorsioni e disparità di trattamento ingiustificate e che, oltretutto, con la sua complessità non giova neppure alle imprese; è ora di superare il dualismo che (non in conseguenza della legge Biagi del 2003, ma in misura crescente ormai da molti anni) caratterizza fortemente il diritto e il mercato del lavoro italiani, scaricando tutto il peso della flessibilità di cui imprese ed enti pubblici hanno bisogno soprattutto sulle nuove generazioni.

Un nuovo assetto del lavoro tipico

Questa opzione, tuttavia, pone bruscamente la stessa Cgil e l’intero movimento riformatore di fronte a un dilemma cruciale. Estendere a tutti i lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza lo Statuto dei lavoratori, così com’è, non è possibile senza imporre al sistema un’ingessatura insopportabile e senza mandare a casa centinaia di migliaia, se non milioni, di persone.
Se la parola d’ordine della riunificazione del diritto e del mercato del lavoro non vuole restare uno slogan vuoto, se vuole portare a una riforma effettiva e incisiva, essa comporta l’ideazione di una nuova “rete di sicurezza” davvero suscettibile di applicazione universale: un nuovo assetto del rapporto di lavoro tipico, capace di sostituire l’intera giungla attuale di tipi contrattuali.
Voltar pagina rispetto a vent’anni di crescente dualismo del mercato del lavoro italiano è il solo significato positivo che la politica del lavoro del nuovo Governo può attribuire alla propria scelta programmatica del “superamento” della legge Biagi. Un significato che sarebbe certamente piaciuto allo stesso Marco Biagi (posso dirlo, per averne lungamente discusso con lui negli ultimi anni della sua vita) e che aiuterebbe a trovare un punto di intesa su questo tema non solo tra le diverse anime del centrosinistra, ma anche con alcuni settori dell’opposizione interessati a evitare il “muro contro muro” su quella legge.
Se questo è l’obiettivo, il nuovo assetto del rapporto di lavoro tipico dovrà, sì, estendere a tutti i lavoratori, fin dal loro primo ingresso nel tessuto produttivo, oltre alle assicurazioni sociali fondamentali per malattia, maternità/paternità, invalidità e disoccupazione, anche una protezione piena e forte contro le discriminazioni e contro l’uso arbitrario o comunque infondato del potere disciplinare. Ma, per il resto, nella prima fase della vita lavorativa i rapporti di lavoro dovranno necessariamente avere un grado di stabilità minore rispetto alle fasi ulteriori. Questo è necessario, innanzitutto, per consentire la migliore allocazione delle risorse umane nel tessuto produttivo: ciò che può richiedere talvolta più di un tentativo di inserimento aziendale della stessa persona, in funzione del suo stesso interesse alla migliore valorizzazione delle sue capacità. Ma è necessario, inoltre, per evitare un drastico effetto depressivo sulle possibilità dei giovani di accesso al lavoro regolare: in un sistema nel quale la prima assunzione fosse consentita soltanto con un rapporto di lavoro ad alto grado di stabilità, i più giovani sarebbero fortemente penalizzati rispetto a chi già lavora e ha quindi già alle spalle una storia professionale che fornisce informazioni sulle sue qualità specifiche (non va dimenticato che proprio per questo, nella seconda metà degli anni Settanta, fu il sindacato – sulla scorta soprattutto di un’idea di Bruno Trentin – a chiedere l’introduzione del contratto di formazione e lavoro: cioè, in sostanza, un contratto a termine di ingresso con retribuzione ridotta, in funzione dell’inserimento professionale dei più giovani).

Le tre proposte

I tre progetti che vengono presentati qui di seguito costituiscono un contributo a questa riforma. L’idea che li accomuna è quella di delineare un dispositivo di accesso graduale al regime di stabilità piena del rapporto di lavoro, suscettibile di sostituirsi integralmente all’insieme eterogeneo dei rapporti di lavoro “fuori standard” che caratterizzano il regime attuale.
Il primo (Boeri-Garibaldi) prevede un rapporto di lavoro unico a tempo indeterminato, assistito fin dall’inizio da protezione forte (articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) contro discriminazioni e licenziamento disciplinare ingiustificato, e, per quel che riguarda il licenziamento per motivi economico-organizzativi, caratterizzato da un primo periodo di tre anni di protezione soltanto indennitaria. Il secondo (Leonardi-Pallini) si caratterizza rispetto al primo per una flessibilizzazione più limitata della tutela contro il licenziamento per motivi economico-organizzativi: un periodo di franchigia allungato fino al massimo di un anno, seguito da un regime di mera incentivazione dell’accordo economico tra le parti per la cessazione del rapporto in alternativa all’applicazione della vecchia disciplina protettiva, sul modello della legge tedesca Hartz del 2003.  Il terzo (Andrea Ichino) si distingue invece dai primi due per la previsione, in alternativa al contratto da tempo indeterminato con protezione piena fin dall’inizio, della possibilità di prima assunzione con un contratto a termine di durata non inferiore a tre anni, non rinnovabile presso la stessa impresa, fruibile dallo stesso lavoratore fino a un massimo di tre volte presso imprese diverse, e con costi di transazione ridotti al minimo; in altre parole: libertà di sperimentare con il lavoratore a termine, purché sia un esperimento serio, con un orizzonte temporale sufficientemente ampio, sul quale l’ente o impresa che assume investe almeno tre anni di retribuzione (una soluzione che presenta un interesse particolare per il settore pubblico).
Sono solo tre possibili assetti di un nuovo regime unitario del rapporto di lavoro tipico, suscettibili anche di combinazione tra loro, o di diverse modulazioni dei parametri di protezione. Suscettibili, peraltro, di favorire l’ingresso o il rientro nel mercato del lavoro non solo dei giovani, ma anche delle donne dopo la maternità, nonché di qualsiasi lavoratore maturo o anziano, per il quale l’alternativa secca tra disoccupazione e stabilità integrale costituisce sovente un ostacolo grave al reimpiego. Sono tre possibili riforme della materia a costo zero per le casse dello Stato. E sono tre possibili riforme politicamente più facili, per la prudenza e moderazione cui sono ispirate, rispetto ad altre di cui si è discusso di recente in Europa (tutte e tre meno radicali, per esempio, rispetto a quella proposta da Blanchard e Tirole, che pure merita sempre di essere tenuta presente nel dibattito, per la logica stringente cui essa si ispira).
Ma ciò che più conta è che, per un verso, il superamento del dualismo attuale tra lavoro “di serie A” e “di serie B” non è ragionevolmente pensabile se non attraverso una rimodulazione delle protezioni almeno nella prima fase della carriera lavorativa di tutte le persone. Per altro verso, esso è politicamente proponibile – nel quadro di una riforma concertata tra le parti e il Governo sul modello dell’accordo tripartito spagnolo di questi giorni – proprio in quanto la rimodulazione riguarda soltanto quella prima fase, non intaccando pertanto l’assetto del rapporto né nella fase intermedia né in quella finale.

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Mercato del lavoro e diritti, di Maria Lamelas e Alessio Liquori

Le proposte avanzate su lavoce.info, pur nella loro diversità, contengono una premessa comune, evidenziata nel pezzo introduttivo a firma di Pietro Ichino: la necessità di superare la distinzione, giustamente definita in gran parte “artificiosa”, tra lavoro subordinato e lavoro (cosiddetto) parasubordinato. Ci pare anche di scorgere un obiettivo comune: costruire un sistema di “bastone e carota” che incentivi il ricorso al contratto a tempo indeterminato disincentivando, invece, il ricorso alla parasubordinazione (soprattutto quando, appunto, è artificiosa e nasconde un rapporto di effettiva subordinazione).

Perché hanno successo i contratti atipici

Si tratta di una premessa e di un obiettivo importanti e condivisibili, perché questa impostazione contribuisce a superare un limite del dibattito sui problemi e le prospettive di riforma del mercato del lavoro italiano. Il dibattito, infatti, si è svolto principalmente sulla base di un preciso presupposto teorico, che individua nei costi di licenziamento, considerati troppo alti in Italia, il problema fondamentale, la cui soluzione è rappresentata da una maggiore flessibilità degli istituti contrattuali. Le forme contrattuali flessibili, infatti, consentirebbero di diminuire i costi di licenziamento, e di conseguenza, di spostare “in alto a destra” la domanda di lavoro.
Il successo della parasubordinazione e in particolare dei co.co.co, almeno fino a che proprio la legge 30 non ne ha ridotto il campo di applicabilità, non è stato dovuto, però, al contenimento dei firing cost: qualsiasi forma di contratto a termine, infatti, offre una uguale soluzione al problema, laddove prevede la temporaneità del rapporto di lavoro.
Il motivo principale per cui le imprese (e le pubbliche amministrazioni) hanno fatto ricorso e tuttora ricorrono ai contratti di parasubordinazione è la minore incidenza degli oneri sociali (e quindi del Clup, ipotizzando una uguale produttività del lavoratore). Se la questione fosse davvero il “matrimonio a vita” tra impresa e lavoratore che il contratto a tempo indeterminato (insieme all’articolo 18) configura, allora alle imprese basterebbe fare ricorso al contratto a tempo determinato, che esiste da sempre. Ma la parasubordinazione ha rappresentato un’alternativa preferibile proprio perché, a parità di retribuzione netta, costa meno in termini di oneri sociali e, data la debolezza contrattuale del parasubordinato, ne consente comunque la traslazione sul lavoratore stesso. Il parasubordinato, dunque, ha “spiazzato” il tempo determinato e non il tempo indeterminato.
Se il ragionamento appena effettuato non è infondato, allora ci sembra lievemente strabico un dibattito che, avendo per oggetto la parasubordinazione, sia incentrato sul tema dei firing cost, su cui ci sembrano insistere anche le proposte pubblicate su lavoce.info.
Il mercato del lavoro italiano è sicuramente inefficiente dal punto di vista allocativo e la legge 30 non ha di certo migliorato la situazione. (1) Quindi è necessario che si rimetta mano alla legislazione, semplificando drasticamente il quadro normativo, per perseguire gli obiettivi che giustamente le proposte pubblicate si prefiggono, in particolare la forte disincentivazione o, al limite, l’abolizione ex-legis della parasubordinazione. Si potrebbe rilanciare anche l’idea, originariamente proposta da Pietro Garibaldi sempre su lavoce.info, di una contrattazione totalmente libera, pur nel quadro di alcuni diritti e garanzie inderogabili riconosciute al lavoratore.
Detto questo, però, le proposte fatte ci sembrano aggredire solo un lato del problema perché l’inefficienza del mercato del lavoro italiano deve essere inquadrata nel generale stato di debolezza del sistema produttivo nazionale e di insostenibilità del nostro welfare state di stampo lavoristico e categoriale. Ci sembra, cioè, che il successo della parasubordinazione, e il proliferare delle partite Iva dopo la legge 30, sia un segnale del fatto che le imprese italiane (non tutte, ma una parte consistente) non siano più in grado, o non abbiano più l’intenzione, di finanziare il sistema di tutele sociali che il welfare state italiano riconosce al lavoratore “tipico”, né alcuni diritti costituzionalmente riconosciuti come le ferie obbligatorie, la garanzia dell’orario di lavoro e la stabilità di mansioni e competenze. Se questo dubbio ha un qualche fondamento, allora un punto fondamentale – solo frettolosamente accennato dagli interventi pubblicati su lavoce.info – è una profonda riforma del welfare (e non solo degli ammortizzatori sociali) sulla base dei principi di universalità e individualità della prestazione che si integri strettamente con qualsivoglia riforma del mercato del lavoro. L’alternativa, inaccettabile, è quella di soddisfare la domanda di “flessibilità” di quella parte delle imprese che, in realtà, chiede una riduzione strutturale del costo del lavoro ottenuta al prezzo della compressione dei diritti e delle garanzie sociali dei lavoratori e dei disoccupati.

(1) Per una critica più circostanziata, si permetta di rimandare a Lamelas e Rodano 2005.

La riforma del lavoro dopo la legge Biagi, di Valerio Speziale

I contributi sulla riforma dei rapporti di lavoro pubblicati sulla lavoce.info sono di grande interesse. Alcune proposte sembrano più convincenti di altre, mainvece di sottolineare le contraddizioni e i limiti di ciascuna di esse, mi sembra più opportuno esprimere alcuni concetti fondamentali.
Concordo ovviamente sul presupposto fondamentale della riforma, che deve avere lo scopo di superare il dualismo del mercato del lavoro e di realizzare una riunificazione dei rapporti di lavoro all’interno di un quadro normativo più lineare e che eviti abusi ed emarginazione di quote costanti di lavoratori.

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Il lavoro dei giovani

Questi lavoratori possono trovare difficoltà nel reperimento di occupazione perché hanno scarsa professionalità “pratica”, anche se magari dispongono di una formazione teorica elevata, e di una produttività più ridotta rispetto a un lavoratore ordinario dovuta alla minore esperienza e capacità. Il che rende meno conveniente per l’impresa l’erogazione di un salario che sia equivalente a quello di un lavoratore normale. Per ovviare a questa situazione occorrerebbe:
a) eliminare tutta la congerie di vari contratti a termine previsti dalla legislazione vigente per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro;
b) prevedere un contratto formativo di durata predeterminata legata al tipo di formazione che deve essere effettuata, che dovrà essere svolta sia all’interno che all’esterno dell’azienda e dovrà essere certificata da soggetti pubblici o privati specializzati;
c) stabilire un numero massimo di contratti formativi, con lo stesso o con diversi datori di lavoro e relativi a professionalità differenti, per evitare l’abuso della formazione e di imporre al lavoratore uno stato di perenne “precarietà formativa”;
d) garantire al giovane un salario netto equivalente a quello di un lavoratore ordinario, ma con un costo del lavoro ridotto in modo consistente, per compensare la sua minore produttività media;
e) introdurre incentivi economici per agevolare la stabilizzazione del rapporto alla cessazione il periodo di formazione, che, se convertito in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non potrebbe avere il periodo di prova.

I contratti di lavoro a tempo determinato

Per questa tipologia contrattuale sarebbe necessario chiarire che soltanto le esigenze temporanee di lavoro, specificate dalla legge e dalla contrattazione collettiva, possono giustificare un contratto a termine. La proroga del contratto, possibile soltanto per le stesse esigenze temporanee o per altre che siano eventualmente sopravvenute, dovrebbe essere contenuta entro i limiti massimi rigorosi. Nel caso di reiterazione di contratti a termine per esigenze temporanee ricorrenti che fanno di questo contratto una modalità ordinaria di utilizzazione del lavoro a termine, sarebbe opportuno introdurre un limite massimo ai rapporti a tempo determinato, per favorire le assunzioni stabili. Anche in questo caso sarebbe opportuno introdurre incentivi economici per la stabilizzazione dei contratti temporanei. I limiti all’utilizzazione del contratto, sia di tipo qualitativo che quantitativo (con “tetti” massimi alle assunzioni in percentuale rispetto ai lavoratori stabili), dovrebbero essere affidati alla contrattazione collettiva.
Queste proposte consentirebbero di soddisfare le esigenze di alcuni settori economici, che sono sottoposti a variazioni nella domanda di beni di servizi provenienti dal mercato molto più accentuate rispetto al passato, riaffermando nello stesso tempo la centralità del contratto a tempo indeterminato come normale rapporto di lavoro.

I rapporti di lavoro stabili

Anch’io penso che sarebbe necessario prevedere periodi di prova più lunghi di quelli attualmente previsti dalla contrattazione collettiva e che sono assolutamente insufficienti per comprendere le qualità personali e caratteriali del lavoratore.
Non mi sembra, al contrario, che, dopo quanto è accaduto nel recente passato (referendum sull’articolo 18, mobilitazione sindacale), vi siano le condizioni per una riforma della disciplina dei licenziamenti. D’altra parte, sia dal punto di vista scientifico, sia sotto il profilo empirico, non esiste alcuna prova di una correlazione negativa tra una tutela forte dei licenziamenti e i tassi di attività e di occupazione presenti nel nostro paese (come dimostra la situazione del Nord e del Centro Italia).
Sono convinto, invece, che sarebbe opportuno introdurre una riforma del processo del lavoro che preveda un procedimento speciale, modulato su quello dell’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, che permetta di avere in tempi assai rapidi un doppio grado di giudizio in materia di licenziamenti individuali e collettivi. L’esito celere della controversia, infatti, renderebbe assolutamente meno drammatico l’eventuale accertamento dell’illegittimità del licenziamento e, in considerazione della difficoltà di rientrare in un’azienda nella quale non si è graditi, stimolerebbe il lavoratore a chiedere l’indennità sostitutiva della reintegrazione o a trovare soluzioni transattive (riducendo, anche in questo caso, l’impatto negativo sulle imprese).

Gli ammortizzatori sociali

Oltre alla previsione di un salario minimo per i lavoratori oggi non garantiti dalla contrattazione collettiva, è assolutamente necessario prevedere un’indennità di disoccupazione ben più consistente di quella attuale soprattutto per i giovani o per i lavoratori che utilizzino forme contrattuali flessibili e per i quali c’è una continua alternanza tra lavoro e non lavoro. Qualora non vi fossero le risorse necessarie, sarebbe opportuno introdurre una imposta specifica e generalizzata che, con un sacrificio individuale e non molto elevato, garantisca il finanziamento (come accade con “l’eurotassa” che ci consentì l’ingresso in Europa).

Le collaborazioni continuative e coordinate

Le analisi più recenti hanno messo in evidenza che i parasubordinati sono molto meno di quanto si credeva (400mila unità nel 2004, secondo il Rapporto Cnel 2005) e che quindi il dibattito che da anni si sta sviluppando su questo tema non è forse così giustificato. La maggior parte degli studiosi concordano sull’inidoneità del “progetto” a selezionare effettivamente questa tipologia di lavoro. Nell’ambito dell’attuale definizione dei co.co.co prevista dall’articolo 409 cpc, che non andrebbe modificata, occorrerebbe prevedere l’esistenza di due contratti di collaborazione, una a termine, per esigenze temporanee, e una a tempo indeterminato. Bisognerebbe poi prevedere il medesimo costo contributivo del lavoro subordinato (per non stimolare convenienze a eludere gli oneri della subordinazione), garantire tutele adeguate per malattia, infortunio, gravidanza (più incisive di quelle attuali) e, nelle collaborazioni a tempo indeterminato, prevedere la possibilità di recedere dal rapporto con un’indennità risarcitoria modulata sulla lunghezza del servizio prestato.
Questa disciplina dovrebbe essere prevista soltanto per le collaborazione effettuate in una situazione di “dipendenza economica”, determinata in base a caratteri particolari (ad esempio, la monocommittenza) o a indici economici.

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Sommario 2 maggio 2006

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  1. Francesco Bogliacino

    Sono d’accordo sul superamento del dualismo, ma credo che sia un atto dovuto ammettere finalmente che la retorica della flessibilta’ era una presa di posizione ideologizzata e non supportata ne’ sul piano teorico ne’ su quello dei dati.
    sul piano teorico, basti citare il caso di Bertola e Saint Paul che studiando l’effetto dei firing costs ottengono risultati opposti solo cambiiando leggermente le assuzioni iniziali; su quello empirico per ogni sostegno empirico posso citare una smentita, Howell di new school ha rifatto le stesse regressioni di nickell (un suo famoso paper del 96 e’ spesso citato come “la prova”) con i dati aggiornati ottenendo risultati opposti, lo stesso ottiene Blanchard riaggiornando un suo precedente lavoro.
    cosi’ dopo anni in cui chiunque sollevasse dubbi sulle politiche veniva tacciato di anti modernizzazione (come se non fosse invece la flessibilita’ ad essere un ritorno indietro), ci ritroviamo con un obrobbrio che va chiamato per quello chee e’: un regalo ad una struttura produttiva che NON HA PIU’ NULLA DA DIRE, un sistema che, dopo il crollo del sistema politico che piaccia o no faceva da collante locale e indirizzo per distretti e compagnia cantante, e’ completamente incapace di affrontare la concorrenza.
    La vera scelta e’ quella del cambiiamento strutturale, la flessibilita’ si puo’ ottenere con una forza lavoro capace di adeguarsi a differenti ruoli in azienda, non con lo scandalo del “ho quattro lavori e guadagno 800 euro”
    Cordiali Saluti

  2. luigi martino

    Faccio un es. per spiegare il concetto. Le attuali società interinali dovrebbero selezionare ed assumere risorse soltanto a tempo indeterminato così come fanno tutte le altre imprese. La differenza è che esse potrebberlo impiegarle (come fanno attualmente) ovunque sia più opportuno, sfruttando gap di domanda di lavoro. Sarà a carico di tali società assorbire la flessibilità, spostando le risorse da società in surplus di lavoratori a società in deficit. L’onere del rischio di “mancanza di lavoro” non sarebbe sui lavoratori assunti dalle società interinali, ma sulle società stesse. A compensazione di tale rischio la remunerazione proveniente dalle società che utilizzino risorse delle interinali (le società pagherebbero, ceteris paribus, di più un lavoratore impiegato tramite soc.interinale e sarebbero incentivate pertato ad assumerlo nel proprio organico riducendo il costo) .
    Il fondamento della nostra economia è l’impresa, oneri e onori vanno ad essa. Le misure prospettate da Ichino sono di valore, ma bisogna spostare il rischio di “non lavoro” dall’individuo all’impresa, per avere una vera “pari dignità” per tutti i lavoratori.

  3. Matteo Olivieri

    Le tecniche giuridiche sono importanti per soddisfare le esigenze di datore e lavoratore, ma credetemi sbiadiscono di fronte al calo motivazionale degli atipici per cui qualsiasi misura di stabilizzazione è ben accetta. La principale conseguenza della precarizzazione è, nella mia esperienza diretta ed indiretta, il calo di motivazioni e la riserva di produttività inespressa che si creano. Volete vedere che dietro il calo della produttività degli ultimi anni, a fianco di valide risposte di altro genere, troviamo anche questa?
    Grazie

  4. Claudio Resentini

    Colgo il sasso lanciato da Luigi Martino per estendere il discorso dello “spostamento del rischio” e fare una considerazione generale che mi ispira la lettura delle diverse proposte dei redattori della voce: sembra che sul cosiddetto “mercato” del lavoro sia il lavoratore a doversi assumersi delle specie di “rischi d’impresa” (disoccupazione, sottoccupazione, retribuzione inadeguata al costo della vita, ecc.) e che questi tuttalpiù possano essere socializzati attraverso ammortizzatori sociali più o meno efficaci…ma dov’è l’impresa in tutto questo? A parte l’ipotesi di qualche costo economico in più le imprese attraverso l’utilizzo di lavoro precario non farebbero altro che esternalizzare il rischio d’impresa e scaricarlo sulle spalle dei lavoratori e/o della collettività.
    A mio parere occorre rimettere alcune cose al loro posto chiedendo alla classe imprenditoriale di questo paese di riprendere su di sè l’onere dei rischi d’impresa, compresi quelli corrispondenti alla possibilità di trarre un profitto dal lavoro di altri cittadini.
    In altre parole occorre ristabilire il patto sociale, la cui rottura rappresenta a mio avviso la causa di molti dei problemi sociali ed economici attuali.
    Cordiali saluti
    Claudio Resentini

  5. Maria Scarpetta Clavarino

    Le obiezioni di Claudio Resentini e Luigi Martino presentano un ritratto dell’umanita’ e del lavoro che forse si puo’ rinnovare. La loro visione divide le risorse produttrici in due categorie: quella degli imprenditori, che possono accollarsi qualsiasi rischio perche’ provvisti di magiche ricchezze inesauribili (o per i quali il rischio costituisce un divertente stimolo) e quella dei lavoratori dipendenti, i quali, al contrario, parrebbero motivati solo (o in gran parte) dalla previsione certa e illimitata nel tempo dello stipendio fisso.
    Ci si puo’ chiedere quale tra queste due categorie sia piu’ stimabile. Se e’ piu’ ammirevole chi e’ capace di affrontare un rischio perche’ ha una motivazione interiore tale da renderlo piu’ coraggioso, perche’ negare che anche il lavoratore dipendente abbia questo coraggio?
    Queste considerazioni aprono un discorso che sfiora una nuova (o forse una tradizionale) antropologia: l’uomo e’ in movimento, e il movimento passa per forza attraverso il rischio. La pretesa della certezza assoluta riguardo al futuro rende l’uomo un fossile, oppure un disperato.

  6. hominibus

    Il rischio di impresa dovrebbe comprendere solo il ritorno del capitale investito mediante la necessaria produttività e redditività richiesta da un mercato sempre più globale, mentre non dovrebbe essere gravato minimamente dalla aspettativa di stabilità del lavoratore, essendo questa un problema sociale da risolvere con il complementare potenziamento delle strutture private o pubbliche per la fornitura di prestatori d’opera a tempo o a progetto.
    Il mondo del lavoro deve trovare tale assetto se si vuole realizzare contemporaneamente competitività per le imprese e sicurezza per i lavoratori, due obiettivi difficilmente conciliabili.
    Infine, un lavoratore che é preparato ed addestrato ad affrontare una varietà di lavori in contesti aziendali diversi é più utile alla società, perché veicolo di esperienze, rispetto ad un lavoratore che passa una vita a fare sempre le stesse cose, tra la noia della routine e la certezza di non sapere fare altro.

  7. Franco MARGHERA

    Non so più ormai da quante parti ho espresso il mio pensiero sul superamento del dualismo del mercato del lavoro. Ho sempre comunicato in internet (oltre ai miei personali occasionali …pazienti di strada) con i siti dei vari Ichino, Boeri, Bersani, l’ Unità, Il Fatto Quotidiano, etc; ma non ho mai finora sentito o letto una sola parola sulla mia proposta di fissare per legge il tetto minimo di accesso-stipulazione al contratto a termine, progetto, parasubordinato o altre fattispecie di sfruttamento temporaneo che siano. Minimo basato e tratta da criteri regolanti nell’attuale legislazione situazioni generali nel paese, quali quelle, ad. es., della misurazione del reddito presuntivo per il calcolo del risarcimento dell’invalidità permanente nel campo dell’assicurazione obbligatoria per la circolazione degli autoveicoli. Ho dovuto attendere la fatidica domenica di Mirabello per sentire dire dal Presidente della Camera dei Deputati una dichiarazione in tal senso: salari e stipendi più alti per i contratti a tempo determinato!

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