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LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio anzitutto per l’attenzione. L’articolo per sua natura è un testo breve, e non può affrontare la questione se non superficialmente, e con diverse lacune. I due commenti ne indicano giustamente alcune. Prima di rispondere nel merito desidero però ribadire l’oggetto fondamentale del mio intervento: le condizioni economiche e politiche attuali sono tali che -a mio parere- ha scarso senso, in termini economici, continuare a puntare su una strategia che voglia garantire un posto fisso ad ognuno, dove con posto fisso intendo un’occupazione nella stessa azienda o anche solo nello stesso settore produttivo. In particolare, non intendevo indicare i dettagli di specifiche misure di politica economica (come il reddito minimo garantito o la provenienza dei fondi con cui finanziarlo), ma suggerire l’obiettivo che la politica dovrebbe darsi, per dibattere sugli strumenti in maniera più ordinata.
Sui numeri: iniziamo con quanto l’Italia già spende. Dovremmo anzitutto distinguere tra reddito minimo e sussidio di disoccupazione. La prima è una misura residuale, che vuole impedire che chiunque abbia un reddito inferiore una certa soglia. Per la povertà l’Italia spende 11€ pro-capite, dunque letteralmente non ci sono cifre di cui parlare.
I trattamenti di disoccupazione hanno invece lo scopo di sostenere temporaneamente il reddito dei lavoratori, nel passaggio da un’occupazione ad un’altra. Per ciò l’Italia spende circa lo 0.5% del PIL, contro una media europea dell’1.8%; mentre per le politiche per il lavoro complessivamente l’1.3% contro il 2.2% europeo (dati Eurostat). Senza bisogno di paragoni con la solita Danimarca, è di tutta evidenza che i 3 punti di PIL in più che dedichiamo alla spesa per pensioni in qualche maniera ci impediscono di fare tante altre cose (così come la grossa spesa per interessi sul debito pubblico). Non sono tra quelli che credono dovremmo sempre imitare l’estero, ma proporre uno scambio tra quanto si può risparmiare in previdenza, e quanto in più si può dedicare al Welfare State mi sembra un’idea ragionevole.
Oltre i livelli di spesa, dovremmo parlare anche di come spendiamo: da un lato, come detto nel testo, il sostegno al reddito riguarda attualmente solo categorie di privilegiati (coloro che accedono alla Cassa Integrazione, semplificando un pò). D’altro lato, questi fondi sono concessi senza alcuna condizione a chi li riceve (in teoria ci sarebbe il divieto di rifiutare un’offerta di lavoro “congrua”, ma di fatto non c’è sanzione). Inserendo l’obbligo di partecipare ad attività di formazione e reimpiego, non solo favoriremmo la capacità del sistema di adattarsi continuamente agli sviluppi economici e sociali, ma introdurremmo limiti temporali alla durata del beneficio (pari al massimo alla durata dei programmi) ed eviteremmo disincentivi al lavoro, dunque complessivamente risparmiando risorse.
Desidero concludere notando che alcune misure possono intanto essere introdotte, in misura minore a quanto idealmente auspicabile, come prima risposta a situazioni insostenibili. Considerando ad esempio il numero di lavoratori veramente “precari” (gli iscritti alla Gestione Separata dell’INPS, a parte professionisti, amministratori e sindaci di società, membri di collegi e commissioni), è stato presentato in Senato un emendamento alla Legge Finanziaria che quantifica il costo di un sussidio di disoccupazione pari a 300€ al mese per 6 mesi, per un costo complessivo inferiore (sotto ipotesi pessimistiche) agli 800 milioni di euro l’anno. Una cifra non impressionante: più o meno quanto le Regioni nel periodo 2001-2006 hanno accumulato in fondi europei non spesi (Fondo Sociale Europeo).
Insomma, a volte l’inazione politica deriva da non condivisione degli obiettivi, e non da mancanza di mezzi. Ad esempio, alcuni partiti legittamente aspirano all’abolizione completa della flessibilità del lavoro, come fine ultimo. Così facendo finiscono però per agire, per le concrete condizioni di vita dei lavoratori flessibili, molto meno di quanto sarebbe possibile.
Per quanto attiene le differenze regionali, non c’è dubbio la questione merita un approfondimento. Non posso qui discutere delle cause del sottosviluppo del Sud, e non ne avrei le competenze. Per quanto riguarda l’occupazione, noto solo che l’analisi a volte deve astrarre da fattori pur rilevanti, ma non oggetto di indagine al momento (ad esempio, il mio ragionamento astrae anche dalle differenze di genere, certo non meno rilevanti per il mercato del lavoro).
Per quanto riguarda la contrattazione, ribadisco solo che si tratta di scegliere tra una strategia che punti a sopravvivere riducendo i costi (che io considero fallimentare di fronte ai giganti emergenti, ma si tratta di una scommessa), e una che invece punti a competere favorendo l’accumulazione capitalistica e l’innovazione tecnologica.
Anche per questo condivido l’osservazione finale: se le imprese usano permanentemente contratti temporanei, evidentemente non cercano flessibilità, ma bassi costi (a parte la libertà di licenziare e il ricatto che ne deriva). Qui però entriamo nel problema degli abusi delle forme contrattuali flessibili, che va distinto da quello sull’esistenza della flessibilità, quella vera. A tal proposito, noto solo che alcune imprese sostanzialmente sopravvivono nel mercato (e fanno profitti) solo grazie a tali abusi: vale dunque l’ultima osservazione del mio testo, sull’opportunità di liberarsene, ma anche una necessaria prudenza nei modi e nei tempi, trattandosi pur sempre di posti di lavoro (di bassa qualità, ma posti di lavoro).

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  1. FRANCESCO COSTANZO

    Mi ricollego al mio commento del 13.09.2007,all’articolo del prof. Boeri, per esprimere ancora una volta la necessità di uniformità del trattamento fiscale di tutti i tipi di contratto, (o la loro sostituzione con un unico contratto ed un unico regime fiscale) in modo da rendere “neutrale” la scelta dell’azienda rispetto al costo del lavoro. E’ una riforma a mio avviso irrimandabile, che sarebbe di per sè assai significativa. Aggiungo che la dualità del mercato a mio parere si può superare solo tendendo ad una “vera” liberalizzazione”, sia nelle tutele ai lavoratori e ai pensionati (pensioni e salari minimi subordinati all’effettiva accettazione di un lavoro che sia alla portata delle proprie certificate capacità, libertà di andare in pensione a qualunque età), sia nelle garanzie alle imprese (facoltà di licenziamento applicabile a tutti, flessibilità completa, eliminazione del “posto fisso”). Penso che questa sia la strada implicitamente scelta quando abbiamo aderito all’Unione Europea, e che si debba avere il coraggio di prenderla. Immagino poi che, qualunque sia la riforma adottata, essa avrebbe valore solo da un certo momento in poi, ovvero riguarderebbe solo le generazioni giovani, giusto? In tal caso, è bene non dimenticare che non si può scaricare solo sui giovani il costo (in termini economici e di eliminazione delle tutele contrattuali) di un cambiamento di vasta portata, come quello di cui credo ci sia assoluto ed immediato bisogno. In un’ottica di invecchiamento progressivo della popolazione non si può dimenticare che i lavoratori anziani, già tutelati da anni di contribuzione, contratti “blindati” ed assistenzialismo radicato costituiscono il vero onere per il nostro sistema sociale. A costo di introdurre riforme impopolari si deve trovare un equilibrio per ripartire equamente tra le generazioni l’impatto della riforma del welfare. Solo i tecnici possono onestamente valutare, cifre alla mano, i metodi più giusti per riequilibrare l’impatto di vere e profonde riforme, tra le generazioni ed in base alle fasce di reddito. E solo chi ci governa potrà e dovrà prendersi la responsabilità di porle in atto. In questo momento credo che, promesse a parte, siamo ancora lontanissimi dal raggiungimento di un obiettivo significativo, il dibattito di questi anni ha prodotto solo la solita spinta all’aumento dell’età di pensionamento, che sicuramente non è la panacea di tutti i mali ma ne rimanda soltanto la guarigione, a spese delle generazioni future.

    • La redazione

      Sull’opportunità di allineare i costi del lavoro per tutti i contratti (e in prospettiva di rendere i contratti flessibili anche più costosi di quelli rigidi) sono daccordo, con la nota di prudenza espressa nella "risposta ai commenti" pubblicata. Si potrebbe iniziare sostituendo i timidi aumenti contributivi previsti per tutti con aumenti ben più forti, ma solo per i nuovi contratti: da un lato infatti, se non in casi di assoluta necessità, non bisognerebbe modificare le condizioni sulle basi delle quali il mercato ha fatto le sue scelte e le persone hanno stipulato contratti; d’altro lato, per eliminare gli incentivi finanziari alla flessibilità è sufficiente il riferimento ai nuovi contratti.
      Completamente daccordo anche sulla necessità di condividere, tutte le generazioni, l’onere della flessibilità (che sarebbe comunque meno grave se accompagnato da un sostegno al reddito). La tutela delle generazioni più anziane è in questo momento connaturata alla rappresentanza sindacale, e il problema della mancata sindacalizzazione dei giovani precari andrebbe sollevato con urgenza.

  2. Lara Gatti

    Buon giorno. Sono socia in un’azienda artigiana e vorrei fare presente che : – i contratti precari intesi come contratti interinali non mi costano assolutamente meno (13 euro l’ora contro gli 11,45 degli assunti diretti) – i contratti precari intesi come contratti a tempo determinato costano esattamente come quelli a tempo indeterminato – gli unici contratti precari che costano meno sono quelli a progetto, ma è impossibile applicarli a un operaio. L’unico motivo per cui io continuo a usare i contratti interinali è perchè in Italia non esiste la possibilità di licenziare le persone che non hanno voglia di lavorare ( con la tutela reale è impossibile e sfido chiunque a provare il contrario, con la tutela obbligatoria costoso – 5 mensilità per un artigiano sono troppe) e perchè il mercato non mi consente di fare previsioni a tempo indeterminato. Ma è chiaro a qualcuno che se vogliamo che le persone trovino lavoro a tempo indeterminato deve essere dato modo a noi datori di lavoro di licenziare chi "occupa" senza merito il posto di chi è a spasso? Oppure di ridurre il personale in maneira rapida se ci cala il lavoro? E perchè non si apre anche il dibattito sul costo delle malattie finte appoggiate da medici conniventi e non controllabili da nessuno (tantomeno dai medici dell’INPS), Perchè nessuno scrive quanto costa alle aziende questo tipo di assenteismo? Ma qualcuno si rende conto che la maggiora parte dell’occupazione in Italia è garantita da aziende di piccolissima dimensione, in cui i titolari sono i veri precari? Qualcuno capisce che il ricorso all’interinale per noi che abbiamo la responsabilità di un’azienda è l’unico modo di sopravvivere in un paese dove se sbagli ad assumere un dipendente te lo tieni finchè morte non vi separi?

  3. FRANCESCO COSTANZO

    Sono felice di leggere il commento di un’imprenditrice al dialogo che si è aperto sull’argomento contratti di lavoro. Per parte mia, posso dire che la mia osservazione in merito al regime fiscale aveva carattere generale, non era riferita a specifici contratti e/o settori. Ribadisco inoltre che la motivazione fiscale non esclude ovviamente l’altra ragione dell’utilizzo dei contratti a termine/interinali, cioè l’impossibilità/non volontà di un’azienda di vincolarsi "a vita" con un lavoratore. Questo motivo vale ancora di più, ad esempio, per le attività turistiche e stagionali. Condivido quanto detto dalla signora, in merito alla necessità di sostituire i lavoratori anziani con i giovani: è quello che alcune aziende, che possono permettersi di pagare incentivi all’esodo, stanno già facendo. Si potrebbe studiare un modo di estendere questi incentivi anche alle piccole aziende, che normalmente non dispongono di risorse per porli in essere. Io, da lavoratore giovane, sono stato (e sono tuttora) disposto a capire le motivazioni delle aziende e condivido il ricorso alla flessibilità. Ma credo che la flessibilità dovrebbe valere per tutti i lavoratori, non solo per i giovani, perchè altrimenti questi ultimi risultano eccessivamente penalizzati, come credo accada oggi. Un buon passo avanti verso una riduzione delle attuali disuguaglianze sarebbe a mio avviso porre in atto la proposta del contratto unico, accompagnata dal riconoscimento di un salario minimo e da adeguati ammortizzatori sociali, che si applichino a tutti coloro che sono senza lavoro.

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