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LA RISPOSTA AI COMMENTI

Commento: Vi è il rischio di accesso alle professioni senza laurea.
Risposta: No! Nella mia proposta ho subito chiarito che il profilo abilitativo della laurea va lasciato così com’è: non è lì il problema.

Commento: Non sarebbe meglio stabilire che la laurea sia un requisito necessario per l’accesso ai concorsi pubblici, ma lasciare che la valutazione sia incentrata interamente sulla prova concorsuale?
Risposta: Vedrei questa soluzione come un second best, almeno si eviterebbe la scandalosa prassi attuale, in base alla quale i laureati provenienti dalle università selettive, che quindi spesso hanno punteggi di laurea non alti, sono superati dai candidati provenienti dalle università non selettive, che regalano i 110 e lode.
Tuttavia si rifletta che: a) incentrare tutta la valutazione sulla prova concorsuale implica un aumento dei costi amministrativi (la prova deve essere, infatti, articolata, ben congeniata e ben calibrata), b) la prova unica aumenta il rischio di risultati casuali: con una valutazione ‘one shot’, la fortuna/sfortuna diventano elementi condizionanti; c) nonostante l’accuratezza della prova concorsuale, il risultato della valutazione sarà molto più veritiero se si tiene in adeguata considerazione il curriculum di studi del candidato, curriculum fondato su una preparazione di 3 o 5 anni e basato sul risultato di 15-25 diversi esami. Perché rinunciare a valutare questi dati?

Commento: Nessun ranking può valutare con precisione il valore delle Università.
Risposta: Vero solo in parte. E’ certo che tutti i parametri utilizzabili sono discutibili (e concordo sulla artificiosità della classifica stilata dall’Università di Shangai). Tuttavia, tutte le classifiche più accreditate si fondano su parametri difficilmente contestabili, quali la produzione scientifica dei docenti, il rapporto del numero docenti/studenti, le performances degli studenti nel corso di studi, ecc. L’applicazione del complesso di questi parametri consente una valutazione abbastanza veritiera del valore delle singole Università. Chiunque insegni può testimoniare, ad esempio, che il ricercatore che pubblica molto è mediamente più preparato, dedicato e capace di trasmettere il sapere di quello che pubblica poco o niente. Che avere 20 studenti a lezione consente di fornire una preparazione migliore rispetto all’ipotesi di averne 200, ecc
Ma c’è un punto che deve indurre ad accettare definitivamente lo strumento del ranking. Mentre in Italia stiamo ancora discutendo del valore delle classifiche, il resto del mondo le usa senza problemi e giudica le nostre università altrettanto bellamente. E’ quindi inutile far finta che non ci siano o che non funzionino. Nel mondo già ampiamente globalizzato dell’istruzione superiore, per gli studenti sarà indifferente studiare a Parigi, Cambridge o Madrid piuttosto che a Padova o Bologna (anche dal punto di vista economico). E la scelta verrà fatta sui ranking. 

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Commento: Potrebbe esservi il caso che il capace e il meritevole, per ragioni economiche, non può iscriversi ad una lontana università di serie A, ma deve accontentarsi di quella sotto casa, di serie B.
Risposta: con l’incremento del flusso di risorse a beneficio delle università migliori, queste ultime possono realmente (e non a parole, come avviene adesso) predisporre delle borse di studio per i meritevoli. Ciò peraltro è nell’interesse delle università in questione perché studenti bravi aumentano le performances e dunque migliorano la posizione nel ranking.
A parte questo, inviterei chi paventa la prospettiva a valutare la cosa anche sotto una diversa angolatura. Continuare, per ragioni economiche, la finzione della parità di preparazione consentita dal valore legale del titolo, aiuta chi si è laureato in medicina nell’Università di serie B ad entrare, ad esempio, nell’USL, ma non aiuta affatto il paziente di quella USL il quale, data la posta in gioco, preferirebbe di gran lunga un medico laureato di un’Università di serie A. In proposito credo che sia ora di guardare alle esigenze dei servizi pubblici dal punto di vista del ‘pubblico’ e non solo dalla prospettiva individuale di chi deve trovare un lavoro, costi quel che costi (al paziente).   

Commento: La proposta è di stampo dirigista e complicata da attuare.
Risposta: La proposta non è dirigista: la PA è libera, per ciascun concorso e a seconda delle sue esigenze, di assegnare il peso relativo del ranking, e il peso relativo della posizione delle università nel ranking. E non è nemmeno complicata: già oggi, in taluni casi, la PA compie con facilità una operazione analoga, consistente nell’assegnare diversi punteggi concorsuali a seconda del diverso punteggio di laurea. Inoltre le particolari esigenze del posto bandito possono trovare spazio adeguato nella prova concorsuale, che non si propone di abolire. Per riprendere l’esempio fatto dal Prof. Figà Talamanca, se per la posizione lavorativa posta a bando è preferibile un matematico esperto di analisi numerica, anziché geometria algebrica, perché non proporre un problema di analisi numerica nella prova concorsuale? L’ammissione al concorso anche di laureati in ingegneria o in informatica mi trova completamente d’accordo, ma non è in contrasto con l’attribuzione di uno specifico peso dell’Università di provenienza.

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  1. Luciano Scalzo

    L’Einaudi nel 1955 nelle sue "prediche inutili" ricordava i guasti a cui conduceva un sistema imperniato sul valore legale dei titoli di studio. Leggiamo in sintesi cosa scriveva Einaudi. " Che sono di irrigidimento del meccanismo sociale, di formazione di un regime corporativo di caste l’una dell’altra invidiosa, ciascuna intenta di impedire all’altra di lavorare diversamente da quel che è scritto nella legge e nei regolamenti; e tutte intente a cercare occupazione, salari, stipendi là dove non si possono ottenere e cioè nei vincoli posti allalibertà di agire degli uomini". Fa effetto che a distanza di oltre 50 anni da questi scritti faccia ancora clamore proporre l’abolizione del valore legale dei titoli di studio. Luciano Scalzo

  2. Marco Trento

    La tesi secondo cui il resto del mondo accetta i "ranking" è del tutto FALSA. Basta vedere questo rapporto del Senato della Repubblica Francese da cui si evince che le classifiche, a seconda dei criteri usati, sono tutte diverse! In tutti i paesi europei queste classifiche sono sotto accusa. Ma se proprio vogliamo usare le classifiche: invece di seguire a mo’ di gregge quello che fanno gli altri (cioè le classifiche anglosassoni, che non tengono MAI conto delle diversità culturali e soprattutto linguistiche), noi italiani non ci facciamo fautori la proposta del Ministro della ricerca francese (Signora Valérie Pécresse) di istituire una classifica europea delle università in cui discutiamo tutti insieme i criteri? Perché continuare a basarci su classifiche anglosassoni (o peggio cinesi!) che notoriamente soffrono di anglo-centrismo?

  3. Luigi Scarpa

    Un notevole passo avanti nella direzione auspicata di abolire il valore legale sarebbe, per la pubblica amministrazione, non considerare per nulla il voto di laurea e attuare concorsi in due tempi: una pre-selezione, anonima, uguale per tutti, che consenta di "scremare" dalla massa dei concorrenti i migliori (per es. un numero doppio a quello dei posti messi a concorso) e poi una definitiva scelta dei vincitori mediante prove scritte e orali, escludendo graduatorie di "idonei" e interdicendo l’accesso al successivo concorso per la medesima tipologia di posti a chi non abbia superato la pre-selezione di cui sopra. Dovrebbe essergli comunque consentito di riprentarsi in seguito.

  4. FRANCESCO COSTANZO

    Sono d’accordo con la proposta del Ministro Gelmini di eliminare il valore legale del titolo di studio. Il problema della valutazione ai fini dell’accesso al lavoro resta. E non è vero che il settore privato ci vede benissimo, perchè è proprio il basarsi sul titolo di studio che è miope, specialmente in Italia, che ha una delle università meno competitive. Se si richiede la conoscenza della lingua inglese, il più adatto è chi ha un titolo universitario, oppure chi ha vissuto per 10 anni in Inghilterra, magari facendo il cameriere? Io direi il secondo! Sto semplificando per chiarire meglio la mia idea. Il fatto è che ci si concentra su come effettuare i concorsi, le selezioni, le valutazioni dei titoli e NON su cosa invece dovrebbe offrire la formazione universitaria. Io sono d’accordo con il Ministro, che ha dichiarato che il 50% delle facoltà italiane sono inutili. La stessa proporzione vale per i corsi di laurea: il 50% dei libri che si studiano potrebbero essere tranquillamente eliminati! Io sono per meno corsi, meno libri, più interazione con le aziende (questo vuol dire ricerca, non solo sgobbare sui libri), tirocini in aziende e PA obbligatori durante il corso di laurea.

  5. Carlo Rossi Chauvenet

    Il valore legale del titolo di studio serve solo a due cose: -sostenere i piccoli atenei che diversamente chiuderebbero – dare un pezzo di carta alle famiglie che sono convinte che i propri ragazzi non hanno diritto di cittadinanza se non hanno la laurea e possano farsi ciamare "dottore". Un primo passo nella strada verso la meritocrazia sarebbe smetterla di chiamare la gente con appellativi da corporazione medievale, eliminando ogni forma di prefisso. In nessun paese al mondo tranne in italia si sente la necessità di far precedere il nome da una sillaba che indica la professione: sono tutti Mr. and Mrs e non Avv., Ing, Rag., Arch, Not. o, se proprio non si può dire niente, semplicemente dott. La società non deve essere divisa in caste ma le persone si devono distinguere (così come fa il mercato) per la qualità del lavoro offerto e non per la qualifica in astratto. La laurea come pezzo di carta ed il prefisso a cui si associa sono retaggi medievali che meritano di essere superati. Al contrario stilare una graduatoria tra le università non mi sembra affatto scandaloso, ma anzi utile per aiutare gli studenti ad orientarsi e alle università come stimolo a migliorare.

  6. mauro

    Nella proposta del ranking delle università ci sono dei problemi, ad esempio non è affatto detto che il ranking di un ateneo sia omogeneo su tutte le facoltà e quindi questo creerebbe paradossi. Faccio un esempio: prendiamo la facoltà di medicina di Bologna e di Roma La Sapienza e poi di ingeneria. Magari in medicina ha un ranking più alto Bologna ma in ingegneria Roma. Ora un ingegnere laureato a Bologna avrebbe un vantaggio immeritato col ranking dell’ateneo di Bologna e, viceversa, un medico laureato alla Sapienza; quindi il punteggio del ranking non sarebbe rappresentativo della prepazione media dello studente… ma si potrebbe andare anche oltre. Immaginiano all’interno della facoltà di ingegneria la facoltà di aeronatuica/aerospaziale (è la più antica d’Italia, ha meriti storici non paragonabili con le altre, ed oggi è insieme al Politecnico di Torino e Milano la migliore d’Italia) ma magari non vale lo stesso per ingegneria edile, quindi anche dando un ranking alle singole facoltà degli ateneri avremmo queste discrepanze.Quindi o si fa un ranking facoltà per facoltà o, ancora meglio, specializzazzione per specializzazione (aeronautica,civile,meccanica..). Altro problema per gli istituti privati che spesso (vedi Bocconi) hanno solo alcune facoltà come quella di economia (o medicina) dal ranking molto alto. E’ un fatto meramente tecnico, infatti poniamo che la Bocconi abbia 9 di ranking da 1 a 10. Un ateneo pubblico (anche il migliore!) con decine di facoltà, finirà quasi inevitabilmente ad avere meno di 9 anche sela facoltà di economia era 9 o anche 9,5. E poco conta quello che fanno in USA!

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