Lavoce.info

COME DARE RISORSE AI MIGLIORI

Dalla premessa condivisibile che l’università italiana disperde risorse preziose e le utilizza in modo inefficiente, avrebbe dovuto seguire un piano per stimolare l’impegno dei docenti e istituire incentivi adeguati. Invece, ancora una volta si è deciso di distribuire i tagli in modo uniforme tra tutti gli atenei. Ecco alcune proposte concrete per incidere sul potere delle lobby accademiche. Se attuate, darebbero almeno la speranza che in futuro la distribuzione delle risorse premierà il merito.

La manovra di finanza pubblica predisposta con il decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008 contiene misure rilevanti per le università. Il perno della manovra è costituito dalla riduzione progressiva, su un arco quinquennale, del Fondo di finanziamento ordinario, collegata al rallentamento degli scatti automatici di anzianità (da due a tre anni) e alla limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato. Queste ultime dovrebbero essere contenute da parte di ogni università fino al 2012 entro il 20 per cento delle cessazioni dal servizio.
La reazione del mondo universitario (senati accademici, conferenza dei rettori, singole prese di posizione) è stata univoca: il taglio va respinto perché determinerà una crisi finanziaria degli atenei e il Fondo va ripristinato al livello precedente. Al di là delle affermazioni di principio, raramente dagli atenei si alza una voce che indichi concretamente quali riforme e quali regole potrebbero modificare i comportamenti del corpo docente, con quali modalità sarebbe possibile premiare il merito, come combattere le logiche corporative e il nepotismo.

UN’OCCASIONE PERSA

L’effetto deleterio del taglio non è tanto legato ai singoli provvedimenti di riduzione o rallentamento della spesa, quanto piuttosto al fatto che è distribuito ancora una volta in modo uniforme tra tutti gli atenei, così come in altre occasioni l’aumento del Fondo ordinario. Dati i meccanismi di governo degli atenei, basati sul potere di veto di piccole e grandi corporazioni, non è difficile prevedere che anche all’interno di ciascuno di essi il taglio non sarà selettivo, con attenzione al merito e ai risultati conseguiti da ciascun ricercatore o gruppo di ricerca. Sarà a sua volta distribuito in modo pressoché uniforme tra facoltà, dipartimenti, altre strutture accademiche.
Anche questa volta si è deciso dunque di non utilizzare la revisione delle modalità di finanziamento pubblico delle università per introdurre qualche principio di differenziazione meritocratica, modificare le regole di comportamento degli atenei, istituire incentivi che in futuro possano portare a miglioramenti di efficienza. Il risultato sarà plausibilmente che le logiche corporative continueranno a prevalere. Basta citare un esempio: mentre il mondo universitario protesta per i tagli, tra aprile e giugno sono stati banditi molti nuovi concorsi per professore ordinario e associato. Si tratta (al 27 luglio) di 685 posti di professore ordinario e di 1.093 posti di professore associato. Ciascuno di questi concorsi prevede due vincitori (o idonei). Se questi concorsi fossero stati banditi dopo il 30 giugno l’idoneità sarebbe stata una sola.

CONSEGUENZE DELLA DOPPIA IDONEITÀ

Perché gli atenei si sono affrettati a bandire i concorsi entro il 30 giugno? La risposta è semplice: perché con due idoneità si hanno maggiori probabilità di promuovere i candidati interni, indipendentemente dal merito. Facendo finta di non sapere che la seconda idoneità verrà prima o poi premiata da un altro ateneo, che inserirà l’idoneo nei propri ruoli, con il conseguente innalzamento della spesa. Così, con il meccanismo delle due idoneità entreranno in servizio 3.556 nuovi docenti, circa il 10 per cento dell’attuale corpo docente (ordinari e associati); magari non subito, perché il blocco parziale del turn-over rallenterà le immissioni in ruolo.
A questo si aggiunga che una quota consistente di concorsi (circa il 10 per cento) è stata attivata dalle università telematiche, istituzioni senza alcuna tradizione di ricerca scientifica. (1)
Anche questi concorsi naturalmente prevedono due idoneità, ed è altresì noto che in alcuni casi nessuno dei due vincitori prenderà servizio presso la sede che li ha banditi. Nemmeno le università più prestigiose hanno rinunciato alle due idoneità. Complessivamente, le dieci università che si sono proclamate di eccellenza, tra cui Bologna, i Politecnici di Milano e Torino, Padova, Milano Bicocca, hanno bandito 497 concorsi, per un totale di quasi mille idonei, il 28 per cento del totale, in buona parte concentrati presso i Politecnici di Milano (94 concorsi e 188 idoneità) e Torino (81 concorsi e 162 idoneità). Nemmeno le università private hanno saputo resistere alla tentazione delle due idoneità: l’Università Cattolica, ad esempio, ha bandito complessivamente 27 concorsi. Il meccanismo della doppia idoneità era stato abolito dal ministro Moratti, ma è stato reinserito da un emendamento parlamentare nella Finanziaria per il 2008, in attesa dei decreti attuativi sui nuovi concorsi nazionali. Alla vigilia delle riduzioni dei finanziamenti si è persa quindi l’ultima, preziosa occasione di rinnovare il corpo docente su base maggiormente meritocratica.

PROPOSTE CONCRETE

Dalla premessa condivisibile che l’università italiana disperde risorse preziose e le utilizza in modo inefficiente, avrebbe dovuto seguire un piano per stimolare l’impegno dei docenti e istituire incentivi adeguati, annunciando che in futuro cambierà radicalmente la distribuzione del finanziamento pubblico. Ecco qualche proposta concreta:
1. Già nel 2009 una quota consistente del Fondo di finanziamento ordinario, dei posti di ricercatore, dottorati di ricerca e assegni di ricerca si potrebbe ripartire sulla base del punteggio assegnato dal comitato nazionale di valutazione della ricerca (il Civr). Lo stesso Civr, che ha operato molto bene per la valutazione della ricerca nel triennio 2001-2003, dovrebbe essere prontamente messo in grado di funzionare e valutare la ricerca del triennio più recente.
2. Invece che prevedere una riduzione delle progressioni di carriera per tutti i docenti, si potrebbero bloccare le retribuzioni dei professori ordinari per adeguare agli standard europei quelle dei ricercatori, che sono invece scandalosamente basse e una delle cause della massiccia e perdurante fuga dei nostri giovani verso l’Europa e gli Stati Uniti.
3. Andrebbe una volta per tutte definito lo stato giuridico dei docenti, con indicazioni precise sul carico didattico e verifiche periodiche della produttività scientifica, cui condizionare la progressione economica, adesso solo basata sull’anzianità di servizio. Per limitare il nepotismo, i concorsi dovrebbero però prevedere alcune semplici regole di incompatibilità – ad esempio che non sia possibile assumere un ricercatore nelle università in cui si è conseguita la laurea o il dottorato.
4. Si potrebbe uniformare l’età di pensionamento dei docenti (70 anni) a quella degli altri paesi europei (tipicamente 65 anni, con facoltà di estensione fino a 67 o 68 anni per i docenti attivi nella ricerca che ne fanno richiesta), proseguendo nella direzione già iniziata dal ministro Padoa Schioppa di abolire l’istituto del fuori ruolo.
5. Una parte delle risorse pubbliche potrebbe essere utilizzata per finanziare cattedre di ricerca sul modello del Consiglio europeo della ricerca. Quelle cattedre offrono la possibilità di finanziare per cinque anni scienziati di qualsiasi nazionalità, già presenti in Italia o provenienti dall’estero, siano essi o meno nei ruoli delle università. Le domande potrebbero essere vagliate dagli stessi comitati scientifici di area istituiti dal Consiglio europeo delle ricerche, che utilizza come unico criterio la qualità del programma di ricerca. La dotazione di ciascuna cattedra potrebbe variare dai 100 ai 200mila euro annui, a secondo che si tratti di giovani ricercatori o di scienziati già affermati sul piano internazionale; il finanziamento dovrebbe essere utilizzato esclusivamente per retribuire il ricercatore e le spese collegate al progetto. Se ogni anno 150 milioni di euro fossero attribuiti a tale programma, stimando un costo medio annuo di 150mila euro per ciascun progetto, sarebbe possibile finanziare circa mille cattedre, premiando i ricercatori migliori e gli atenei che li ospitano, e instaurando un sano principio di concorrenza tra le sedi universitarie. In questo modo, si aiuterebbero anche gli atenei a far fronte alla riduzione del personale che emergerà in seguito al blocco del turn over.
Questi provvedimenti naturalmente non rappresentano un progetto di riforma organico, ma incidono sul potere delle lobby accademiche. Se attuati, darebbero almeno la speranza che la distribuzione delle risorse future premierà il merito. Chi oggi propone solo tagli indifferenziati di risorse non ha la consapevolezza dei problemi dell’università né il coraggio di superare gli ostacoli posti dai conservatori dello status quo.

(1) Si tratta di 93 concorsi e 186 idoneità (il 10 per cento del totale), così distribuiti: 19 presso l’Università E-Campus, 32 presso la Marconi, 23 presso la Uninettuno, 11 presso la Pegaso, 5 presso l’Università Telematica delle Scienze Umane e 3 presso la Mercatorum.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Lauree Stem: niente di nuovo sul fronte femminile
Leggi anche:  Lauree Stem: niente di nuovo sul fronte femminile

Precedente

UN DECOLLO CHE SFIDA LE LEGGI

Successivo

LA BELLEZZA? E’ MEZZA RICCHEZZA

29 commenti

  1. sandro

    Ottimo articolo, mi pare però che nella stesura definitiva del DL la trasformazione degli scatti automatici stipendiali non sia più un provvedimento permanente ma valga solo per un anno.

  2. Pietro Blu Giandonato

    …nel fare proposte operative, complimenti. Sono un insegnante di scuola superiore, e mi sento di condividere pienamente questo tipo di meritocrazia nelle università. Estenderei tranquillamente lo stesso tipo di proposte anche alla scuola, da un lato per stimolare un serio e frequente aggiornamento dei docenti, dall’altro per premiare concretamente coloro che si impegnano di più nel proprio lavoro. E proprio la scuola vede nell’agenda parlamentare italiana un Disegno di Legge della deputata di FI Valentina Aprea, pronto a sconvolgerla o rivoluzionarla. Il DdL è "in giro" già da un pezzo, ma sta già riprendendo l’iter… Nel DdL si legge chiaramente l’intento di demolire in qualche modo l’istituzione scolastica così com’è ora, usando l’aumento di autonomia della scuola pubblica come cavallo di Troia per l’ingresso dei privati. Ma al di là di considerazioni di carattere politico, il DdL pone questioni comunque molto pressanti, come appunto la meritocrazia tra i docenti e una nuova progettualità che vada oltre le banali iniziative finanziate con i PON. Una bella analisi critica al DdL si trova qui: Insomma, ad maiora!

  3. Luigi Loker

    Non capisco quale è la connessione tra: tagli agli stipendi del personale universitario e alle università, concorsi con due idoneità, valutazione del CIVR, pensionamenti e stato giuridico dei docenti. Forse il problema vero è che l’università guarda troppo alle beghe interne. Tutte le proposte non servono a niente se non si sanno i dati, se non si mette mano ad un disegno complessivo. E’ questo che manca! Tutte le ricette proposte farebbero la fine del prestito ponte ad Alitalia. Peggiorano solo la situazione perchè illudono che la soluzione è aspettare il domani. Non sono le "pezze" a colore che restituiscono all’università la propria vocazione. Dico questo perchè tutte le proposte che sento non fanno altro che girare intorno alla vecchia retorica autonomia vs centralizzazione. Un binomio che non regge più. Bisogna entrare in logiche diverse e partire capendo quali sono le esigenze reali di chi si iscrive all’università e di chi fa ricerca. Ogni altro ragionamento mi sembra vano.

  4. ilaria78

    Purtroppo tutto quello che è stato descritto è tristemente vero. A questo si aggiunga che a causa della progressiva riduzione dei fondi e delle risorse finanziarie, le facoltà sono divenute meno "selettive" con gli studenti, al fine di evitare una fuga degli stessi e dunque di risorse economiche. Conseguenza logica che abbiamo molti laureati poco preparati, che inflazionano solo un titolo. A ciò si aggiunga che il sistema post-università, tutt’altro che meritocratico, da spazio spesso a questi ultimi. Io ne sono un esempio: 110 e lode, ho vinto un concorso di dottorato, ma solo dopo 9 mesi sono riuscita ad avere un lavoro part-time come segretaria. Questa è l’Italia: un paese che non investe nei giovani validi e desiderosi di lavorare.

  5. Guido Moretto

    Che fortuna essere fuori dal circuito universitario, sviluppare formazione di qualità in un contesto libero, senza troppa burocrazia o regolamentazione, dove è l’utente (cliente) a giudicare la validità della spesa, eventualmente anche elevata.

  6. Paolo Manzini

    "… Così, con il meccanismo delle due idoneità entreranno in servizio 3.556 nuovi docenti, circa il 10 per cento dell’attuale corpo docente (ordinari e associati); magari non subito, perché il blocco parziale del turn-over rallenterà le immissioni in ruolo…" Certo sarebbe stato meglio avviare le nuove procedure concorsuali (legge 230/2005), ma, tenuto conto del blocco dei concorsi negli ultimi due anni, stupisce che gli Autori non accennino al fatto che 3.556 posti sono molto meno del numero di pensionamenti per raggiunti limiti di età nel tempo di attuazione delle procedure e delle prese di servizio: già l’università italiana, come sistema, è sottodimensionata rispetto agli standard europei, vogliamo svuotarla? Stesso discorso per la proposta riduzione a 65 anni dell’età massima di pensionamento: già abbiamo il più alto numero di studenti (fuori corso esclusi) per docente, se si diminuisce il numero dei docenti, chi terrà i corsi?

  7. Alessandro Figà Talamanca

    La proposta più importante di questo articolo, e quella più facilmente adottabile dal governo è la revisione della la scala degli stipendi dei professori universitari. Penso però che sia più urgente aumentare gli stipendi di ingresso nel ruolo di prima fascia, in modo da consentire il reclutamento a questo livello di studiosi esterni all’università italiana. Questi aumenti potrebbero avvenire a costo zero o addirittura a costo negativo intervenendo sugli stipendi finali dei docenti di prima fascia, e abolendo (dopo averla resa inutile) la "ricostruzione della carriera", come ho spiegato in un articolo pubblicato a luglio da Ilsole24ore. Non ha senso che lo stipendio netto iniziale di un professore sia la metà di quello che lo stesso professore prenderà dopo trenta anni, facendo le stesse cose, con uguale (o peggiore) competenza. Segnalo che sullo stato giuridico dei docenti ed il pensionamento per tutti a 70 anni è già intervenuto con legge il Ministro Moratti.

  8. Giovanni Maglio

    La realtà italiana è quella di una classe politica che considera uno spreco di risorse il finanziamento dell’alta formazione e della ricerca e coltiva, sotto l’egida della Confindustria, il progetto di privatizzare il sistema universitario di eccellenza imitando modelli provenienti da nazioni ben diverse dalla nostra, e che dispongono di un sistema industriale avanzato e aperto all’innovazione e di fondi adeguati per la ricerca e lo sviluppo. Tutto ciò nulla toglie alla fondatezza delle critiche alla gestione delle risorse da parte delle Università e al buon senso delle proposte formulate da Cecchi e Jappelli, in particolare nell’utilizzare valutazioni di merito per stabilire il finanziamenti degli atenei e per l’avanzamento di carriera dei docenti, e nell’investire risorse economiche per aumentare il vergognoso stipendio d’ingresso dei docenti. Temo che queste resteranno pie illusioni. Due osservazioni: non è vero che millle concorsi a professore associato o ordinario, con due idoneità, aumenteranno l’organico di duemila unità dal momento che la quasi totalità degli idonei saranno già in ruolo; inoltre, serve un contrasto alla proliferazione dei corsi di studio.

  9. Tiziano Tempesta

    Anche se condivido parte dell’articolo, devo osservare che i concorsi banditi di recente non comporteranno un aumento del corpo docente e determeneranno solo un parziale aumento della spesa. I nuovi concorsi per Associato e Ordinario servono nella quasi totalità dei casi a favorire la progressione di carriera di Ricercatori e Associati. Solo i concorsi per ricercatori fanno aumentare il personale docente. Ovviamente si potrebbe discutere sull’opportunità di aumentare i costi per il personale docente in questa fase. Sarebbe forse stato più opportuno utilizzare il budget docenza per assumere nuovi ricercatori. Non va però trascurato che la progressione di carriera dovrebbe costituire, in un sistema che favorisca il merito, uno degli stimoli per aumentare la produttività. Mettere mano al reddito degli ordinari per aumentare quello dei ricercatori, così come limitare la progressione della carriera, paradossalmente potrebbe raggiungere l’effetto di ridurre la voglia di produrre e fare seriamente ricerca. La meritocrazia necessita di stimoli e quello economico può essere importante. Naturalmente, le progressioni dovrebbero basarsi sul merito, ma questo è un altro tema…

  10. Alessandro Figà Talamanca

    Non c’è dubbio che ci siano sprechi nelle unversità italiane, ma non sarà facile capire dove e come fino a quando non si riesca a distinguere tra le spese per l’istruzione e la ricerca ed il contributo diretto delle facoltà di medicina al servizio sanitario nazionale. Questo è specialmente vero per le università più spendaccione: Sapienza e Federico II. I confronti internazionali sono difficili, tuttavia un calcolo pubblicato nel dicembre 2006 su Ilsole24ore da Roberto Perotti indicava che nel 2004 la spesa media per studente "equivalente a tempo pieno" (non laureato) in Italia era di 15.400 PPP (“Purchasing power parities )dollar mentre in Gran Bretagna era di 19.600 “PPP dollars”, cioè di oltre il 25% superiore. L’aumento delle entrare e delle spese universitarie in GB degli ultimi anni è certamente da attribuire agli effetti dei Research Assessment Exercises che in Italia vengono ritenuti un mezzo per contenere le spese.

  11. Felice Di Maro

    L’articolo pone obiettive analisi per migliorare le nostre università ma poi si afferma che per i docenti si potrebbe passare dagli attuali 70 anni a 68 per andare in pensione. Sinceramente non capisco. Possibile che potrebbe essere questa la soluzione? E, non magari rivedere il ruolo della formazione universitaria nel mondo contemporaneo? La formazione è un qualcosa che non è mai uguale a se stessa e muta continuamente con i progressi delle acquisizione scientifiche. Dovrebbe essere in linea con il rapporto scienza e produzione e chiaramente non lo è. Cosa succederà se si abbassa l’età pensionabile? Succede che il lavoro nero aumenterà anche a livello di formazione e magari a livello dei centri privati che comunque non sono proprio controllati nel senso che potrebbero imbarcare nel proprio corpo docenti pensionati che potrebbero accettare anche di essere pagati di meno. Forse sarebbe il caso di discutere del ruolo della longevità che aumentà come fenomeno nel mondo contemporaneo e che chiaramente contrasta con le legittime aspettative dei giovani che chiedono di entrare nel mercato del lavoro. Ma questo ovviamente è un altro tema.

  12. Giovanni Scotto

    Un problema annoso mi sembra spesso dimenticato: la discrepanza tra i centri di potere effettivo (chi decide le cose) e gli erogatori dei servizi. A decidere dove investire le risorse sono le Facolta’ che decidono di mettere determinati posti a concorso; a decidere chi ricoprirà il posto sono i settori scientifico disciplinari, cioè i microraggruppamenti per singola area scientifica. Poiché i commissari d’esame vengono eletti, ecco che si sviluppa un complesso gioco di do ut des che ha come principale merce di scambio appunto la seconda idoneità. Chi fa, invece sono i singoli corsi di laurea (che erogano la didattica) e i dipartimenti (che formalmente promuovono la ricerca). Entrambi gli organi non hanno voce in capitolo su cosa insegnare e a chi affidare un posto, se non attraverso le mediazioni dei due centri di potere ricordati sopra. In questo modo gli sforzi di valutazione di quello che le università erogano vengono grandemente depotenziati. prima di costruire meccanismi premiali occorrerebbe superare la stortura della divisione tra chi decide e chi fa.

  13. eva79

    Sono un’assegnista di ricerca con tanta voglia di continuare a fare ricerca ma con poche speranze di riuscirci, perché tra meno di un anno mi scadrà la borsa di studio e so già che sarà quasi possibile per me averne il rinnovo o sperare di partecipare ad un concorso da ricercatore visto che negli ultimi tempi ne esono pochissimi…e per di più quei pochissimi posti da ricercatore sono destinati nella stragrande maggioranza dei casi a nomi già noti nelle università italiane…I tagli generalizzati non servono a nulla, la meritocrazia è quella che serve. Ma se l’università diventasse un’istituzione meritocratica si svuoterebbe della metà dei docenti in attività…e non permetterebbe a tanti "figli di papà" di trovare una tranquilla e prestigiosa collocazione. C’è ancora chi crede che lo studio, la ricerca, l’insegnamento sono passioni vere, a cui dedicarsi con serietà, ben vengano proposte di rendere l’università un posto meritocratico…

  14. Carlo Minganti

    Non capisco perché si cerchi di porre l’enfasi dell’efficienza solo sul piano dei docenti e dei ricercatori. Condivido la premessa dell’inefficienza, condivido anche il discorso sugli incentivi, ma forse diamo un giudizio dell’Università italiana in cui non teniamo conto degli altri indicatori. Nella classifica di QS, la prima Università italiana è quella di Bologna che si classifica al 173° posto, in coda a moltissime Università asiatiche ed a quasi tutte le altre nazioni della UE. Tralasciando gli USA e tenendo conto della sola UE, Bologna si classifica comunque al 71° posto. Vorrei che si meditasse di più sull’indicatore del rapporto tra studenti e staff che per le prime Università nella classifica varia tra 100 ed 80, mentre vale 24 per Bologna, 11 per Roma, 13 per Padova e 12 per Pisa. Non sarà che noi buttiamo via un eccesso di denaro in un eccesso di personale?

  15. paolo mariti

    Ottima analisi della stuazione e proposte tutte nella corretta direzione. Per ridurre il nepotismo ed i tanti altri difetti dei concorsi localmente gestiti e, più in generale, per migliorare il sistema di reclutamento occorre anche ritornare a concorsi nazionali per ampi raggruppamenti disciplinari.

  16. Wil Nonleggerlo

    Il sapere al giorno d’oggi dev’essere accessibile, economico, di qualità. Una democrazia moderna non può prescindere il proprio futuro dal livello culturale dei propri cittadini. Oggi stiamo vivendo una vera regressione culturale, poco chiacchierata, e mascherata da altre problematiche che sembrano, ripeto sembrano, più gravi. Le Università, gli Istituti, le Scuole, hanno bisogno di fondi. Certo bisogna intervenire perchè si efficentizzi l’intero sistema, ma generalizzare tagliando indiscriminatamente fondi, senza soluzioni mirate, è un suicidio pubblico. Generazioni nutrite a Maria de Filippi e Playstation necessitano di rigorosità e strumenti sempre nuovi ed accattivanti per elevare la propria cultura e quindi posizione sociale. La Conoscenza è Libertà. Forse è anche per questo che si vuole non proliferi. Se solo avessimo uno spirito democratico leggermente più spiccato, ci accorgeremmo che la classe politica degli ultimi 15 anni è un agglomerato unico, lontano dalla gente e dai propri bisogni. Lottiamo contro il taglio di risorse indiscriminato, e da un lato facciamo di tutto perchè i vari "datori di cultura" ottimizzino le proprie risorse.

  17. decio

    l’Università è una PA, e in quanto PA non può fallire. Per questo motivo si assumono mediocri raccomandati, che hanno uno stipendio (della propria categoria) uguale a chi lavora tanto e si è sudato il posto. La PA non può fallire e, di conseguenza, non si ha interesse a prendere i migliori. La regionevolezza abita non in italia, ma ad es. in UK, ove le strutture pubbliche per prendere fondi devono produrre tanto e per produrre tanto hanno interesse ad assumere i migliori con contratti a termine che via via diventano a tempo indeterminato. Zero concorsi, zero prove scritte, zero prove orali. Soltanto un colloquio stile aziendale sulle ricerche svolte e che si vorranno svolgere: es: io, capo di un dipartimento punto tutto su di te perché so che mi darai garanzie di serietà e le tue capacità aumenteranno la produttivitò ed il prestigio del mio dipartimento. Il tutto, ovviamente in maniera molto veloce. Poi, se un’unversità offre di più ad un ricercatore o proferssore, questo lascia il vecchio posto (lo libera per un altro – cosa impossibile in Italia) e va da un’altra parte. Questo è quello che si deve fare!

  18. anzianotto

    …Sarà la mia veneranda età (non anagrafica, il vivere in questo mondo precarizzato mi ha invcecchiato molto) ma non apprezzo più questo buonismo e lassismo diffuso. Ritengo (è una mia modesta opinione) che la Vera modernizzazione ed il recupero dell’intero paese passi per il ritorno della Scuola (volutamente maiuscola) alla Scuola dei primi del 900. Non è il numero dei laureati ma la loro qualità che ha fatto sempre primeggiare la Nazione. Non si deve portare per forza alla Laurea chiunque, si devono portare alla Laurea tutti i meritevoli e solo quelli. Ricreiamo gli istituti professionali, ridiamo valore alle differenze, smettiamo di "massificare", ricominciamo dalle elementari a dare il senso del dovere e delle istituzioni (apprezzo il grembiule ed apprezzerei ancora di più il "tutti in piedi" all’arrivo del Maestro). L’università non può avere numero chiuso. Non si lesini sulle risorse (siamo uno Stato, è miope vivere in maniera "economica" questo settore) ma all’Università e, prima ancora all’Istruzione Superiore, si deve arrivare per merito, per capacità, sostenuti se privi di risorse economiche, ma solo se capaci. Deve essere difficile.

  19. re nudo

    In un intervento precedente si menzionava la classifica internazionale delle università QS (www.topuniversities.com), e si faceva notare, giustamente, il relativamente basso posizionamento delle università italiane. In chiusura di lettera tuttavia si notava che a fronte di un basso punteggio complessivo, l’università italiana avrebbe una gran quantità di docenti/ricercatori. Troppi soldi bloccati sul personale? Non proprio. L’indicatore citato per affermare ciò si basa sul rapporto studenti/docenti, ma NON è il rapporto docenti studenti. E’ un indicatore di qualità che considerato 100 il rapporto studenti/docenti della università migliore sotto questo profilo, assegna alle altre un punteggio proporzionalmente decrescente. Conclusione: stando alla ricerca menzionata nell’università italiana ci sono pochi docenti per studente.

  20. Marco Torchiano

    Trovo ragionevoli le proposte dell’articolo. In particolare da sempre sostengo che per limitare l’inbreeding bisognerebbe impedire di assumere dottorandi nella stessa università. Occorre però precisare che: Le università hanno bandito entro il 30 giugno in quanto fino quasi all’ultimo momento sembrava l’ultima data utile, la doppia idoneità era parte del pacchetto. La quasi totalità degli idonei sarà costituita da personale già in servizio, quindi porterà semplicemente un aumento (molto ridotto) degli stipendi. La possibilità dei bandi arriva dopo un lungo blocco dei concorsi. E’ essenziale notare come la progressione di carriera universitaria utilizzi dei meccanismi peculiari che la penalizzano particolarmente alla luce dei nuovi decreti: un passaggio di fascia (es. da ricercatore a professore associato) comporta una cessazione ed una presa di servizio in un nuovo ruolo, quindi viene limitata (pesantemente) dalla limitazione del turnover; in pratica un ricercatore potrà prendere servizio come associato solo dopo che 5 docenti saranno andati in pensione. Provate un po’ a dire che nelle forse armate ci saranno promozioni con la stessa proporzioni.

  21. armando

    Leggendo i vari commenti, subito mi è tornato alla mente un articolo letto tanti e tanti anni fa. In esso si dava colpa evidentissima delle inefficienze dell’Università italiana alla validità legale del titolo accademico. Nei fatti questa impedisce una vera e sana competizione tra gli atenei ed è anche origine delle lobbies corporative che distorcono il sistema delle professioni.

  22. Giuseppe Lipari

    Mi sembra che le vostre proposte di "riforma" per l’Università non colgano il problema centrale dell’Università e della ricerca italiana, che sconta ritardi enormi rispetto agli altri paesi europei. In sintesi: non credo che i concorsi siano il modo giusto di assumere all’Università, e non credo che gli attuali metodi di assunzione siano in alcun modo emendabili. Inoltre, non credo che il contratto di lavoro possa essere collegato alla produttività. Valutare la produttività scientifica e didattica di ogni singolo docente in maniera centralizzata è praticamente costosissimo micro-management. Sono invece a favore di contratti privati tra Università e docenti (entro certi parametri) e una totale dipendenza dei fondi pubblici da parametri quanto più oggettivi possibili di valutazione della ricerca, della didattica e dei servizi. Solo così si potrà creare un circolo virtuoso che porterà a risparmiare denaro rendendo più efficiente la macchina. La mia critica a questo articolo è espressa più compiutamente in un mio post .

  23. Giuseppe Esposito

    Temo che non sia soltanto “un altro tema”: è un tema fuorviante. Escogitare un sistema equo e corretto per legare il finanziamento ai risultati non solo è difficile, ma rischia di non essere utile. In assenza di una riforma dei meccanismi per la ripartizione interna delle risorse, infatti, le ricompense finirebbero spalmate, senza premiare chi effettivamente lo merita. È la separazione descritta da Giovanni Scotto tra chi decide e chi fa, a favorire lo status quo. Ci vuole il coraggio di adottare una soluzione di rottura col passato. Una via praticabile per introdurre – concretamente e subito – la meritocrazia è intervenire sul reclutamento. La cooptazione che, di fatto, oggi governa le selezioni è gestita in modo collegiale, così da “accontentare” sostanzialmente tutti, non solo chi fa ricerca ai massimi livelli. Se invece si rendessero oggettivi, quantificabili e verificabili i criteri per l’accesso alla carriera universitaria, solo i gruppi di ricerca più produttivi e in grado di raggiungere risultati di eccellenza potrebbero assorbire le risorse più pregiate: le persone.

  24. Giuseppe Esposito

    Temo che non sia solo “un altro tema”: è un tema fuorviante. Escogitare un sistema equo e corretto per legare finanziamento e risultati è difficile, ma soprattutto rischia di essere inutile. Con gli attuali meccanismi, infatti, la ripartizione interna delle risorse si limiterebbe a rispettare gli equilibri, senza premiare chi davvero lo merita. La separazione tra chi decide e chi fa – descritta nel commento di Giovanni Scotto – tutela lo status quo. Ci vuole una soluzione di rottura. Finora, nel dibattito su risorse, merito e valutazione, è stato dato per scontato che le risorse siano economiche. Non è vero. Altre risorse, le più pregiate, sono le più adatte all’introduzione – concreta, radicale e rapida – di un sistema meritocratico: le persone. La cooptazione che, di fatto, oggi governa il reclutamento è gestita in modo collegiale: accontenta sostanzialmente tutti, non solo chi fa ricerca ai massimi livelli. Se invece si basasse l’accesso alla carriera universitaria unicamente su criteri oggettivi, quantificabili e verificabili, solo i gruppi più produttivi e in grado di conseguire risultati di eccellenza potrebbero assorbire nuove unità. E l’Università si risveglierebbe.

  25. rosario nicoletti

    La parte propositiva dell’articolo è incentrata sui docenti. Se questo aspetto è importante, penso che vi siano moltissimi altri problemi da affrontare. Il numero degli atenei è cresciuto in modo anomalo e non è pensabile che tutti siano centri di ricerca di eccellenza. Andrebbero valutati e finanziati robustamente solo alcuni. Quelli scartati potrebbero diventare “scuole superiori”, senza compiti di ricerca. Andrebbero chiuse gran parte delle “sedi distaccate” che rappresentano una dispersione di risorse. Per l’accesso alle (poche) università eccellenti andrebbe realizzato il diritto allo studio, aumentando le rette, offrendo residenze e borse di studio sostanziose ai meritevoli. Questo migliorerebbe la qualità degli studenti destinati ad essere classe dirigente. La mobilità del personale docente e ricercatore andrebbe ripristinata per legge: passando di ruolo, (o di fascia, o di qualifica) andrebbe cambiata la sede. Questo valorizzerebbe il merito. Il governo dell’università dovrebbe uscire dalla logica dei meccanismi puramente elettivi dei propri organi di governo, che portano inevitabilmente alla auto-referenzialità ed alla confusione dei ruoli nei processi decisionali.

  26. Fulvio Volpe

    La proposta che dovrebbe diventare impossibile "assumere un ricercatore nelle università in cui si è conseguita la laurea o il dottorato" è assurda. Ma perché se un professore innovativo si sceglie e si coltiva un allievo brillante, quest’ultimo dovrebbe abbandonare per forza l’istituto dove si è formato invece di continuare la ricerca in sinergia con i colleghi? Costretto ad andarsene per andare dove poi? Non è affatto detto che vi siano altre università o istituti dove si fa ricerca sugli stessi temi. E se il dottorando è sposato e ha una famiglia? Perché obbligarlo a cambiare città se non paese se non è necessario? In nome di quale principio?

  27. Fabrizio

    Aggiungerei un’altra piccola proposta concreta e a costo zero: sul sito del ministero dell’università, alla voce Ministro Mariastella Gelmini, c’è una bella foto e il seguente curriculum Mariastella Gelmini Nata a Leno (Brescia) il 1° luglio 1973 Laurea in giurisprudenza; Avvocato Eletta nella circoscrizione IV (LOMBARDIA 2) Lista di elezione: IL POPOLO DELLA LIBERTA’ Proclamata il 22 aprile 2008. Iscritta al gruppo parlamentare: POPOLO DELLA LIBERTA’ dal 5 maggio 2008. Perchè non chiedere al ministro, che dispone della carriera di professori e ricercatori, di pubblicare il suo curriculum professionale come fanno tutti gli universitari e quelli che ambiscono ad una carriera accademica?

  28. stefano monni

    Nel 1997 mi sono laureato alla Sapienza di Roma; attualmente frequento un corso di studi universitari triennale in una università privata di Roma. Ho potuto così constatare purtroppo il pessimo livello qualitativo della nostra formazione universitaria rispetto al passato, peraltro ormai da più parti riconosciuto. Riconosco però che la tendenza nazionale della critica distruttiva e non costruttiva non risolve certo i tantissimi problemi che affligono il sistema formativo nazionale. Ecco allora le mie proposte in merito al sistema universitario. Il finanziamento pubblico alla ricerca dovrà essere meglio utilizzato, come descritto nell’articolo, e soprattutto accompagnato da un finanziamento proveniente dalle aziende private, prevedendo magari forme di incentivazione da parte dello Stato. Relativamente alla progressione in carriera, la stessa non dovrebbe essere in alcun modo automatica, ma in ragione della professionalità acquisita e dimostrata; un criterio potrebbe essere quello delle iscrizioni al corso. La professione di docente universitario dovrebbe essere totalmente incompatibile con altri incarichi pubblici e privati.

  29. Ricercatore in fuga

    Concordo con l’obiettivo di fondo, ma mi trovo in forte disaccordo su vari punti dell’analisi. In primo luogo vengono date cifre senza il contesto: per esempio Polimi è stato molto penalizzato negli ultimi anni dai vari blocchi dei concorsi. Blocchi che hanno colpito prima di tutto gli upgrade e non i nuovi ingressi. Secondo, rendere il meccanismo di rectruiting ancora più complicato, come ben dimostra il fallimento dell’esperienza italiana, punisce quasi sempre solo chi merita e non evita i pastrocchi. Il nepotismo si colpisce penalizzando la struttura che lo pratica e non tutto il sistema. L’idea di separare in modo forzato un dottorando o un ricercatore dal gruppo di ricerca dove hanno inziato a lavorare è molto discutibile. Inoltre ci si dimentica la cruda realtà dell’Università Italiana dove i ricercatori fanno prima di tutto didattica, attività gestionali e burocrazia. Purtroppo la "ricerca" per molti di noi si fa nel tempo libero. Se ci basiamo solo sui paper pubblicati si rischia di penalizzare chi di fatto fa funzionare la didattica e la macchina organizzativa per premiare i pochi privilegiati e/o protetti ai quali viene risparmiato il "lavoro sporco".

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén