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La buona ricerca merita un premio

La riduzione degli aumenti salariali automatici dei docenti universitari è inefficace perché mina la credibilità della politica salariale del datore di lavoro nei confronti dei potenziali aspiranti professori. Meglio mantenere un profilo intertemporale della retribuzione, con la possibilità di concedere uno scatto doppio a chi è particolarmente produttivo sul piano scientifico. Aumenterebbe così la concorrenza tra atenei per attrarre i ricercatori migliori. Mentre sarebbero sanzionati quelli in cui le carriere sono clientelari.

Il comma 576 dell’Art.1 della Legge Finanziaria per il 2007 prevede per due anni consecutivi la riduzione al 70 per cento dello scatto annuale automatico delle retribuzioni dei professori universitari. Pur attenuato rispetto a quanto previsto in versioni precedenti della stessa Legge, che incidevano sugli scatti biennali di anzianità, il provvedimento potrebbe creare problemi aggiuntivi al funzionamento del mercato del lavoro accademico e minare l’efficienza complessiva del sistema universitario.

Se il datore di lavoro non è credibile

Il docente universitario è anche un ricercatore, tenuto a produrre non solo insegnamento ma anche ricerca, nonché a formare, disseminando i risultati della propria ricerca attraverso l’insegnamento, i futuri ricercatori. Questo è uno degli aspetti chiave per inquadrare la rilevanza economica del discorso che segue. Pur nutrendo decise convinzioni etiche sull’argomento, non le esprimeremo qui, limitandoci ad esporre critiche e proposte basate solo su considerazioni di efficienza.
A nostro avviso, la misura contenuta in Finanziaria, indipendentemente dall’ammontare dei tagli, è inefficace perché mina la credibilità della politica salariale del datore di lavoro (lo Stato) nei confronti dei potenziali aspiranti ricercatori/docenti. La produttività di un docente universitario dipende in larghissima misura dal suo grado di identificazione con gli obiettivi dell’istituzione e l’aleatorietà della remunerazione non aiuta certo a rafforzare questo legame.
Uno dei temi focali in qualunque relazione tra datori di lavoro e dipendenti riguarda proprio la credibilità dei primi circa le promesse contrattuali sul profilo salariale nel tempo. Aumenti stabiliti per anzianità, peraltro largamente utilizzati anche nel settore privato, non sono da considerare a priori una iattura. A patto che siano almeno in parte condizionati a verifiche serie sulla produttività dei lavoratori, sono anzi tipici di una modalità organizzativa che sortisce l’effetto di disincentivare i lavoratori dal disimpegno. (1) Nell’università e in molti altri settori della pubblica amministrazione è finora mancata proprio la seconda parte di questo meccanismo.
Inoltre i tagli agli scatti penalizzano soprattutto i giovani docenti e meno, o affatto, i vecchi. Il reclutamento di un nuovo ricercatore è finora avvenuto sulla base della “promessa” di una retribuzione con un profilo intertemporale che implica un enorme (e sproporzionato) investimento da parte del lavoratore nel periodo iniziale. Si tratta dell’accettazione di uno stipendio di ingresso bassissimo a confronto del livello di preparazione richiesto al neoassunto, in cambio della promessa di un suo adeguamento costante nel futuro, condizionato anche dal superamento di due ulteriori concorsi pubblici per i passaggi alle fasce di professore associato prima, e di professore ordinario poi. La promessa contrattuale di lungo periodo non può essere violata con una legge Finanziaria, che per definizione risponde a esigenze di politica economica di breve-medio periodo. E non certo per una questione di principio, quanto invece per il problema della credibilità del datore di lavoro.

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Lo scatto doppio

Come attrarre, allora, giovani ricercatori di alto livello se le promesse salariali di oggi, già insufficienti, sono esposte ai venti delle Finanziarie future? Come impedire la fuga dei cervelli verso le migliori università estere? Come contrastare la “fuga dei cervelli occulta”, cioè quell’incentivo al disimpegno dalla ricerca, che ha origine nella frustrazione e nella necessità di trovare risorse economiche personali in lavori para o extra-accademici, per mantenere lo standard di vita che ci si era prefissati al momento della “firma del contratto”? Due principali tipi di intervento sono possibili.
Il primo implicherebbe il rispetto dei contratti in essere per il personale già strutturato e l’introduzione di forme contrattuali diverse per i nuovi assunti: ad esempio quelle alle quali accenna Pietro Reichlin che aumentano lo stipendio iniziale e lo agganciano agli standard internazionali, ma condizionano gli adeguamenti dei livelli salariali futuri alla verifica del raggiungimento di determinati livelli di produttività. Si creerebbe però un contrasto difficilmente sanabile con i docenti reclutati negli anni immediatamente precedenti: i nuovi assunti percepirebbero un salario d’ingresso nettamente superiore a quello nel frattempo maturato da chi è remunerato con il criterio dell’anzianità, con ripercussioni potenzialmente molto negative sull’efficienza complessiva del sistema universitario.
Il secondo intervento, che ci pare più idoneo a ristabilire condizioni di efficienza senza generare ripercussioni a livello sistemico, anziché tagliare draconianamente gli scatti di anzianità, li condiziona in parte al merito scientifico. Il meccanismo, già attuato in un ateneo canadese, prevede il mantenimento di un profilo intertemporale della retribuzione, con l’aggiunta della possibilità di concedere uno scatto salariale doppio, di tanto in tanto, a docenti particolarmente produttivi nel campo della ricerca scientifica. Si noti che tali docenti generano cospicue esternalità economiche positive per la collettività, per l’ateneo in cui lavorano e per gli altri membri del proprio dipartimento, anche in termini di maggior prestigio.
Gli scatti-premio potrebbero essere finanziati in parte con fondi ministeriali e in parte con fondi propri delle università. Il ministero, basandosi su una valutazione rigorosa delle attività di ricerca, potrebbe stilare con cadenza biennale una classifica di atenei che hanno diritto di accesso ai fondi, auspicabilmente con l’obbligo di una “decimazione ragionata”, cioè l’esclusione dal beneficio di un certo numero di università (ad esempio un decimo di quelle riconosciute). Ciò servirebbe a far passare l’idea che nella ricerca vi è concorrenza tra atenei e che una selezione deve comunque essere fatta. Inoltre, come accade altrove, verrebbe in questo modo riconosciuto che non tutti gli atenei producono ricerca.
Con criteri del tutto analoghi, le singole università potrebbero a loro volta stilare una lista di propri dipartimenti aventi diritto ai fondi, anche in questo caso con l’obbligo della “decimazione ragionata”.
Infine, università e dipartimenti dovrebbero essere soggette a un audit esterno da parte di una commissione nazionale incaricata di sanzionare comportamenti devianti nell’attribuzione degli scatti-premio e di premiare i comportamenti virtuosi.
Il sistema qui delineato dovrebbe sortire l’effetto di promuovere la concorrenza tra atenei e tra dipartimenti nell’attrarre e premiare i ricercatori migliori. Una sua corretta applicazione darebbe nello stesso tempo origine a un meccanismo di sanzionamento di quelli in cui le carriere sono clientelari o comunque non chiaramente basate sul riconoscimento del merito scientifico.

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(1)
Holmstrom, B. e P. Milgrom (1987), “Aggregation and Linearity in the Provision of Intertemporal Incentives”, Econometrica, 55(2), 303-328.

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Verso la Finanziaria “snella”

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Sulla legge delega

  1. Umberto Diana

    concordo sull’inefficacia della misura in finanziaria e sul collegamento delle retribuzioni all’attività di ricerca dei professori universitari, ma per il resto trovo alquanto fastidiose le opinione espresse in questo contributo a “lavoce”. nel merito, parlando da ex utente dell’università e non da diretto interessato che fa finta di nascondere le proprie “convinzioni etiche”, credo che:
    1. la credibilità del datore di lavoro è già minata alla base dal fatto di legare lo stipendio quasi esclusivamente all’anzianità (proprio sicuri che “non è una iattura”?!),
    2. per “disincentivare i lavoratori dal disimpegno” occorrerebbe legare alla produttività -ricerca e didattica- gran parte dello stipendio (altro che “almeno in parte”!),
    3. la fuga dei cervelli è dovuta più ai fenomeni di clientelarismo e corporativismo attuati dai baroni ordinari nel reclutamento o nell’assegnazione dei fondi, che alla presunta volontà di “mantenere lo standard di vita” che i giovani ricercatori non si sa quando si erano prefissati,
    4. l’intervento migliore sarebbe quello di alzare lo stipendio iniziale dei ricercatori confermati e dei dottorandi, (che non prendono neanche 1000 euro al mese!), abbassandolo a tutti i livelli ai baroni associati ed ordinari, con la previsione di premi aggiuntivi per tutti che seguano i criteri sopra menzionati.
    il vero problema delle retribuzioni è la “conservazione dei contratti in essere per il personale già strutturato”, che comprensibilmente sta tanto a cuore ai baroni ordinari: per il futuro dell’università italiana, spero vivamente che il barone ordinario, che si lamenta di una riduzione del 70% dell’adeguamento di diritto -sic!- annuale del 2,5% dei 150.000 euro che guadagna annualmente, sia una razza in via di estinzione.
    cordiali saluti,
    Umberto Diana

    • La redazione

      1. No, legare lo stipendio all’anziaita’ non e’ “una iattura”. La correlazione va bilanciata, e’ chiaro, da incentivi e carriere legati al merito. Inoltre, la credibilita’ non implica rigidita’, (anzi!) ma i cambamenti vanno fatti con gli strumenti e le motivazioni appropriate. Il nostro articolo, appunto, non e’ tanto su “quanto” ma su “come” si paga e si decide.

      2. Siamo dei “realisti” e sappiamo che proposte come la nostra potrebbero essere accettate, mentre stravolgimenti totali verrebbero bocciati. Date certe finalta’, ognuno scegle il suo metodo d’intervento. Inoltre bisogna attuare dei sistemi di verifica del merito davvero seri e rigorosi, altrimenti i “baroni” di cui Lei si lamenta prenderebbero il sopravvento sul controllo delle retribuzioni degli altri (fregandosene del “merito”). Cio’ richiede tempo e flessiblita’.

      3. Il contratto all’entrata in qualsiasi azienda prevede un certo andamento nel tempo dello stipendio. Da parte del lavoratore che sceglie dove mandare il suo CV, gli aumenti futuri vengono, alla data zero, scontati per valutare il valore attuale del profilo retributivo. In questo calcolo il lavoratore valuta soggettivamente anche il proprio “talento” e le probabilita’ di
      promozioni. In questo senso e’ cruciale che le promozioni (e non solo lo stipendio per classe) siano legate al merito. Sul malfunzionamento dei concorsi non e’ certo mancata la voce de
      lavoce.info! I l giovani ricercatori si auto-selezionano in base alla reputazione sulla gestione delle carriere che hanno i datori di lavoro. Violare i contratti esistenti senza riguardo al merito significa comunque ridurre gli standard di vita che il lavoratore si era prefissato, incentiva il sospetto nei riguardi del datore di lavoro e la fuga dei cervelli, senza favorire la buona ricerca. Forse e’ “fastidioso” ma e’ la realta’.

      4. I dati sulle retribuzioni dei docenti ai quali Lei fa riferimento sono larghissimamente approssimati per eccesso. Inoltre si riferiscono alle classi finali di carriera, e quindi non sono
      indicativi del profilo salariale sull’ arco di vita (che e’ molto peggiore in Itala che negli USA). Il valore attuale alla data zero per un giovane Ph.D. negli USA e’ senz’altro molto piu’ alto dell’equivalente Italiano. Sul salario dei Ricercatori penso che Lei sfondi porte aperte. Ancor meglio sarebbe l’abolizione del ruolo di Ricercatore, con l’ngresso a livello di Professore Associato con contratto a termine, soggetto a verifica dopo quattro anni, come si fa negli Stati Uniti. Chi scopre di non essere tagliato per la ricerca, in Italia resta dentro l’Universita’ e in molti casi si dedica ad amministrare il potere, sfruttando il vantaggio di tempo che ha rispetto a chi fa ricerca. I politici (che amano circondarsi di persone con ampia disponibilita’ di tempo e scarsa considerazione per la serieta’), poi i media, che osannano i Presidi di Facola’ e i Rettori, senza essere capaci di guardare un CV scientifico, contribuiscono largamente ad aumentare il potere dei “baroni” di cui gli stessi media si lamentano con toni populistici, che ricordano quello delle
      sue osservazioni. A quando la prassi di mettere i CV on-line, come fanno tutti i collaboratori de lavoce.info?

  2. Alessandro Ela Oyana

    Ad essere veramente realistici non si può davvero ritenere che approcciare i numerosi e gravi problemi che affliggono l’università (e con questa la ricerca) in Italia ragionando sul come spartirsi “equamente” la torta – senza cioè gli effetti sistemici di cui si parla nell’articolo – non possa che risultare fastidioso, così come non pare ugualmente utile intervenire con l’accetta sulle retribuzioni di professori e ricercatori. Ed infatti apprezzabili ragionamenti scientifici sulle aspettative di chi intraprende la “carriera universitaria” suonano inevitabilmente fasulli – al di là delle buone intenzioni di chi si cimenta nell’impresa – ove si ragioni sul fatto che il merito scientifico svolge un ruolo marginale nel determinare le fortune dei cervelli italiani. Non è solo un problama di soldi che sostiene la c.d. fuga ma anche la destinazione dei soldi che ci sono (qualcuno infatti ha ottime aspettative dall’attuale sistema). E’ questo che principalmente determina la sfiducia nel datore di lavoro o meglio la sfiducia del datore di lavoro – tramite lo Stato: i contribuenti – nell’università la cui scarsa produttività la espone ad interventi demagogici come quello del taglio delle retribuzioni.
    Non sono all’altezza di formulare ipotesi dimostrabili sul punto, ma credo che, per restituire all’università il ruolo di eccellenza che oggi e lungi da avere e per rinvigorire l’interesse dei cervelli veri verso questa decaduta istituzione serva una reale competizione e quindi una reale selezione attraverso il merito. Il prezzo del lavoro di professori e ricercatori sarà così determinato sulla base del loro valore nel mercato della ricerca senza bisogno di complessi correttivi ad un sistema che non può (e non deve) più funzionare. In sintesi ad essere troppo realistici si finisce per sostituire un barone con un altro la cui retribuzione, comunque determinata (e salve – speriamo – eccezioni) sarà percepita sempre come troppo alta rispetto all’utilità prodotta.

  3. Giuseppe Chimento

    Parole e fatti
    Il 19 settembre allì’Auditorium della Tecnica, Confindustria, il min. Mussi dichiarava: “…per fare ricerca, come è nei venture capital o nei venturelabour, bisogna investirvi delle risorse. Non possiamo accettare, che chi lavora nella ricerca, stia, fin quasi alla pensione, in una situazione di lavoro precario e mal pagato. Noi dobbiamo pagarli di più. È intollerabile, che un giovane che si consuma le scarpe nei corridoi di qualche comitato elettorale e diventa consigliere di circoscrizione o comunale, guadagni subito di più di un giovane di trent’anni, che ha studiato tutta la vita ed è un ricercatore di eccellenza. Siccome non voglio parlare di altri, dico anche che non è neanche sensato che un parlamentare come me, guadagni come cinque dirigenti di un istituto di ricerca.”
    Come immediata conseguenza di tale dichiarazione dal 1° gennaio la borsa di dottorato (ben 826 EURO mensili!!!) si è ridotta di 15 EUR.

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