Lavoce.info

L’UNIVERSITA’ HA I SUOI MITI. DA SFATARE

Quando si parla di riforma dell’università emergono continuamente affermazioni presentate come verità scontate e che invece alla prova dei fatti non lo sono. Per esempio, non è vero che solo in Italia i professori ordinari sono più dei ricercatori. Anche altrove la carriera è tutta interna a una singola sede e la selezione del personale docente si basa sulla cooptazione. La vera differenza è che nel sistema italiano la facoltà che recluta docenti poco qualificati non viene punita in alcun modo. Sarebbe più utile eliminare del tutto i concorsi e dare piena autonomia agli atenei.

Nel dibattito sulla riforma dell’università riemergono continuamente una serie di affermazioni che vengono presentate come verità scontate e che invece alla prova dei fatti non lo sono.

LA PIRAMIDE ROVESCIATA

Una delle critiche principali indirizzate all’università italiana è che molto spesso assomiglia a una piramide rovesciata, con troppi professori ordinari, un numero minore di professori associati e ancor meno di ricercatori. Si continua a ripetere che negli altri paesi vi è una piramide vera, e non rovesciata come in Italia. Non è vero. O non lo è per tanti atenei che vengono spesso additati come esempi ai quali ispirarsi. Vediamo tre casi molto significativi:

a) Mit:

Professors (ordinari): 635
Associate professors (associati): 207
Assistant professors (ricercatori): 166

b) Stanford:

Professors: 816
Associate Professors: 217 
Assistant Professors: 262

c) Eth Zurigo:

Full Professors: 278
Associate Professors: 31
Assistant Professors: 50

Per completezza, va ricordato che in tutte queste realtà vi è un alto numero di posizioni a contratto: lecturer, esercitatori, tutor, post-doc, research position, peraltro presenti anche nei nostri atenei e spesso criticate perché posizioni "precarie". In ogni caso, la struttura della faculty è sempre tendenzialmente caratterizzata da un alto numero di professori ordinari e un numero molto minore di associati e ricercatori. Il vero punto chiave è quindi l’alto numero di posizioni precarie in ingresso alla cosiddetta "tenure track", cioè la progressione di carriera da ricercatore a professore ordinario.
Come si entra in questa tenure track? E qui veniamo al secondo mito.

LE PROMOZIONI INTERNE

In Italia si continua a criticare il fatto che la progressione di carriera dei ricercatori e degli associati è per promozione interna. Spesso si dice che questo rende le università chiuse e favorisce il baronato e pratiche poco trasparenti o illegali.
In realtà, se si guarda come funziona la "tenure track" nel mondo anglosassone, e in particolare in tutte le università americane, ci si accorge che le cose sono molto più simili di quanto si possa immaginare.
Un assistant professor, l’equivalente del ricercatore, viene normalmente assunto con un contratto non di ruolo, non ha cioè la "tenure". Se la sua carriera procede proficuamente, viene promosso dopo un certo numero di anni ad associate professor, ancora senza "tenure". Ogni dipartimento di una università americana ha un proprio tenure committee che stabilisce quando dare a un candidato la "tenure", ovvero il passaggio in ruolo. Da quel momento, il professore ha una serie di tutele simili ai nostri docenti di ruolo. Normalmente, nella stessa università il professore riceve anche la promozione a full professor, a professore ordinario. Ovviamente, se una persona non è giudicata adeguata, non procede nella progressione di carriera e viene invitata, nei fatti, a cambiare università o lavoro.
Quali sono quindi le differenze rispetto alla situazione italiana? Non è la mancanza di promozioni interne, ma sono ben altre. La prima differenza è che una università anglosassone normalmente non assume come assistant professor (ricercatore) un proprio laureato o dottorato. All’ingresso del percorso di tenure, quindi, c’è una apertura totale e radicale verso il mondo esterno. Ma una volta che un candidato è entrato nella tenure track, può tranquillamente procedere nei diversi gradi presso la stessa università.
La seconda differenza è che il ruolo arriva solo dopo molto tempo e normalmente al livello di associate professor. La terza è che per tutte le persone senza tenure sono previsti anche percorsi di uscita dall’università. Questi meccanismi garantiscono il grande dinamismo delle università statunitensi.

LA COOPTAZIONE

Il terzo mito: secondo molti critici del sistema universitario italiano, negli altri paesi ci sono meccanismi di selezione del personale docente che non si basano sulla cooptazione, come invece accade in Italia. In realtà, tutti i sistemi di reclutamento a livello internazionale sono incentrati sulla cooptazione, indipendentemente dal meccanismo di selezione prescelto. La vera differenza è che nel sistema italiano l’università che recluta docenti poco qualificati non viene in alcun modo punita. Al contrario, l’ateneo che tenta di competere e di assumere personale di qualità viene penalizzato dalla mancanza di competizione nell’accesso alle risorse e dall’anacronistica presenza del valore legale del titolo di studio.
Per questi motivi, sarebbe molto più utile eliminare del tutto i concorsi, dare piena autonomia agli atenei e mettere in campo rigorosi sistemi di valutazione e assegnazione delle risorse.
Per riformare realmente il sistema universitario italiano è necessario comprenderne correttamente le dinamiche, studiare le best practice internazionali e identificare con chiarezza la causa profonda delle disfunzioni che affliggono i nostri atenei. Se non si procede in questo modo, si rischia di somministrare al malato o un placebo o una medicina inefficace.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  L'alternanza scuola-lavoro? A volte porta all'università
Leggi anche:  L'alternanza scuola-lavoro? A volte porta all'università

Precedente

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Successivo

E CATRICALA’ PORGE L’ALTRA GUANCIA

40 commenti

  1. Vera

    Concordo pienamente con l’autore. Sarebbe lui disposto a farsi promotore all’interno della sua università per arrivare fino al ministro di una proposta che abolisca la posizione in ruolo di tutti i ricercatori e professori associati italiani (attuali e futuri) e la mantenga solo per i professori ordinari? A questa operazione seguirebbe una rivalutazione delle qualità degli attuali associati/ricercatori con conseguente eliminazione delle “mele marce”. In cambio i soldi risparmiati da questi inutili stipendi verrebbero destinati ai professori/ricercatori superstiti.

  2. Elio Ziparo

    Cose vere, note e condivisibili. Il Ministro Moratti prospettò l’eliminazione del ruolo dei ricercatori sostituendolo con contratti di 4 anni rinnovabili una sola volta. Le associazioni dei ricercatori (molti dei quali non più giovanissimi) si opposero violentemente. Si sarebbe infatti creata una base più ampia di pericolosissimi competitori, in grado di accedere direttamente al ruolo docente e così impedendo il loro upgrading per anzianità. Non dimentico che i miei colleghi "de sinistra" (come me) mi tacciarono di berlusconismo per avere giudicato positivamente la prospettiva morattiana. Ora il Ministro Gelmini, capovolgendo l’impostazione, pare tendere all’eliminazione della fascia intermedia dei Professori Associati, all’ampliamento della base dei ricercatori di ruolo e al contenimento del numero di Ordinari. E’ la formula perfetta per imbalsamare di nuovo il sistema. Fatta salva la correttezza dell’analisi rispetto al sistema anglosassone (che funziona), occorre però dire che le condizioni generali del nostro Paese sono molto diverse. Il livello delle retribuzioni, la difficoltà a reperire abitazioni, la rigidità del mercato del lavoro per eventuali coniugi, sono tutti aspetti da tenere in considerazione.

  3. Decio

    Concordo in pieno! Occorrebbe, però, eliminare i concorsi in tutta la PA, istituendo, come in altri Paesi, la figura del recruiter, che assuma a chiamata diretta, in pochissimo tempo, valutando il solo curriculm del candidato con relativo colloquio (stile azienda) e sia responsabile e giudicabile, ed eventulamente rimosso. Per essere giudicabile, però, chi assume deve avere le mani libere!

  4. Panettore

    Ad avvalorare anche di più la sua tesi, che mi trova assolutamente d’accordo, bisogna aggiungere che di solito quella di non assegnare una tenure track positions a studenti della propria università è una legge non scritta, che spesso non viene seguita. Ad esempio, il MIT certe volte ha assunto come assistant professors dei propri studenti, direttamente alla fine del PhD. Ancora una volta, però, l’operazione è avvenuta in maniera trasparente e il mercato ha avuto modo di valutarne la legittimità.

  5. Gianfarnco Scorrano

    Mi fa molto piacere paragonarmi a prestigiose università straniere e misurare quanto fa la mia Università di Padova. Qui siamo 718 professori ordinari, 742 associati e 902 ricercatori in totale 2362 docenti e rircercatori nello staff permanente. Più di 2 volte quelli in ruolo al MIT, quasi due volte quelli a Stanford, quasi 7 volte quelli all’ETH! Nonostante Padova sia tra le migliori Università italiane, non credo che la qualità sia altrettanto elevata quanto il numero dei professori. Forse sarebbe il caso di ridurre il personale, piuttosto che di aumentarlo.

  6. Giuseppe Esposito

    Dal dibattito vedo emergere un tema alquanto interessante: alcuni invocano l’abolizione del valore legale del titolo di studio (“qualità, non pezzi di carta”), mentre altri (non l’autore) propongono di includere il dottorato di ricerca come “requisito minimo” per essere assunti (“pezzi di carta, non qualità”). Qualcuno potrebbe gentilmente dipanare questa contraddizione?

    • La redazione

      L’abolizione del valore legale del titolo di studio vuol dire che non basta dire "ho la laure a" o "ho il dottorato", ma bisogna indicare in quale università e con quale corso di studi l’ho acquisito. Una cosa è un laureato in ingegneria all’MIT, altro è un laureato in ingegneria di un ateneo non di qualità. Oggi, tutti i laureati sono "uguali de jure".

  7. rosario nicoletti

    Credo che sia molto difficile paragonare le università USA (le più prestigiose) con le nostre. Quelle vivono in un contesto del tutto differente: a cominciare dal gran numero di “precari” e dall”estrema mobilità in ogni tipo di lavoro. Quello che si tace poi – ed è l’aspetto più rilevante – è che le università USA non sono gestite e amministrate da rappresentanti dei docenti e di altro personale dipendente. Il sistema democratico-corporativo che regola la nostra vita accademica non permette di censurare chi sbaglia: si perdona l’errore degli altri per vedere un domani perdonato il proprio.

    • La redazione

      L’articolo non vuole sostenere che dobbiamo essere uguali alle università americane, ma smentire tanti luoghi comuni presentati, spesso, da coloro che rinfacciano alle università italiane di non comportarsi come i grandi atenei stranieri, specialmente statunitensi.

  8. Publius

    Quando si lamenta il carattere “interno” delle progressioni non ci si riferisce tanto o soltanto alle fasi “avanzate”, ma a quelle iniziali della carriera: ossia all’inbreeding che porta il laureato a fare nella università di origine dottorato, postdottorato, primi contratti e possibilmente concorso di ricercatore: tutto alle dipendenze del patrono. Questo ha spesso conseguenze scientificamente nefaste. Per il resto: struttura corpo docente, meccanismi di carriera, cooptazione, precariato sono certamente oggetto di miti negativi alimentati nell’opinione pubblica italiana da giornalisti disinformati e da sindacati difensori di interessi sezionali. Unico rimedio è la libertà responsabilizzata, a patto però di non creare altri miti (come la misurazione oggettiva e universale delle pubblicazioni).

    • La redazione

      Ho infatti scritto che nel sistema anglosassone c’è una apertura radicale all’ingresso. Concordo sull’ultimo commento sulla valutazione.

  9. Piero Vereni

    Non sono sicuro che l’articolo individui chiaramente chi sarebbero i critici contro cui si rivolge. Sull’abolizione dei concorsi per assegnare i soldi agli atenei (meglio: ai dipartimenti) in base a un rigoroso assessment, sarà sempre tardi, ma già il 7 % promesso dalla Gelmini è un primo passo in questa direzione, e vedrete che già ai prossimi concorsi porcate enormi non se ne vedranno. Una replica a Vera, che chiede di abolire il ruolo per ricercatori e associati. E perché gli ordinari no? Forse che in quella categoria di superprivilegiati (sono ricercatore, si vede?) non ci sono “mele marce”? Aboliamo il ruolo per tutti, facciamo la verifica e cacciamo le mele marce ovunque si trovino. Se si deve sognare, tanto vale farlo in grande, senza lasciare sacche residue di privilegio su base gerontocratica.

    • La redazione

      I prossimi concorsi saranno presumibilmente un terno al lotto. E comunque, se c’era lottizzazione prima, non si capisce perché non ci dovrebbe essere anche adesso. I commissari estratti alla fine fanno parte di un ateneo e se oggi ci sono accordi tra atenei cosa vieterebbe che ci possano essere anche in futuro? Il problema non è il meccanismo di selezione, ma il driver, cioè il premio/penalizzazione che si ha se si selezione bene/male. Fin quando non si interviene sul driver (con una valutazione severa delle performance degli atenei), qualunque meccanismo si scelga, come è successo negli ultimi trent’anni, non è in grado di cambiare il trend.

  10. Fiorenzo Ferlaino

    Vi sono cose importanti che nell’articolo sono taciute: 1. il ruolo delle fondazioni nel finanziamento delle ricerche universitarie all’estero; 2. il ruolo del mercato della formazione degli studenti, soprattutto negli USA. Se l’università dovesse vivere con i soldi degli studenti iscritti difficilmente sarebbe disposta a mantenere dei professori dequalificati. Forse se parte dei soldi per la didattica venissero dati agli studenti attraverso borse (non per reddito ma per merito) da spendere in una qualsiasi università italiana allora si renderebbero più mobili gli studenti (meno dipendenti dalle famiglie) e più competitive le università. Secondo Roberto Perotti (Sole-24Ore del 30 novembre 2006) la spesa per studente universitario nell’a.a. 2003/2004 in Italia è di 15.400 dollari (per la parità di potere d’acquisto), mentre nel Regno Unito è di 19.000 dollari. Inoltre (a.a. 2004/05 fonte OCSE) in Italia si hanno 21 studenti per docenti contro i 19 della Gran Bretagna. Se portassimo in parità la spesa potremmo dare una borsa di studio di 12.000 dollari a circa il 40% degli studenti iscritti e questo creerebbe un vero mercato delle università.

  11. Arnaldo Mauri

    Sono in pieno accordo con il prof. Fuggetta. La struttura piramidale è discutibile. Se, come io penso, il livello degli associati è solo una sala di attesa per l’upgrading in base al turnover, il numero degli associati può essere inferiore a quello degli ordinari. In questo caso tutti gli associati – salvo un limitato numero di casi particolari motivati da mancata produzione scientifica – dovrebbero accedere al livello superiore entro tempi ragionevoli. Si dovrebbe tuttavia stabilire che il passaggio dal livello di associato sia obbligatorio per accedere a quello di ordinario e che via sia una permanenza minima (ad es. 3 anni) in questo livello. Sarebbero così eliminate le corsie preferenziali che spesso hanno generato sospetti di favoritismi, critiche e proteste.

  12. silvestro gambi

    Esistono e come metodi per valutare la qualità dei docenti, anche universitari: attraverso, anche, pubblicazioni di prestigio internazionale. E’ come fare una squadra nello sport: bisogna chiamare quelli che servono per vincere e non gli amici per andare a bagordi. Insomma c’è cooptazione e cooptazione. E una ricerca slegata dall’industria serve a ben poco. E dire che avemmo l’esempio Olivetti! Passato politico remoto. Troppi bivaccano nell’Università e operano per altri padroni. E poi basta vedere come hanno ridotto l’ordinamento degli studi; manco la scuola Radio Elettra. Indifendibili!

    • La redazione

      Quali sarebbero le "balle"? Dove c’è scritto nell’articolo che non bisogna valutare? In quale paese al mondo si vive solo di ricerca applicata? Una cosa è discutere, altra è banalizzare.

  13. Dario Quintavalle

    Un altro mito da sfatare è quello della “fuga di cervelli”. Gli studiosi sono mobili da sempre, da quando nel Medioevo furono fondate le università (Clerici Vagantes). Fare un periodo all’estero è un arricchimento, non un dramma. Perché esisterebbe il programma Erasmus, sennò? Non è affatto vero che i ricercatori italiani siano COSTRETTI ad emigrare all’estero: la classe accademica mondiale è altamente globalizzata ed è quindi perfettamente normale e fisiologico che la carriera di queste persone si svolga, in tutto o in parte, lin giro per il mondo. Molti dei supposti transfughi, all’estero ci sarebbero andati comunque, come parte normale del loro apprendistato. Anche gli studiosi stranieri si muovono, ma non ne fanno un dramma.

    • La redazione

      Concordo sul fatto che il problema non è che i nostri vadano all’estero. Il vero problema è che siamo poco attrattivi e ricettivi per i nostri che volessero tornare o per gli stranieri che vogliamo portare nelle nostre università.

  14. Maurizio Canepa

    Uno dei precedenti commenti, molto polemico, accenna al problema degli ordinamenti. A questo proposito, leggo nel documento sulle linee guida del governo sull’università, recentemente pubblicato sul sito MIUR: "In 8 anni si è passati da circa 2.500 corsi di laurea e di diploma ad oltre 5.500 corsi di primo e secondo livello, spesso ulteriormente divisi in curricula…" . Dalla terminolgia utilizzata, un addetto ai lavori concluderebbe che si stanno confrontando numeri del "vecchio ordinamento" ( corsi di laurea e diploma) con numeri del "nuovo ordinamento" ( corsi di primo e secondo livello). Se si tiene conto che praticamente ogni corso di laurea vecchio ordinamento si è trasformato, per il meccanismo del 3+2, in due corsi, l’aumento, pure cospicuo e forse incongruo, appare in una luce sicuramente meno inquietante. I problemi dell’università sono altrove e le terapie di questo governo assomigliano ai salassi che nei tempi andati venivano praticati ai malati accelerandone la fine.

  15. Mauro Calcagno

    Ottimo articolo. Tanti sono infatti i miti da sfatare in Italia riguardo l’università americana. Sarebbe utile farne oggetto di un libro a piu’ mani, sviluppando ognuno dei punti toccato dall’articolo. Un altro mito è che esista "l’universita’ americana". Mentre in Italia le universita’, da Camerino a Milano, hanno tutte le stesse facolta’ e le medesime funzioni (alta ricerca, insegnamento alle masse), in America grande e’ la differenza fra, per es., un community college, un liberal art college e un’universita’ privata con programmi di dottorato, tipo MIT e Stanford. L’universita’ italiana non puo’ essere, in tutte le sue sedi, come MIT e Stanford. C’e’ un tipo di università americana tuttavia con la quale si possono istituire paragoni efficaci: quella di stato, tipo il sistema "University of California at . . ." (Irvine, Berkeley . . .). Ma persino in un sistema pubblico di questo tipo vi sono diversi livelli, come, in California, il sistema parallelo "CalState", dove si fa meno alta ricerca e piu’ insegnamento alle masse, e la rete dei community college, senza ambizioni di ricerca.

  16. Mauro

    La questione italiana non verte sul numero fisico di persone che hanno ottenuto ciascun ruolo, nè sulla proporzione fra le stesse, bensì sull’età, sull’inamovibilità, sulla gerontocrazia e sui tratti tipici del sistema italia. Sistemi che sono per loro stessa natura dinamici e molto mobili possono permettersi di avere un diverso principio di assunzione, anche perchè sopra questo principio non subentra istantaneamente l’abuso, così come avviene in italia. Nelle università italiane l’accesso dal basso è ai limiti dell’impossibile, mentra la permanenza in alto è tutelata ai limiti del ridicolo. Viene privilegiato solo e unicamente il vecchio, e viene privilegiato sempre e comunque ai danni del giovane, del debole, e del precario. Vogliamo andare a vedere l’età media, di quei professori ordinari al MIT? La valutazione è sicuramente un principio positivo, su cui tutti possono convenire, ma il punto fondamentale è che un paese che rifiuta il concetto stesso di ricambio generazionale, è tale ricambio a dover essere regolamentato, forzato, e imposto.

    • La redazione

      Primo. “Dopo aver sfatato i miti, che cambia nell’analisi del problema?” Per risolvere i problemi bisogna capirli bene. Se se ne ha una percezione sbagliata, di certo non si trovano soluzioni utili.
      Secondo. “Viene privilegiato solo e unicamente il vecchio, e viene privilegiato sempre e comunque ai danni del giovane, del debole, e del precario.”
      Un professore con tenure americano ha tutele del tutto simili a quelle di un professore ordinario italiano. Questo brano è tratto da Wikipedia.org (edizione USA):
      “Tenure has been criticized for allowing senior professors to become unproductive, shoddy, or irrelevant. Universities themselves bear this risk: they pay dearly whenever they guarantee lifetime employment to an individual who proves unworthy of it. Universities therefore exercise great care in offering tenured positions, first requiring an intensive formal review of the candidate’s record of research, teaching, and service. This review typically takes several months and includes the solicitation of confidential letters of assessment from highly regarded scholars in the candidate’s research area. Some colleges and universities also solicit letters from students about the candidate’s teaching. A tenured position is offered only if both senior faculty and senior administrators judge that the candidate is likely to remain a productive scholar and teacher for life.”
      I dati che segnalavo dimostrano il contrario di quello che lei dice: i professor (gli ordinari) sono molto più degli assistant professor (ricercatori) che per giunta non sono di ruolo come invece accade da noi. Là c’è molto più precariato che da noi proprio perché prima di avere la tenure bisogna dimostrare di valere. Questo è ciò che segnalano quei dati.
      Con questo, spero di non essere frainteso, non sto dicendo che noi non abbiamo problemi. Anzi! Sto dicendo che non mi paiono quelli che dice lei.
      P.S.: Interessante nel brano citato il riferimento a “solicitation of confidential letters of assessment from highly regarded scholars”. In Italia noi le chiameremmo “raccomandazioni”; là sono lo strumento principale di valutazione. Come si vede, uno stesso strumento può essere usato in modo molto serio o in modo volgare e inaccettabile.

  17. Balazs Barrels

    Qualsiasi docente italiano che sia stato all’estero queste cose le sa. Mi viene allora da pensare che il mito sopravvive innanzitutto perchè espressione dei desideri degli stessi accademici italiani. A cominciare dalla famosa piramide, che in effetti qualche decennio fa c’era, con il barone circondato da stuoli di assistenti. Io credo che per loro la parte più indigesta della sua proposta sia proprio quella dell’obbligo per i dipartimenti di non reclutare il proprio personale tra i propri studenti, in quanto è questa semplice proposta che creerebbe un ostacolo serio al nepotismo nella università italiana. Riguardo poi alla abolizione del valore legale del titolo di studio, se questo non viene collegato ad una seria riforma delle procedure di concorso pubblico, l’effetto sarebbe modesto. Credo che il privato già oggi non guardi solo al titolo, quando seleziona un giovane laureato. Mi chiedo allora come si dovrebbe dare importanza alla Sede di Laurea nelle selezioni pubbliche, e se questo criterio possa essere una proxi oggettiva per la valutazione delle capacità.

  18. Giovanni Scotto

    Due rilievi critici: 1. è assai difficile equiparare i tre ruoli italiani alle figure professionali proprie di altri sistemi. Questo è stato uno degli impedimenti di chi come me ha partecipato al programma Rientro dei cervelli e ha dovuto penare per vedere riconosciuto il proprio livello professionale in Italia. 2. La ricognizione della struttura delle università dovrebbe ricomprendere quanto meno i lecturers con contratto a tempo determinato (che in genere hanno ruolo maggiore rispetto ai docenti a contratto italiani) 3. Non è possibile confrontare il sistema della tenure track con quello italiano dei concorsi: quella è appunto una track, un binario che si percorre se si e’ bravi. Questo e’ un astratto modello di selezione del “migliore”. E’ proprio tale confusione ad avvelenare il sistema italiano, con concorsi farsa per ordinario n cui tutti sono parte in commedia: non da ultimo le universita’ che risparmiano cifre sostanzionse se assumono associati propri 5. Come se ne esce? Ruolo unico della docenza universitaria, carriera interna sulla base dei risultati scietifici e didattici, differenziazioni salariali sulla base del lavoro svolto e delle responsabilità assunte.

    • La redazione

      Se ruolo unico vuol dire che appena si entra si è subito di ruolo, sarei contrario. Io penso che il sistema USA sia più che ragionevole. Ovviamente, se e soltanto se c’è un meccanismo di valutazione degli atenei molto severo, autorevole e influente sull’assegnazione delle risorse.

  19. Aram Megighian

    Caro Fuggetta, ha centrato in pieno il punto. Il valore legale del titolo non ha alcun senso se si vuole stimolare la competizione tra le Università. Gran parte dei posti di lavoro sia pubblici che anche privati premiano il valore legale del titolo di studio, anzichè il curriculum reale e la preparazione del candidato. La "legalità" del titolo di studio è garantita in numerose professioni dall’esame di Stato (che andrebbe riformato in senso più severo). Partendo da questo, le Università diventerebbero realmente autonome (le pubbliche dipenderebbero dai soldi dello Stato in senso meritorio) e diventerebbero responsabili di chi assumono. L’assunzione dei docenti dipenderebbe dal reale bisogno: oggi questo determina in parte la stortura dei concorsi. Se in un Dipartimento di Biologia hanno ricevuto un posto di Ricercatore per un laboratorio di etnologia, perchè favorire un botanico? Per quanto questo possa essere bravissimo, dovrà impiantare un laboratorio da zero (anni e soldi) mentre il laboratorio di etnologia decadrà progressivamente senza personale. L’assunzione dovrebbe essere locale con colloquio e gestita, con responsabilità, dal Dipartimento che ha richiesto il posto.

  20. Aram Megighian

    Nel suo ottimo commento, manca un riferimento alla Didattica. In questi ultimi mesi tutti hanno giustamente proposto e argomentato su come migliorare l’Università. Quasi tutti i commenti si sono basati su criteri migliorativi del sistema di valutazione dei docenti, e quasi tutti i criteri migliorativi si basano su sistemi di valutazione (ad es impact factor) delle pubblicazioni del candidato. Pochi si soffermano sulla valutazione della capacità didattica (cosa su cui invece si soffermano all’estero); eppure il miglioramento della qualità dell’insegnamento deve passare attraverso l’utilizzo di docenti non solo esperti della loro materia, ma anche bravi a divulgarla. Invero, nell’attuale sistema concorsuale italiano, la prova didattica vale 1/3 della valutazione finale. Ma questo è un dato solo teorico. Un fatto è invece la valutazione della didattica da parte degli studenti: vale in USA per valutare il docente (e licenziarlo, anche), c’è in Italia, ma non è utilizzata, per mancanza di strumenti regolativi e attuativi.

    • La redazione

      Non direi che in USA ci sia un rapporto diretto tra valutazione degli  studenti e giudizio sul docente. Se lo fosse, si innescherebbe un pericoloso corto circuito del tipo "insegno per tenere buoni i miei studenti". In questo caso serve la mediazione delle strutture accademiche (in USA il dean, la school, …) che valutano i giudizi degli studenti in modo oculato e mirato.

  21. Alberto Pozzolo

    Complimenti per l’ottimo articolo. Come oramai è stato chiarito più volte, il problema principale è quello di fornire i corretti incentivi per evitare meccanismi di selezione distorti, piuttosto che concentrarsi sull’identificazione delle alchimie che potrebbero rendere più ‘meritocratici’ concorsi. Oltre all’eliminazione dell’anacronistico valore legale del titolo, credo però che in Italia sia necesaria anche un’ampia campagna di informazione su quali sono i criteri sulla base dei quali: a) gli studenti possono scegliere a quale ateneo iscriversi e b) le imprese, in particolare quelle piccole e medie, possono decidere quali studenti assumere. Fatte alcune eccezioni, il grado di disinformazioni mi pare infatti al momento assai elevato.

  22. Cherubino Di Lorenzo

    Se il valore legale del titolo di studio appiattisce i concorrenti, superare un concorso appiattisce i vincenti, ponendoli un quid più in su di chi non è stato cooptato. Le commissioni sorteggiate ci sono state fino a pochi anni fa, un remake non potrà ipso facto cambiare qualcosa. Occorre abolire i concorsi e dare libertà ai direttori di fare dei budget quanto ritengano opportuno: assumere giovani, chiamare associati da fuori, acquistare attrezzature, fare viaggi studi. L’importante, come nella parabola dei talenti, è che alla fine si debba rendere conto del proprio operato, e in base a ciò essere premiati o puniti. C’è un ostacolo da superare: il precariato straniero è meglio remunerato e "meno precario" di quello italiano; lì è "flessibile", qui estenuante. Il più entusiasta di noi, dopo la solita gavetta, preferirà comunque un posto da ricercatore "a vita", rispetto ad un contratto da assistant, o associate, professor, privo di tutele. Vivendo 5 anni nella ricerca, riaffacciarsi sul mondo lavorativo esterno è tremendo: sei vecchio, treni non ne passano più e sei visto con rancore da colleghi vecchi (non sei stato all’altezza) e nuovi (eri uno di "quelli"). Ti senti un fallito!

  23. claudio procesi

    Segnalo che un gruppo di circa 500 accademici, docenti e ricercatori stanno discutendo attivamente con mailing-lists e blog su questi ed altri temi collegati allo stato di sofferenza dell’Università. A noi queste cose sono del tutto chiare, vedi il blog: http://universitintrasformazione.blogspot.com/

  24. giovanni

    L’apertura radicale totale per il reclutamento dei livelli “tenue track” come può realizzarsi senza concorso pubblico? Cosa significa che è anacronistico il valore legale dei titoli di sutdio? E’ un criterio di selezione minimo, come prerequisito necessario e inderogabile per l’ammissione a un concorso pubblico. Molto più efficace sarebbe una legge che vietasse ad un ateneo l’assunzione di laureati o parenti del personale docente. Come dice, è una prassi negli atenei anglosassoni, e tale dovrebbe diventare anche da noi.

    • La redazione

      Il punto è che non si riesce ad “imporre” la qualità o l’apertura per legge o per decreto. I passati decenni hanno dimostrato che ogni tentativo di imporre un qualche meccanismo virtuoso “dall’alto” è stato aggirato da comportamenti “viziosi” dal basso. Il vero punto non è tentare di trovare la “norma perfetta” che elimini il problema, ma inserire quei driver che rendano non più convenienti certi comportamenti poco virtuosi. Se si dessero le risorse sulla base di valutazioni delle performance degli atenei, non c’è più interesse per una università ad assumere solo amici e parenti. O se continuasse a farlo con personale di scarsa qualità, verrebbe fortemente penalizzata. È questa la vera soluzione. Regole di divieto di assunzione in USA non ci sono: è una prassi non scritta (in realtà hanno anche loro delle eccezioni). La realtà è che là le cose funzionano così perché se facessero scelte poco assennate abbassando la qualità, le università non sarebbero più competitive. Per quanto riguarda il valore legale della laurea, oggi due laureati in, diciamo, ingegneria sono “uguali” a prescindere. Togliere il valore legale vuol dire che nei concorsi di ammissione agli impieghi pubblici non basta più dire “laureato in” ma bisogna anche dire “laureato a” e “nella mia vita professionale ho fatto questo”. Questo  
      spingerebbe fortemente gli atenei a ricercare qualità e prestigio dei propri corsi per garantire ai propri iscritti migliori opportunità di impiego.

  25. cm

    La tenure track all’italiana è già articolata in modo simile a quella anglosassone. Il phd prevede spesso usi eterodossi dei candidati- commissioni d’esami, lezioni, supervisione di tesi, organizzazione di convegni e master. Il borsista postdoc di solito , ricerche a parte, contribuisce in forma ripetuta alla didattica. L’assegno post doc prevede un ulteriore utilizzo in questo senso. Infine il ricercatore a td supervisiona i candidati phd , e contribuisce, come sopra e in varie forme alla didattica – tesi esami lezioni esercitazioni. Da cui l’esito, quando positivo, di un posto da ricercatore a tempo indeterminato- previo conferma dopo tre anni, almeno formalmente- prevede un’arco temporale e una tenure track – spesso nello stesso ateneo,e di questo si può discutere, in senso sia positivo che negativo- di oltre dieci anni. Il punto debole resta ovviamente la valutazione interna della comunità e dell’ateneo, le sanzioni, ecc.Infine i carichi didattici dei ricercatori- humanities e scienze sociali- sono ormai computati in molti casi in 120 ore, almeno- escludendo dottorati ecc. Formalmente, si può sostenere che quanto descritto sia improprio e non previsto, ma è ciò che accade.

  26. Alessandro Figà Talamanca

    E’ interessante notare che "nepotism" e "inbreeding" pur essendo quasi sconosciuti nelle università degli Stati Uniti, sono espressioni note del gergo accademico americano. Infatti negli S.U. esistono regole precise, anche se quasi sempre non scritte, per prevenire questi fenomeni, naturalmente possibili in un ambito decisionale caratterizzato da forte discrezionalità come è quello della valutazione accademica. All’inizio degli anni settanta la regola contro il nepotismo, che vietava che due parenti fossero impiegati dalla stessa università, fu modificata abolendo il divieto per i coniugi, a seguito delle pressioni del movimento femminista, che ne criticava le conseguenze discriminatorie contro il coniuge socialmente "più debole", cui veniva spesso impedito l’accesso a posizioni accademiche meritate. Prima di allora si contavano molti casi di mogli non meno brave del marito che insegnavano in una università minore non distante dalla sede più importante in cui insegnava il marito. Un’altra soluzione, naturalmente, era "vivere nel peccato". Anche per questa soluzione è noto il caso di due importantissimi professori di statistica, ambedue a Berkeley.

  27. Giovanni Podda

    Negli USA la cooptazione funziona perchè gli atenei sono privati: se assumi solo imbecilli con vario grado di parentela, dopo pochi anni l’ateneo chiude. In Italia invece puoi riempire le Facoltà di amici e parenti vari che tanto va bene comunque. I criteri oggettivi per valutare gli atenei abbondano, ma nessuna università italiana è interessata a farsi valutare.

  28. Marcello Romagnoli

    Sono favorevole alla cooptazione, ma alla luce del sole e con incentivi e disincentivi forti se chiami persone capaci o incapaci. La progressione non deve dipendere da nessuno se non da una valutazione numerica dell’ operato che si basi su: a) voto degli studenti per le lezioni;b)numero di pubblicazioni per impact factor;c) finanziamenti ricevuti per anno. Non è un sistema perfetto, ma meglio che ora (poi il sistema perfetto non esiste!). In questo modo si evita che incapaci si ritrovino il proprio nome su articoli o progetti. I concorsi non servono a valutare la capacità di insegnare o di ricercare: queste sono altra cosa da quello che si valuta in un concorso. Non sono sicuro neppure che costringere a cambiare sede per fare carriera sia sempre la cosa più giusta. Se vogliamo ci sia una forte connesione con il territorio che senso ha formare qualcuno poi quando è formato mandarlo via dove magari il territorio non ne ha bisogno?

  29. Uniromatv

    Al seguente link potete vedere il servizio realizzato da UniromaTV dal titolo "Quanto funziona l’università italiana?"

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén