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Elogio postumo dei co.co.co

Apparsi verso la metà degli anni Novanta, i co.co.co sono il prodotto di un progressivo adattamento alle normative esistenti e hanno risposto relativamente bene alle esigenze sia delle imprese che dei lavoratori. Hanno sopperito ai bisogni di flessibilità in entrata e in uscita del mercato del lavoro. Gli abusi della formula hanno interessato più la pubblica amministrazione che il settore privato. Non era necessario, quindi, farli scomparire. Anche perché le collaborazioni a progetto, previste dalla Legge Biagi, sono meno flessibili e più a rischio di contestazione.

Secondo le notizie di questi giorni, le imprese italiane non farebbero più ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative (i famosi co.co.co), mentre si gioverebbero di altre forme di contratti a termine per assicurare una certa flessibilità. Depotenziati dalla Legge Biagi, vilipesi dalla letteratura sindacale, abusati da alcune imprese, i co.co.co sembrano essere arrivati ormai alla fine della loro corsa. Dunque, è forse possibile fare ora una prima riflessione su questa esperienza che ha rappresentato la vera novità del nostro mercato del lavoro negli ultimi cinquanta anni.

Breve storia dei co.co.co

I co.co.co emergono, in modo quasi spontaneo, dalle pieghe della legislatura del lavoro nella metà degli anni Novanta, quando ci si rende conto che il mercato del lavoro ha bisogno di maggiore flessibilità. La forma della collaborazione coordinata continuativa già esisteva dagli anni Settanta, ma era poco nota e poco utilizzata. Nel 1995, quando si varò la riforma Dini del sistema pensionistico, ci si ricordò di queste figure e si impose loro un contributo previdenziale del 10 per cento, per racimolare un po’ di entrate che aiutassero il riequilibrio del sistema pensionistico. L’imposizione di una contribuzione funzionò come una sorta di legittimazione di fatto della formula, che iniziò a essere utilizzata dalle imprese in modo più diffuso. Poi venne il pacchetto Treu, che legalizzava il lavoro interinale, sulla base dell’accordo di concertazione del luglio 1993, e si avviò così la stagione dei contratti a termine, che in Italia erano stati, fin lì, mal visti e mal sopportati. Non essendoci stata alcuna normativa specifica che li regolarizzasse esplicitamente e non essendo stato necessario ricorrere a estenuanti contrattazioni sindacali che ne definissero al millimetro le condizioni, i co.co.co sono dunque il prodotto di un progressivo adattamento alle normative esistenti e, quindi, hanno risposto relativamente bene ai bisogni, sia delle imprese che dei lavoratori.

Vantaggi per imprese e lavoratori

I co.co.co hanno sopperito ai bisogni di flessibilità in entrata e in uscita del mercato del lavoro. Per le imprese, hanno rappresentato una valvola per ampliare la capacità produttiva quando il mercato lo richiedeva e per avviare sperimentazioni, ciò che ha concesso a molte di loro di crescere senza il rischio di costi eccessivi. Hanno anche permesso di provare la manodopera per un periodo più lungo e in condizioni di maggiore libertà, ciò che si è tradotto in un miglioramento delle capacità di selezione delle risorse umane e, quindi, in un miglioramento della capacità produttiva delle imprese.
Ma anche per i lavoratori c’è stato un vantaggio non trascurabile. Per molti giovani si è aperta la possibilità di sperimentare un lavoro e di formarsi una esperienza che prima era molto difficile da realizzare. Per molti di loro è caduta, o per lo meno si è abbassata, la barriera al primo ingresso nel mercato del lavoro: l’accesso senza qualificazione lavorativa era difficile, a meno di una spinta (la famosa “raccomandazione”), necessaria per essere assunti a tempo indeterminato. A non pochi giovani l’esperienza come co.co.co ha consentito di capire meglio le proprie attitudini e le proprie preferenze, oltre a permettere di apprendere come affrontare un lavoro, favorendo così una migliore collocazione.
La maggiore libertà ha giovato a tutti. L’occupazione è cresciuta, compresa quella a tempo indeterminato, e il tasso di attività, che fino al 1997 ristagnava sotto al 59 per cento, è poi progressivamente cresciuto fino al 63 per cento, anche grazie ai co.co.co. È così che, per la prima volta dopo molti anni, si è alfine realizzata quella crescita del “contenuto di lavoro per unità di Pil” che rappresentava un obiettivo di tutte le politiche del lavoro degli anni Ottanta e Novanta. Basti ricordare che, a fronte di uno sviluppo senza occupazione, si riteneva necessario far crescere il sistema economico di almeno il 2 per cento l’anno per avere un qualche marginale effetto sull’occupazione. Erano anni in cui, paradossalmente, ci si lamentava dell’eccessivo aumento di produttività e lo si attribuiva alle resistenze delle imprese ad assumere, impaurite dalle rigidità connesse con la difficoltà a licenziare in caso di improvvisi cali della domanda.

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Gli abusi nella Pa

Certo, non sono mancate anche le situazioni di disagio per molti lavoratori e gli abusi da parte delle imprese. Ma questi ultimi hanno riguardato più la pubblica amministrazione che il settore privato. Nella Pa i successivi blocchi alle assunzioni, adottati per frenare il disavanzo pubblico, e i conseguenti raggiri usati dalle amministrazioni, hanno generato una schiera di lavoratori precari, assunti a tempo determinato, che venivano poi di volta in volta faticosamente riassorbiti con le tecniche tutte italiane dei condoni e delle sanatorie. Ma questa situazione non è da ascrivere alla formula dei co.co.co, bensì alla maniera di arginare la spesa pubblica, centrata sui “tagli” più che sulle “riforme”, con il risultato, alla fine, di aver fatto crescere comunque la spesa pubblica e di aver degradato il pubblico impiego. Si spera, ora. che le tesi del ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa prevalgano e si faccia veramente una riforma del pubblico impiego, invece dei blocchi delle assunzioni.
Nel settore privato, il ricorso eccessivo a questa forma di prestazione del lavoro ha riguardato soprattutto le nuove imprese, che proprio su queste formule lavorative sono nate (i call center in particolare), e che le hanno prescelte essenzialmente per la possibilità di pagare meno contributi. Sembra, però, che una soluzione possibile sia nell’innalzamento dei contributi.
Ma gli abusi non inficiano la buona prova della formula sul mercato del lavoro italiano: avrebbero potuto essere repressi senza far scomparire i co.co.co, che invece finiranno per essere in larga parte sostituiti dai co.co.pro, ossia dalle collaborazioni coordinate a progetto, come previsto dalla Legge Biagi, che di fatto li ha relegati a casi molto specifici. Con la differenza, ovviamente, che quelle a progetto sono formule di lavoro meno flessibili e più a rischio di contestazione, proprio perché legate a specifiche mansioni e obiettivi.
Resta da fare, infine, una considerazione: perché una legge come la Biagi, che di fatto ha ridotto la flessibilità imponendo vincoli ai co.co.co in cambio dell’introduzione di figure lavorative improbabili, come staff-leasing o job-sharing, è stata fortemente avversata dai sindacati e sostenuta dalle imprese? Questo risultato è, presumibilmente, il frutto di una stagione politica avvelenata, dove una onesta legge di regolazione del mercato del lavoro è stata usata come clava per battaglie di principio. Quasi facendo astrazione dai contenuti, i proponenti della legge hanno sostenuto che con essa si liberalizzava definitivamente il mercato del lavoro. L’opposizione ci ha creduto e l’ha combattuta come fosse la peste nera. Purtroppo, non sembra che il tempo abbia calmato gli spiriti e si continuerà ad assistere allo spettacolo di una destra, che si pretende liberale, che difende una legge che riduce certi margini di flessibilità e di una sinistra di simpatie sindacali che invece ne vorrebbero l’abolizione. Così va il mondo.

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  1. giuseppe

    L’abolizione dei co. co. co. si inquadra in un processo che vede la micro o piccola impresa penalizzata nei confronti della grande impresa. A parte gli eccessi da correggere e le aliquote contributive da elevare, l’utilizzo dei co.co.co.è servito a far emergere lavoro nero, proporre una flessibilità del lavoro alle piccole imprese, che non possono certo avvalersi dei complicati sistemi proposti dalla legge Biagi e rivolti soprattutto alla grande impresa. Attualmente è complicato sfuggire alla logica del lavoro nero per chi è “piccolo”, e magari vorrebbe crescere nella legalità, ma e frenato dalla rigidità dei contratti a tempo indeterminato. Ai tempi dei co.co.co. molti giovani privi di competenze specifiche venivano assunti in prova e in formazione,e molti di essi, dopo un congruo periodo, vedevano trasformato il loro contratto a tempo indeterminato. L’abuso che ne ha fatto la pubblica amministrazione è semplicemente scandaloso.

  2. Alessandra Cremonesi

    Gentili lettori e redattori,
    Da anni sento parlare di riforme del m.d.l., di T. Treu, Biagi e co.co.co. Ho 29 anni, laureata in sociologia con 110/110 e lode, 9 amici/che laureate in altre discipline come mepiù o meno 4 o 3 anni fa sono per lo stato italiano disoccupati: in realtà due sono in Inghilterra come ricercatori (biochimica e letteratura romanza), uno in Spagna (laureato in Geologia) e fa il P.R. per le disocteche di Benidorm e guadagna 2000 euro al mese (se vende anche pasticche non lo) uno sta a Parigi e fa castings (lavora 8 giorni al mese a 160 euro al giorno) e sta benissimo. Io sono in Belgio e collaboro a Festival ecc… mi occupo di video ma nessuno mi ha mai insegnato niente e guadagno 2100 netti al mese. Uno sta a Tunisi e fa il mediatore di stracci (panni lana e scarpe selezonate in Italia) per ditte tunisine che producono poi, dai materiali grezzi, tappeti che poi gli italiani delle città ricomprano ecc…Con questo voglio dire:
    1) A cosa è servito studiare cinque oppure sei anni? In un articolo di qualche mese sui costi per studente universitario per lo Stato italiano, le cifre si aggiravano intorno ai 9000 euro al mese…Perchè tutto questo? Qual’è il rapporto mondo universitario e mondo del lavoro in Italia?
    2) Dove sono le istutuzioni? Pronto? Mi sentite. La cosa più dolorosa che ho provato lasciando il paese dei magnaccia (l’Italia) è stato quando ho scoperto che andandomene nessuna istituzione mi ha chiesto niente (da Bruxelles due giorni fa ho chiamato l’ufficio competente del lavoro per chiedere come mettere la mia posizione in regola; non perchè mi interessasse, ma per vedere fino a che punto sono incompetenti: ebbene ho dovuto spiegare io la normativa alla persona responsabile per gli affari europei dell’ex collocamento
    3) Siamo sicuri che la discussione fondamentale non sia quella istruzione-lavoro? Scuola superiore ed università?
    4) Il contesto da cui parto e che ho qui osservato è Napoli.

  3. Chiara Pelizzoni

    Pur condividendo, segnalo macroscopici difetti di sistema. La posizione di cococo/co.pro diventa vessatoria se il lavoratore non è più un giovane sostanzialmente a carico della famiglia. Il cococo con esperienza (soggetto trentenne che lavora da alcuni anni) fa i conti con malcostume del sistema e normative contrarie alle pari opportunità. 1.Il parasubordinato è trattato alla stregua di un dipendente per orariodi lavoro e responsabilità. Accade però che la retribuzione venga fissata in base al netto. Mi spiego: i 1000 euro dati in busta paga, ispirati al compenso del collega dipendente, si traducono in un compenso reale molto inferiore. Il dipendente vede aggiunti TFR e contributi previdenziali (oltre 32% per i dipendenti, circa 19% per cococo), 1-2 mensilità aggiuntive ed è sottoposto a inferiore imposizione fiscale. Questo fa sì che i 1000 euro del cococo (ritenuti accettabili dalla società) si traducano in un compenso netto di 650-700 euro, a parità di posizione lavorativa. Tale dinamica è bizzarra in un mercato che generalmente remunera il rischio. Non solo la retribuzione dovrebbe tenere in considerazione quanto detto sopra e il fatto che il cococo deve poter provvedere ad eventuali contributi integrativi. Ma soprattutto il vantaggio della sua immediata “licenziabilità” dovrebbe originare una remunerazione più alta di quella del dipendente. 2.Si aggiunge poi un trattamento normativo beffardo: è da poco consentito l’atteso cumulo dei contributi versati nella gestione separata e nella gestione ordinaria. La norma richiede però che i versamenti nella prima siano relativi a min 5 anni. Questo fa sì che a un giovane che lavori come cococo per 2-3 anni e poi sia assunto dall’azienda, non vengano riconosciuti i contributi versati nei primi anni. L’apartheid dei cococo non fa onore al sistema. La flessibilità del mercato del lavoro dovrebbe sì risiedere nella possibilità di instaurare rapporti a tempo determinato, non già in un avvantaggiarsi di prestazioni sottocosto.

  4. Zefrem

    Egr. dott. Cipolletta,
    ho letto con immenso interesse il suo elogio postumo dei cococo e, in parte, dei nuovi co.pro., ma mi permetta di segnalare che nel suo ragionamento, come in quelli di molti esponenti di Confindustria, del Governo (passato e presente), e di commentatori politici c’è una evidente falla: ossia tendere ad assimilare il collaboratore al dipendente. Il collaboratore NON e’ un dipendente, e pertanto le due mansioni non possono essere equipollenti. Tutte le dissertazioni che trascendono questo principio sono, quindi, fallaci. Lei sostiene che alcune aziende hanno usato i cococo come “periodo di prova lungo”, ma se c’era bisogno di un periodo di prova lungo perche’ non allungarlo, o usare i contratti interinali, invece di rinnovare perpetuamente contratti di collaborazione ? Poi lei sostiene ancora che molti cococo sono stati assunti a tempo indeterminato, gradirei capire da dove trae questi dati. A parte il fatto che dalla mia esperienza personale, sul campo, emergono dati ben diversi, c’è una considerazione da fare: Perchè un datore di lavoro dovrebbe pagare 3000 un lavoratore che oggi gli costa 1000 e che in piu’ non ha alcun diritto, non può opporsi a qualsivoglia vessazione e può essere licenziato a piacere ? Fino a quando non arriveremo a dei contratti di collaborazione che tutelino il collaboratore MOLTO PIU’ di un dipendente non potremo avere vera possibilita’ di scelta, per aziende e lavoratori, e vero sviluppo dell’economia, specialmente quella sostenuta dalle giovani generazioni.

  5. Francesco Silvestri

    Quale amministratore di una micro-impresa privata di ricerche sull’economia dell’ambiente, sono contento di leggere una cosa che vado ripetendo da almeno due anni.
    Con il co.co.co si aveva una certa tutela del lavoratore, quantomeno in termini di continuità del rapporto, e non si costringeva l’impresa a defatiganti stipule di contratti e contrattini, proroghe e controproroghe. E’ vero che il co.co.pro tutt’altro che flessibile (se applicato seriamente; se invece è utilizzato per eludere contratti più impegnativi, allora è semplicemente una furbata).
    Allo stesso tempo, per un’impresa come la nostra, attiva in un settore di super-nicchia, dove le commesse arrivano a bando e la loro dimensione media è di 12mila Euro, dove è anche capitato che i soci siano stati remunerati meno dei lavoratori, evolvere verso contratti a tempo indeterminato è insostenibile, significherebbe chiudere.
    Insomma, ridateci il co.co.co!
    PS: faccio notare che il co.co.co è ancora in vigore per gli enti pubblici (e nell’ultimo anno, due nostri collaboratori sono trasbordati a un ente pubblico con un co.co.co; non so dargli torto).

  6. Flavio Favilli

    Ad integrazione della breve storia dei co.co.co. può ritornare utile ricordare come il problema, in termini di numerosità, fosse già emerso negli anni ottanta. E’ infatti del 1987(o 1988) la proposta di Stefano Patriarca, presidente dell’Ires Cgil, che in una intervista a Repubblica proponeva di sottoporre a contribuzione previdenziale tali figure lavorative stante la loro sempre maggiore numerosità ad aggiramento delle norme sul lavoro dipendente.
    Un‘ulteriore spinta alla numerosità di tali contratti è poi venuta(dopo la riforma Dini ed il pacchetto Treu) dall’articolo 34 della legge 342/2000 che ha equiparato fiscalmente al lavoro dipendente le attività dei co.co.co, fino allora inquadrate come attività di lavoro autonomo, riconoscendo loro le detrazioni fiscali dei dipendente. Non solo, ma con circolare applicativa, la n. 207/E/2000, par.1.5.5, si prendeva atto che con la modifica legislativa era caduta la previsione contenuta nell’art. 49 Tuir che disponeva che l’attività di collaborazione dovesse avere comunque un contenuto intrinsecamente artistico o professionale. Infatti detta circolare affermava che dall’ inquadramento, con una diversa formulazione, nell’articolo 47 del Tuir , si traeva “la conseguenza che nell’ambito delle collaborazioni rientrino anche attività manuali ed operative” svolte – ovviamente – senza vincolo di subordinazione a favore di un determinato soggetto nel quadro di un rapporto unitario e continuativo senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita”.
    Veniva così reso ammissibile che il contenuto della prestazione di collaborazione non dovesse limitarsi ad attività con un certo grado di professionalità, ma poteva ben essere esteso anche attività meramente esecutive.Con ciò veniva tolta ogni remora ai datori di lavoro nella stipula dei contratti di collaborazione per ogni tipo di mansione di cui l’impresa o la professione necessitasse.

  7. Francesco Pirone

    Mi ritorna in mente l’espressione di quei datori di lavoro che dicono: “conviene a me e conviene anche a te”, per poi proporre lavoro a nero, retribuzioni “fuori busta”, contratti di lavoro “altri” da quello subordinato a tempo pieno e indeterminato pur svolgendo un’attività che andrebbe contrattualizzata in tal modo. I vantaggi per l’impresa sono chiari: flessibilità/ricattabilità del lavoro, abbattimento dei costi diretti.
    Per i lavoratori i vantaggi sono stati davvero pochi e limitati a quote forti dell’offerta di lavoro, ovvero quelli ad elevata professionalizzazione che avrebbero comunque svolto un’attività autonoma. Il problema vero è di quelli che, invece, pur aspirando ad un’occupazione subordinata a tempo pieno e indeterminato e pur svolgendola di fatto, si ritrovano con un contratto di diversa natura. L’analisi dimentica che questi lavoratori di fatto:
    (a) si assumono forzatamente il rischio d’impresa;
    (b) sono fuori in larga misura dal sistema delle garanzie dell’occupazione e dal sistema di protezione sociale;
    (c) si trovano a svolgere attività in condizioni di lavoro peggiori rispetto a quelli con contratto a tempo indeterminato.
    Dice bene, però, che la PA è stata quella che ha abusato, e lo fa ancora, delle forme contrattuali atipiche, ma non dimentichiamoci che anche nel settore privato ci sono delle forme di sfruttamento, mascherate con qualche strana combinazione tra contratti atipici e modelli organizzativi “innovativi”, che andrebbero affrontate con la massima urgenza.
    Sulla legge Biagi, per concludere, trovo veramente scorretto sostenere che essa non ha contribuito alla deregolamentazione del mercato del lavoro. Se si ragiona su forme contrattuali stravaganti e marginali non si capisce quali sono stati gli effetti della legga 30/2003: perché non andiamo a vedere quali effetti ha portato la nuova normativa sul lavoro somministrato, soprattutto nei lavori a bassa professionalizzazione? Scopriremmo che le cose stanno un po’ diversamente.

  8. Milena Ortalda

    Sacrosanto.
    Aggiungo, a seguito di consolidata decennale esperienza come consulente culturale di enti pubblici e imprese, che il pubblico impiego in particolare ma le imprese subito a seguire avrebbero necessità di una riforma estesa che vada ad impattare non solo sulla regolamentazione del mercato del lavoro, ma sull’APPROCCIO a tale mercato, incentivando e diffondendo una “cultura della flessibilità” che consenta di svilupparne i vantaggi limtando gli abusi:
    1) Lavoro flessibile (basta con il termine “precariato” usato in modo generalistico, onnicomprensivo e quindi spesso a sproposito) di alto livello che veda riconosciuti in termini di parcella a- la disponibilità ad operare per fasce temporali brev/medie/lunghe identificate in relazione alle necessità dell’azienda o dell’ente e b- la formazione continua sviluppata autonomamente: questo si ottiene legittimando e incentivando l’utilizzo di professionisti “flessibili”, fissando tariffari minimi adeguati, ratificando l’accesso a incentivi e benefit standard ove già disponibili per i dipendenti (mensa, ticket pasto, posteggio, agevolazioni per i bambini ecc. il tutto in relazione alla temporalità dell’attività svolta)
    2) Controllo severo sull’attività del “vero” precario (neodiplomato o neolaureato senza esperienza, giovane lavoratore a bassa qualifica ecc.) in termini di a- garanzie di durata minima dignitosa dell’accordo di lavoro b- possibilità di accedere a contratti di formazione e praticantato con maggiore libertà presso aziende che dimostrano un trend di effettiva crescita c- incentivazione, anche con un potenziamento e valorizzazione delle “borse del lavoro”, del contatto diretto tra aziende e enti che necessitano di collaboratori e manodopera e soggetti che per la/le prima/e volta accedono al mercato del lavoro, con possibilità di stipulare contratti diretti – sempre in presenza di determinate condizioni di crescita dell’azienda – senza dover necessariamente ricorrere alle agenzie di lavoro interinale.

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