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PROFESSORI IN CARRIERA

Oggi la carriera universitaria prevede stipendi molto bassi all’inizio, per i ricercatori. Una riforma dovrebbe modificare gli scatti d’anzianità, per legarli alle pubblicazioni scientifiche. Dovrebbe garantire il contratto a tempo indeterminato, ma solo dopo un periodo di prova di almeno quattro anni. E prevedere sanzioni per i docenti che si dedicano a lucrose attività extra-accademiche e trascurano ricerca e insegnamento abbassando così il rating dei dipartimenti. Non serve invece l’anticipazione del pensionamento obbligatorio.

La discussione sulla riforma dell’università italiana, non può prescindere da alcune riflessioni su elementi relativi al “contratto” che lega docenti e università.

VALORE DELLA CARRIERA E RINGIOVANIMENTO

Il sistema universitario italiano può essere competitivo a livello internazionale e attirare ricercatori da tutto il mondo solo se è competitivo anche sul piano del valore economico della carriera, calcolato alla “data zero”. Oggi gli stipendi dei ricercatori sono bassissimi all’inizio, e arrivano  dopo almeno otto-dieci anni di studio universitario a salario zero, mentre il profilo intertemporale della retribuzione successiva premia esclusivamente l’anzianità di servizio. Ovviamente, gli stipendi futuri lontani nel tempo, alla data zero, hanno un peso molto basso nel calcolo del valore attuale. Sottrarre ricercatori alla concorrenza estera con la promessa di uno stipendio decente solo dopo quindici anni di lavoro è impresa assai improbabile per l’università italiana. Quindi, l’idea spesso sbandierata dal ministro di turno, sia di sinistra che di destra, di rinnovare l’università con migliaia di concorsi per posti di ricercatore, con gli attuali stipendi, è del tutto controproducente: la qualità media dei concorrenti è, purtroppo, bassa. Persino più bassa, a volte, delle generazioni precedenti, e i concorrenti sono solo italiani. I concorsi per ricercatore non bastano a migliorare l’università e forse neanche a ringiovanirla, vista l’età media dei vincitori. Si deve passare a un sistema di reclutamento che non garantisca il posto a vita, se non dopo una valutazione seria dei risultati a quattro-cinque anni dall’assunzione, ma che garantisca un tenore di vita accettabile fin dai primissimi anni di carriera.

ANZIANITÀ E REMUNERAZIONE

Ipotizziamo che un lavoratore debba scegliere tra due proposte di lavoro, una dell’azienda A e una dell’azienda B. Se l’azienda A premia il merito, mentre B solo l’anzianità, i lavoratori più abili e competitivi sceglieranno l’azienda A. Dunque, la politica credibile dell’azienda, per attirare i migliori lavoratori, deve essere quella di premiare il merito. Naturalmente, la produttività (merito) cresce nella fase iniziale della carriera e decresce con l’età. Un lavoratore consapevole del fenomeno sa che in età avanzata sarà anche meno produttivo, come succede a molti ricercatori scientifici, e potrebbe perciò preferire l’azienda B anche se lì inizialmente il suo stipendio è più basso. Quindi, per evitare di perdere lavoratori eccellenti, ma avversi al rischio, l’azienda A deve temperare la politica d’incentivi al merito con premi per l’anzianità di servizio. Gli incentivi alla produttività, inoltre, possono essere mantenuti anche per i più anziani in servizio, con forme di premi occasionali al merito e con stimoli di soddisfazione non pecuniaria, come valorizzazione dei risultati scientifici, della didattica, delle collaborazioni con i più giovani. Che la remunerazione cresca con l’anzianità non è di per sé dannoso, anzi crea un legame tra l’azienda, o l’università, e il dipendente. Èdannoso che cresca solo con l’anzianità. La riforma deve cercare di modificare sostanzialmente gli scatti d’anzianità, non per fare cassa, ma utilizzandoli per legarli in cospicua parte alle pubblicazioni scientifiche.

CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO E COMPORTAMENTI OPPORTUNISTICI

Nella gran parte degli atenei, in tutto il mondo, i professori universitari godono del privilegio del contratto a tempo indeterminato. Poiché questo privilegio è concesso anche nelle università private, ad esempio negli Stati Uniti, vale la pena ricordare quale ne è la spiegazione fornita dagli economisti. (1)
La ricerca dell’efficienza richiede che in ciascun settore scientifico l’università recluti i giovani migliori. Ora, se il reclutamento deve essere affidato a esperti, tralascio qui i problemi dei concorsi italiani, l’università deve quasi forzatamente chiedere che la selezione sia fatta dai membri dei propri dipartimenti. Infatti, in un sistema concorrenziale, membri dei dipartimenti di un ateneo concorrente avrebbero l’incentivo a tenersi i migliori per sé e ad assumere i mediocri nelle altre università. Dunque, i propri docenti sono anche i reclutatori delle nuove leve di un ateneo. Ovviamente, un professore che sa di poter essere licenziato se la sua produttività è minore di quella di un altro, non ha incentivi a reclutare giovani che possano surclassarlo. Proprio il contrario di quello che l’università vorrebbe in un sistema competitivo. Il costo della garanzia a non licenziare è necessario, benché non sufficiente, per un reclutamento efficiente.
Un’altra spiegazione del contratto a tempo indeterminato si basa sulla speciale natura del mestiere di docente e di ricercatore, che può essere esercitato in libertà, e quindi anche in modo efficiente, solo se si assicura un sufficiente grado di indipendenza dal potere politico, economico, religioso. La riforma deve continuare a garantire un contratto a tempo indeterminato, ma solo dopo un periodo di prova che duri almeno quattro anni.
Inoltre, per evitare comportamenti opportunistici dei docenti, vanno studiate forme di sanzioni, come la decurtazione di parte dello stipendio o l’obbligo di ricorrere al tempo definito o persino congedi temporanei obbligatori senza stipendio per quei docenti che, svolgendo lucrose attività extra-accademiche, fossero portati a trascurare il lavoro di ricerca e di insegnamento e dunque ad abbassare il rating accademico dei dipartimenti a cui appartengono.

PENSIONAMENTO

Un’anticipazione del pensionamento obbligatorio è stata proposta dalle colonne de lavoce.info. Tuttavia, applicare tale misura ai docenti già in ruolo danneggerebbe quelli che vivono solo dello stipendio, che pur hanno accettato un contratto con bassissimi stipendi iniziali. Ma non penalizzerebbe coloro che praticano professioni private, magari con poca attività accademica.
Un cambiamento del sistema di progressione stipendiale, basato sul merito, si potrà accompagnare a  forme d’incoraggiamento alla pensione per i docenti già in ruolo che desiderano cessare la loro attività accademica e che abbiano almeno 67 anni. Le misure potrebbero essere: (i) la creazione di una categoria, cui si acceda per scelta individuale a qualsiasi età, di professori non attivi, non stipendiati, con il mantenimento del titolo accademico, (ii) l’obbligo per tutti d’insegnare almeno 120 ore annue, oltre a una presenza annuale obbligatoria in ufficio minima equivalente a due giorni a settimana: ciò basterebbe a spingere all’uscita i docenti che preferiscono la professione privata; (iii) limitare drasticamente l’accesso degli over 67 ai fondi di ricerca; (iv) vietare agli over 67 la partecipazione alle commissioni di concorso e ai posti di direzione dei dipartimenti e facoltà.

(1) Milgrom e Roberts: Economics, Organization and Management, 1992, Prentice Hall. (Traduzione italiana, Economia, Organizzazione e Management, Il Mulino 1994)

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21 commenti

  1. Carlo

    Distinguere tra docenti "a tempo pieno" e docenti "a tempo perso", premiare i primi (per evitare che i migliori se ne vadano o non vedano più nell’Università una prospettiva attraente), sanzionare i secondi. Questo, peraltro, richiede di definre meglio cosa intendere per "professore a tempo pieno": esercizio di una professione, e comunque non "extra moenia", ma anche redditi "diversi" (un docente che ricava da consulenze, incarichi e presidenze, o altri redditi comunque da lavoro più del suo reddito come docente non dovrebbe essere comunque considerato "a tempo pieno"). Limitare quindi ai soli docenti effettivi (prevedendo appunto più rigorosi standard di "presenza minima" e produzione scientifica) incantivi aggiuntivi e la possibilità di ricoprire le cariche accademiche, la possibilità di far parte di commissioni di concorso. Consentire la permanenza oltre i 67 anni solo ai docenti "effettivi".

  2. p.b.

    Concordo sui temi relativi alla valutazione dei meriti, ma credo che il pensionamento obbligatorio a 65 anni sia invece necessario, anche per una questione di riequilibrio generazionale dell’università italiana, decisamente gerontocratica. Altrove, ad es. in Germania, a 65 anni un docente deve lasciare, e questo avvia il ciclo del ricambio generazionale (lo chiamano il “ciclo dei maiali” in tedesco). Se i posti lasciati liberi dai pensionamenti obbligati a 65 anni venissero poi sostituiti da cattedre di ricerca, si otterrebbe un non indifferente incentivo allo svecchiamento.

    • La redazione

      Cedo che la foga iconoclasta contro "i vecchi" sia decisamente esagerata. Il problema e’ la produttivita’ delle persone, non la loro eta’. Chi non e’ produttivo va incentivato, o obbligato, a scegliere un regime che liberi risporse per l’Universita’. Non e’ necessariamente il regime pensionistico. In ogni settore si propone un aumento dell’eta’ pensionabile, per risolvere il problema della sostenibilita’ del sistema pensionistico nel futuro. Sembra strano andare cotrocorrente proprio nell’Universita’. Tra l’altro da calcoli che circolano, con le attuali regole nei prossimi 5-6 anni dovrebbe andare in pensione il 40% dei docenti. Anticipando l’eta’ pensionabile si rischia di far collassare il sistema. Infine, cambiare il contratto in modo drastico a chi ha accettato una, magari lunghissima, gavetta a salari bassi per tagliargli proprio la parte decente della retribuzione mi pare francamente una vigliaccata (che non giova alla credibilita’ del "datore di lavoro" nei confronti dei piu’ giovani: il contratto rinnegato una volta vale come precedente!).

  3. Alberto Chilosi

    La soluzione ai problemi di reclutamento derivanti dal basso stipendio dei ricercatori è semplice: basta devolvere le risorse destinate alle assunzioni esclusivamente a bandi per professore associato. Fra l’ altro lo stato giuridico dei ricercatori è un non senso: mentre altrove anche i docenti all’ inizio di carriera (lecturer senza tenure o assistant professor) hanno il compito di tenere corsi di lezione, questo è puramente facoltativo per i nostri ricercatori, che non si capisce cosa in realtà abbiano il dovere didattico di fare se non di partecipare alle commissioni di esami. Bandendo posti di associato si garentirebbe un più adeguato trattamento economico e uno stato giuridico più utile e soddisfacente, sia per il docente che per l’ istituzione.

  4. Alberto Chilosi

    Mi sembra giusto legare gli scatti di anzianità alla produzione scientifica (ma con la produzione didattica come la mettiamo?). Non mi pare corretto invece legare l’ attribuzione dei fondi di ricerca all’ età o ad altri parametri e non alla produzione scientifica. Se si applicasse il criterio proposto la Levi Montalcini avrebbe dovuto interrompere la propria attività scientifica ben prima di raggiungere la presente, ma ancora ben attiva e veneranda età… Sarebbe stato nel pubblico interesse? Non vedo per quale motivo i fondi di ricerca debbano essere negati a chi continua ad essere attivo e produttivo nella ricerca.

    • La redazione

      Sono sostanzialmente d’accordo con Lei sulla abolizione del ruolo di Ricercatore.
      Concordo parzialmente sull’accesso ai fondi di ricerca per gli over 67: i criteri di produttivita’ scientifica dovebbero essere molto piu’ stringenti che per i piu’ giovani. In ogni modo, come propongo nel punto sulla retribuzione, sarebbe importante dare riconoscimenti una tantum, anche ripetuti alla stessa persona, alla produttivita’ scientifica, indipendentemente dall’eta’. Nessuno vieta ad un Ateneo di istituire un fondo speciale di ricerca e di retribuzione per l’eccellenza per premiare ricercatori di ogni eta’. Ma questi, come sappiamo, sono dettagli.

  5. Paolo

    Sono d’accordo con l’articolo, anche se vedo problemi di transizione da uno stato, quello di oggi, a quello del dopo riforma. Ammettiamo che sui nuovi concorsi i salari iniziali invece di 1500 euro siano di 2200 euro, così’ da attrarre i migliori, anche dall’estero. Ma cosa si dice a coloro che hanno vinto un concorso solo un anno prima della riforma? Che loro guadagnano molto meno perchè poco fortunati? E se si alzassero i salari di chi ha vinto diciamo negli ultimi 10 anni, cosa diranno gli associati che guadagnano 2000 euro? Per fare una proposta di questo tipo è cruciale come gestire la transizione.

  6. Depresso

    Non riesco a capire perchè la categoria dei docenti universitari sia così autolesionista! Ho 45 anni e da poco chiamato come "straordinario"(oltre ad essere bravino ho avuto anche fortuna). Dopo 22 anni (come precario, ricercatore ed associato) il mio cedolino di novembre riporta la cifra netta di poco più di 2.400 euro (molto meno di quanto guadagni un burocrate di medio livello in un’amministrazione regionale). Non ho mai pensato di arricchirmi con l’Università ma non credevo si sarebbe arrivati al punto da considerare strapagato il nostro lavoro. Dalle ben note tabelle del collega Pagliarini si può evincere che la retribuzione annua di un ordinario al massimo livello è intorno ai 100.000 euro (la maggior parte di coloro che si laurearono con me ha oggi redditi annui tra i 150.000 ed i 300.000 euro). Sono anni che i fondi per la ricerca dipartimentale che riceviamo si aggirano sui 5000/6000 euro (per 22 persone) e non riusciamo neanche a pagare le spese del telefono. Quale produttività scientifica si può garantire a queste condizioni? Dimentichiamo che abbiamo in carriera 9 anni di prova a stipendio bloccato? Perché non rendere più efficaci i giudizi di idoneità?

  7. Andrea Melchior

    Il "periodo di prova" per i ricercatori di 3 anni esiste già, solo che le valutazioni successive sono sempre positive. Basterebbe introdurre valutazioni dopo i primi 3 anni basate su criteri oggettivi che devono raggiungere obbiettivi minimi. Questi criteri potrebbero essere fissati dai Dipartimenti che, a loro volta, verrebbero premiati (economicamente) in base alla loro selettività verso i nuovi dipendenti, in quanto capaci di garantire un livello maggiore di produttività scientifica e didattica. Inoltre, per "provare" un nuovo ricercatore, si dovrebbe garantire nei 3 anni di prova un minimo di fondi per la ricerca ed eventualmente la possibilità di assumere dei dottorandi o postdoc per cominciare i suoi progetti in maniera autonoma. In questo periodo di parla molto degli stipendi dei professori e degli sprechi dell’Università, ma non si dice nulla sull’esiguità dei fondi della ricerca italiani rispetto a quelli degli altri paesi Europei. Introdurre un sistema tipo "tenure track" senza una fonte di finanziamento iniziale, una struttura adeguata ai suoi progetti e (soprattutto) autonomia nella ricerca non è realistico.

  8. rosario nicoletti

    Il commento del giovane collega, "depresso", mi invoglia a suggerire i motivi per i quali i "docenti" sono così autolesionisti. L’università è una galassia di situazioni differenti: si va da quelli che vi trascorrono qualche ora al mese, talvolta all’anno, ad altri che sgobbano 7-8 ore al giorno e tengono due o tre corsi a classi di cento studenti. Vi è chi svolge ricerche ben presenti nel circuito internazionale, altri che preparano documenti utili solamente alle proprie attività professionali; c’è anche chi non fa nulla. Alcuni sono professori di università non statali, e vivono una realtà differente. Tutti costoro si fregiano del titolo di professori, ed a seconda delle discipline e delle circostanze hanno un diverso spazio mediatico. E’ possibile così ascoltare e leggere le proposte e le affermazioni più stravaganti. E’ probabile, ad esempio, che quanti parlano dei favolosi stipendi non li hanno mai vissuti sulla loro pelle: così come carriere, concorsi, pensionamenti sono visti da un’ottica del tutto personale e diversa da quella suggerita dal buon senso di quanti vivono in altro modo la realtà.

  9. Giacomo Dorigo

    Una proposta che secondo me andrebbe ripescata è quella di separare le università che si specializzano in ricerca da quelle che si specializzano in docenza. Nelle prime dovrebbero lavorare solo ricercatori, dovrebbero essere finanziate solo in base al numero di pubblicazioni e brevetti e dovrebbero avere tutte classi a numero chiuso. Nelle seconde invece dovrebbero lavorare solo docenti, dovrebbero essere finanziate in base al numero di studenti e a criteri oggettivi di valutazione dell’insegnamento. Anche i dottorati dovrebbero essere diversi nelle due istituzioni: un dottorato di ricerca di tre anni nelle prime e una scuola di specializzazione per insegnanti nelle seconde (un anno per insegnare alla media inferiore, due per la media superiore, tre per l’università). Anche i metodi di insegnamento cambierebbero: più orientati a formare nuove leve di ricercatori altamente qualificati le prime, più orientate a formare buoni professionisti con un’ampia cultura le seconde. I regimi contrattuali dovrebbero essere a loro volta diversi con carriere separate. Infine, per quanto utopico, le prime dovrebbero essere finanziate interamente dall’UE, le seconde dagli Stati.

  10. Paolo Z.

    Sono molto d’accordo con le linee di riforma proposte nell’articolo, compresa la penalizzazione dei docenti "anziani". Anch’io ho avuto esperienza di giovani bravi che hanno rinunciato a possibilità di carriera perché scoraggiati dalla mancanza di prospettive e/o attratti da più alti stipendi del mondo esterno (il privato soprattutto, ma anche il pubblico). Non capisco perché anche sotto questo profilo non possiamo ispirarci agli standard medi dei paesi più avanzati. Resto però pessimista sulla possibilità di procedere su questa strada per i troppi interessi contrari.

  11. Michele Costabile

    Ancora un esempio di dibattito sull’irriformabile. L’unica attività su cui uno stato moderno deve intervenire è la “politica” di ricerca e insegnamento, nel senso di interventi che incentivino l’innovazione e la sperimentazione nei settori ritenuti strategici. Per il resto un buon sistema di valutazione (bilanciata) delle performance basta e avanza per mettere in moto il mercato delle remunerazioni e delle risorse. Ma veramente c’e’ qualcuno che pensa di poter governare in modo efficace con contratti nazionali il sistema degli stipendi e dei differenziali fra sedi o nel tempo, ecc. ecc.? Perche’ non affidarsi al mercato e limitarsi a diffondere informazioni che riducano l’asimmetria che svantaggia la domanda (di studenti e famiglie) in fase di scelta? Speriamo proprio che Giavazzi & co. sostengano la Gelmini con robuste dosi di cultura e conoscenza del mercato nel riformare il sistema sovietico che ancora governa gli Atenei italiani e, ahinoi, le menti di molti accademici (temo la gran parte).

    • La redazione

      La ringrazio degli spunti che mi offre. Che lo Stato finanzi l’Università non è una proposta, è un fatto, in tutta Europa – ma anche in misura massiccia negli USA. Comunque, non penso a una legge-monstre che regoli tutto e mi scuso se ho dato quest’ impressione. Al contrario, spero proprio che il Ministro Gelmini dimostri in futuro di voler lasciare molta autonomia agli Atenei (anche le imprese adottano modelli organizzativi diversi tra loro). Vedremo i risultati, mentre per ora qualcuno si entusiasma se le risorse vengono tagliate un po’ meno ai più virtuosi. Cosa buona assai all’interno del nostro piccolo recinto, ma che non ci fa notare nel resto del mondo come Paese appetibile in cui venire a fare ricerca. Venendo alle “massicce dosi di mercato”,  mi pare che ne circolino visioni assai “vecchie”. Il mercato è proprio il posto in cui imprese piccole, grandi e grandissime, che competono tra loro, si occupano giornalmente di affinare le relazioni contrattuali e i meccanismi incentivanti. Per non parlare delle relazioni contrattuali sui mercati del credito, del lavoro, assicurativi. Non sorprende, quindi, che un numero molto rilevante di economisti, studi da tempo  ciò che accade “lì fuori”, senza slogan pro o contro il mercato. Posso suggerire al Ministro Gelmini i nomi di alcuni insigni economisti, niente affatto ossessionati da mentalità di tipo sovietico, a cui chiedere consigli sul tema: Jean Tirole, Patrick Rey, Mathias Dewatripont, per restare in Europa. Sono sicuro che, se sollecitati, saranno felici di formulare proposte che il Ministro potrà valutare assieme ai suoi consiglieri.

  12. Giovanni Somogyi

    L’articolo di Garella, che anzi ha uno sgradevole odore di razzismo antianziani. Nelle Università italiane ci sono over 65 che sono tra le migliori menti che l’Italia possa vantare; mentre conosco personalmente una quantità di giovani che l’educazione mi impone di qualificare come intellettualmente scarsi (ma vi sarebbero termini più adatti, anche se più crudi).

  13. Gian Maria Bernareggi

    Forse qualcosa si muove nelle direzione indicata da Paolo Garella, con cui concordo su tutto – tranne che sulla esclusione “per anzianità” dai finanziamenti per ricerca, commissioni di concorso ed organi di governance. Certo, quanto alla fattibilità finanziaria, va considerato che volendo dare agli stipendi iniziali una dimensione competitiva occorrerebbe per lo meno raddoppiarli , e probabilmente la maggiore spesa non potrebbe essere coperta integalmente dai risparmi dovuti al ridimensionamento degli scatti di anzianità. Per funzionare, la modifica difficilmente potrebbe essere a costo zero. Occorrerebbe allora che il Governo rivelasse una sua scala di priorità, con il “capitale umano ” al primo posto. In Italia? Ma dai…

    • La redazione

      Condivido il pessimismo: credo che la riduzione degli scatti d’anzianità verrà usata come pretesto per ridurre gli stipendi tout-court e fare cassa. Non è la direzione che io auspico. Ma staremo a vedere. Sull’allocazione dei fondi di ricerca ai docenti ho già risposto più giù ad Alberto Chilosi.  Per le commissioni di concorso: credo che i docenti che siano vicini alla pensione possano lasciare ai propri colleghi il compito di scegliersi i nuovi collaboratori.

  14. Gianluca Giavitto

    Sono uno studente di Fisica dell’Università di Trieste, ateneo “non virtuoso”, ma seconda università in italia (fra le statali) in quanto a qualità. Sono rimasto colpito dall’articolo in quanto sembra ricalcare le proposte e le idee che sono uscite dalle assemblee delle scorse settimane qui alla facoltà di scienze. Il punto centrale della nostra discussione è stato l’istituzione di un sistema a cui subordinare gli scatti di anzianità e i passaggi di carriera ricercatore-associato-ordinario. Questo sistema secondo noi deve essere a soglia minima, con un valutazione incrociata della produttivita’ scientifica e della didattica. E questo è il punto in più rispetto all’articolo: noi proponiamo che non siano solo il numero e la qualità delle pubblicazioni scientifiche a determinare la retribuzione del professore in questione, ma anche le valutazioni degli studenti sul suo operato alla cattedra, e che questi due criteri siano paritetici.

    • La redazione

      Mi rincuora che gli studenti si rendano conto dell’importanza del sistema di relazioni contrattuali che lega i docenti alle Università. Sono però assolutamente contrario ad utilizzare le valutazioni degli studenti per le promozioni dei docenti. Le valutazioni sono facilmente influenzabili da parte dei docenti, gli studenti non sanno se ciò che gli viene insegnato è veramente alla frontiera del sapere o se sono cose vecchie. Gli studenti tendono a essere indulgenti con i docenti per i quali hanno simpatie politiche, e così via.

  15. Alessandro Figà Talamanca

    E’ lo stipendio iniziale degli (stra)ordinari e degli associati che dovrebbe essere elevato, partendo, ad esempio dallo stipendio che avrebbero dopo dieci anni di servizio. Sarebbe così possibile utilizzare i concorsi di prima e seconda fascia, come reclutamento e non solo per promozioni. Penso che in compenso basterebbe fermare la progressione per anzianità degli ordinari dopo trenta anni di servizio, e sopprimere le "ricostruzioni di carriera".

  16. Italo

    "Insegnare è inutile a meno che non sia superfluo". Feyman.

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