Nel mio intervento sul tema della precarietà sostenevo tre punti:

1. la rigida tutela del lavoratore fornita dalle regole vigenti negli anni ’70 ha assecondato una visione del rapporto di lavoro come centro o sede di esclusivi conflitti di interesse;
2. le modifiche di quel quadro normativo, dagli anni ’80 ad oggi, non sono state guidate dall’obiettivo di un corpo coeso di regole attorno a una visione meno semplicistica e radicale del rapporto di lavoro. Il percorso di revisione fino ad oggi compiuto, per quanto profondo, non è mai approdato a una diversa ispirazione del quadro normativo. Non è mai approdato a un principio di efficienza del mercato a cui legare le regole, o a un principio di tutela del lavoro tramite l’efficienza del mercato del lavoro. La creazione di flessibilità attraverso una revisione molto frammentata delle regole ha prodotto una artificiosa segmentazione del mercato del lavoro e una iniqua stratificazione di tutele.
3. Il raggiungimento di un corpo coeso di regole – fondato su principi di efficienza e di equità e su una visione del rapporto di lavoro che riconosca aree di interesse comune a impresa e lavoratore – richiede che si affronti esplicitamente anche il tema dei licenziamenti individuali.

In modo alquanto diverso, i commenti a questo intervento sono tutti significativi. Alcuni fanno riferimento al modello danese, per negarne l’applicabilità all’Italia a motivo della insostenibilità finanziaria di adeguati ammortizzatori sociali o per sollecitare un uso più efficiente e rigoroso della spesa sociale. Si tratta di argomenti seri. Personalmente sono più sensibile al secondo che al primo, ma temo che entrambi spostino un po’ il focus del mio argomento: il problema degli ammortizzatori sociali rende forse meno utile fare chiarezza sulle distorsioni delle attuali regole del mercato del lavoro e sull’esigenza di porre in discussione alcuni principi generali a cui esse queste regole restano comunque legate?
La debolezza degli ammortizzatori e il timore di una revisione dell’art. 18 fanno temere, in altri commenti, una “riduzione delle tutele” e una conseguente “generale precarizzazione del mercato del lavoro”. Rimango perplessa davanti a questi commenti.  La precarizzazione del mercato del lavoro c’è già, con il suo pesante carico di iniquità e ingiustizia sociale.  Il richiamo a un principio di efficienza del mercato è esattamente l’indicazione di una via più efficace per combattere la precarizzazione. Per quanto riguarda l’art. 18 poi, è fin troppo ovvio che l’efficienza del mercato non passa solo per la sua correzione, ma questa correzione è un passo ineludibile se si vuole davvero fare i conti con la complessità del rapporto di lavoro.
In un commento si parla anche di “presunte ‘efficienze’ di presunti ‘mercati’ del lavoro” e non si ritiene che possa esser messa in discussione la visione del rapporto di lavoro come centro o sede di esclusivi conflitti di interesse. Sorvolando sul presunto mercato, sottolineerei a questo lettore che una visione esclusivamente conflittuale è giustificata solo nell’ipotesi di livelli di produzione dati e di tecniche date, un contesto a cui fortunatamente non siamo ancora arrivati. Temo, però, che in questa semplificazione il lettore sia in folta compagnia.
Condivido totalmente, infine, il commento, amaro, di una lettrice che “opera nel settore del lavoro dipendente”. C’è oggi un rischio nel nostro mercato del lavoro: l’abuso delle tutele da parte del lavoratore e l’abuso di tutti i possibili margini di flessibilità da parte delle imprese può innescare una sorta di gioco perverso che può finire col danneggiare tutti. In che misura il tessuto produttivo del paese sta correndo questo rischio? Scongiurarlo, portando efficienza, semplificazione e coerenza nelle regole, dovrebbe essere un impegno prioritario dei nostri governanti.

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