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PAROLA D’ORDINE PER L’UNIVERSITÀ: AUTONOMIA E CONCORRENZA

Un recente studio di alcuni noti economisti che da tempo si occupano di istruzione, mercato del lavoro e crescita mostra come autonomia e concorrenza tra atenei migliorino la qualità della ricerca e della didattica. In Italia invece è in discussione una riforma che propone qualche novità sulla governance delle università, ma non rinuncia all’atavico centralismo. E piuttosto che disegnare nuove regole di concorrenza, definisce gli argini per evitare gli abusi più vistosi, senza modificare in modo sostanziale la struttura degli incentivi in cui operano le università.

L’autonomia delle università e la concorrenza tra atenei migliorano la qualità della ricerca e della didattica. Se considerate isolatamente, autonomia e concorrenza non raggiungono il risultato. Infatti non serve lasciare maggiore autonomia alle università in un ambiente non disciplinato da concorrenza per il conseguimento di fondi di ricerca, per la selezione del personale e per la possibilità di attrarre i migliori studenti. Senza concorrenza, l’autonomia verrebbe utilizzata per perseguire scopi diversi da quelli della buona ricerca e della buona didattica. Così come non vale nemmeno la pena promuovere la concorrenza tra università se esse non hanno anche autonomia sufficiente per adottare le forme organizzative ritenute più efficienti e innovative. Sono questi i risultati di un recente studio di alcuni noti economisti che si sono occupati a lungo di istruzione, mercato del lavoro e crescita come Philippe Aghion, Mathias Dewatripont, Caroline Hoxby, Andreu Mas-Colell e André Sapir. (1)
Il merito della ricerca è di raccogliere nuovi dati su autonomia, concorrenza e performance delle prime 500 università nel mondo, e di confrontare in modo sistematico gli indicatori raccolti. Il risultato principale è che le università migliori sono anche quelle più autonome e che agiscono in ambienti più competitivi.

INDICATORI DI SUCCESSO

Tra i vari indicatori di successo, gli autori utilizzano la graduatoria proposta dall’università di Shanghai che prende in considerazione: (1) il numero di ex alunni che ha vinto il premio Nobel in fisica, chimica, medicina ed economia o la Field Medal in matematica (10 per cento del punteggio totale); (2) il numero di docenti che ha vinto il premio Nobel o la Field Medal (20 per cento); (3) il numero di lavori pubblicati su Nature o Science (20 per cento); (4) il numero di lavori pubblicati secondo il Science Citation Index (20 per cento); (5) il numero di lavori molto citati secondo la banca dati Thomson Isi (20 per cento); (6) gli indicatori descritti divisi per il numero complessivo dei docenti (10 per cento). L’indice di Shangai è stato criticato perchè è distorto a favore delle scienze naturali e della medicina; tuttavia, è fortemente correlato con molti altri indicatori di successo delle università. (2)
Lo studio costruisce inoltre un indicatore di autonomia e concorrenza tra università, definendo più autonome e concorrenziali le università quando il budget non è approvato dal governo, quando possono selezionare gli studenti all’ingresso, retribuire i docenti secondo parametri stabiliti dalle università stesse, stabilire autonomamente le procedure di reclutamento dei docenti, quando hanno un tasso minore di endogamia (misurato come percentuale di docenti che hanno conseguito il dottorato di ricerca nella stessa università), sono proprietarie delle proprie strutture, possono stabilire autonomamente la propria offerta formativa, hanno una percentuale minore di entrate da trasferimenti pubblici e quando ricevono una quota più elevata di finanziamenti da fondi di ricerca assegnati in modo competitivo.
Come si vede nella figura, anche se si limita l’analisi alle sole università europee, l’indice di performance è fortemente correlato con l’indice di autonomia e concorrenza. Si notano le posizioni di Italia e Spagna, che ottengono valori particolarmente bassi nella classifica di entrambi gli indicatori. Al contrario, le università dei paesi scandinavi e del Regno Unito sono quelle che raggiungono i punteggi più elevati. L’analisi si concentra poi sugli Stati Uniti, dove convivono all’interno dei singoli stati diversi sistemi di istruzione terziaria, ed evidenzia che la relazione positiva tra concorrenza e autonomia da una parte e performance dall’altra emerge anche all’interno di quel paese.
La conclusione dell’analisi è che se si desidera migliorare la qualità degli atenei occorre salire nella classifica degli indicatori di autonomia e concorrenza, che, secondo gli autori, sono fortemente complementari.

Relazione tra performance delle università europee e indice di autonomia e concorrenza

Nota: BEL Belgio, DEN Danimarca, FIN Finlandia, GER Germania, IRE Irlanda, Italia, NET Olanda, SWE Svezia, SWI Svizzera, UK Regno Unito.

LA RIFORMA ITALIANA

Esaminiamo, alla luce di questo studio, le proposte di riforma contenute nel disegno di legge governativo n. 1905/2009 attualmente in discussione al Senato. (3)
Nel passato, l’università italiana ha goduto di un certo grado di autonomia, sia per quanto riguarda gli ordinamenti didattici (a partire dal 1999), sia per quanto riguarda la selezione del personale docente (dal 1998). Tuttavia l’assenza di rendicontazione e valutazione ha consentito lo sviluppo di una fortissima autoreferenzialità del sistema, con la proliferazione dei corsi di laurea e il localismo esasperato dei concorsi per i docenti. L’assenza di concorrenza tra atenei, rafforzata dalla normativa sul valore legale del titolo di studio, ha generato quindi il connubio “autonomia senza concorrenza”, che nella ricerca descritta viene indicato proprio come una delle cause della scarsa performance di ricerca dei sistemi universitari.
Purtroppo, il progetto di riforma Gelmini riduce il grado di autonomia e non rafforza sufficientemente la concorrenza tra atenei.
Viene riformata la struttura della governance, rafforzando la figura del rettore e riducendo la dimensione del consiglio di amministrazione, con un massimo di undici membri. Ciò consentirà di dare un impulso più deciso all’attività dell’ateneo, attenuando i veti incrociati che oggi si manifestano nella dialettica tra gli attuali organi di governo (senato accademico e consiglio di amministrazione). Coerentemente si rafforza la struttura di governo in caso di dissesto finanziario, con la previsione della figura del commissario. Tuttavia, la riforma non amplia l’autonomia degli atenei nella scelta delle modalità organizzative preferite, perché le norme che regolano i nuovi statuti sono molto rigide, fissando la numerosità e la composizione dei consigli di amministrazione, il numero massima delle facoltà, i compiti dei dipartimenti e delle facoltà, e così via.

LA QUESTIONE DELLE RISORSE

L’aspetto più negativo della riforma, tuttavia, ci sembra il fatto che non si rafforza la capacità degli atenei di competere tra loro, tanto che le parole “concorrenza” e “competere” non ricorrono mai nel testo. Una delle condizioni indispensabili per pianificare l’attività di un’università è l’ammontare di risorse disponibili. Su questo aspetto il disegno di legge non fornisce alcuna garanzia di certezza e continuità. Nonostante si ribadisca ripetutamente la necessità di una pianificazione finanziaria triennale, non si indica come evitare situazioni come quella corrente, in cui le università hanno conosciuto solo a fine settembre l’entità del Ffo (fondo di finanziamento ordinario) loro assegnato per l’anno in corso. Sorprende inoltre come, nell’ambito di una riforma complessiva degli assetti degli atenei, non si provveda a rimuovere il tetto alle tasse universitarie (attualmente non possono superare il 20 per cento dell’Ffo). Gli atenei non potranno quindi scegliere la combinazione preferita tra prezzo richiesto e qualità offerta, e quindi non potranno competere efficacemente tra loro nel quasi-mercato della formazione terziaria.
Se le università non potranno competere sul prezzo per attrarre studenti, dovranno competere tra loro per attrarre finanziamenti pubblici, che tuttavia restano incerti. In questa prospettiva costituisce sicuramente un elemento positivo il rafforzamento dei nuclei di valutazione di ateneo, specificando la necessità di terzietà rispetto ai valutati. Nel caso delle università, tuttavia, il vero elemento di concorrenza è la qualità del corpo docente, il fattore più importante per attrarre migliori studenti e maggiori fondi per la ricerca. Il disegno di legge rafforza le competenze dei dipartimenti nella selezione del corpo docente, ma non chiarisce quali siano gli incentivi che dovrebbero favorire la scelta dei migliori, perché i fondi per la ricerca saranno trasferiti agli atenei e non ai dipartimenti o ai singoli gruppi di ricercatori che hanno contribuito ai risultati. Rimane inoltre preclusa la possibilità di variare le retribuzioni dei docenti, un altro fattore strategico per favorire la concorrenza tra università.
La riforma in discussione combina alcuni elementi innovativi sulla governance con l’atavico centralismo che caratterizza la pubblica amministrazione italiana, da sempre sospetta dell’eccesso di autonomia delle proprie articolazioni periferiche. Piuttosto che disegnare nuove regole di concorrenza (il playing field) si è scelto di definire alcuni argini per evitare gli abusi più vistosi, senza modificare in modo sostanziale la struttura degli incentivi in cui operano le università.

(1) Il lavoro è The Governance and Performance of Universities: Evidence from Europe and the U.S., di Philippe Aghion, Mathias Dewatripont, Caroline Hoxby, Andreu Mas-Colell e André Sapir, in corso di pubblicazione su Economic Policy.
(2) La graduatoria di Shangai è fortemente correlata con altri tre indicatori: l’indice Heeact (Higher Education Evaluation and Accreditation Council of Taiwan), Times Higher Education e Webometrics Ranking of World Universities. In particolare, Heeact pubblica anche graduatorie per ciascuna disciplina, e si basa sul numero di lavori pubblicati negli ultimi undici anni (10 per cento) e nell’anno corrente (10 per cento); numero di citazioni negli ultimi 11 anni (20 per cento) e negli ultimi due anni (10 per cento); numero di lavori molto citati negli ultimi 11 anni (15 per cento); numero di articoli pubblicati su riviste ad elevato impatto nell’anno corrente (15 per cento), indice H per gli ultimi due anni (20 per cento).
(3) Si tratta delle “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”, meglio note come “riforma Gelmini”.

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12 commenti

  1. Marco Cosentino

    Condivisibile la considerazione che il DDL Gelmini/Tremonti sostanzialmente riduce l’autonomia senza incrementare la concorrenza (e quindi a che serve?). Tuttavia l’indice di autonomia e concorrenza – ad esempio – della Svizzera e’ uguale a quello dell’Italia, eppure nel ranking di Shangai la prima e’ al top, la seconda in fondo: non sarà più banalmente un problema di finanziamenti e – più in generale – di "sistema paese", come si usa dire recentemente? Inoltre, viene auspicata l’abolizione del tetto del 20% FFO alle tasse studentesche, ma non si dice che di fatto molte (la maggioranza?) delle università italiane lo ha ormai ampiamente superato di fatto senza alcuna conseguenza, dato che la legge che lo istituisce non prevede sanzioni.

  2. michele costabile

    Finalmente un contributo che centra il problema. Complimenti. E tutto sommato, la riforma Gelmini oltre a non centrare la terapia – del resto chi non centra la diagnosi come potrebbe centrare la terapia? – non funge neanche da cortisonico. Se ad esempio la riforma servisse almeno a evitare gli abusi eviteremmo fenomeni come quello denunciato sul Corriere della Sera di ieri da Francesco Giavazzi. E quindi non solo non cura il male ma non riduce neanche l’infiammazione. E intanto l’unico tentativo serio di creare un "mercato" delle risorse, a cominciare da quelle economiche langue…qualcuno ricorda il significato dell’acronimo CIVR?

  3. Marco Studente Universitario

    Ritengo che questo articolo sia particolarmente interessante per quanto riguarda il tema della riforma universitaria. E’ proprio dalla concorrenza che si deve partire: l’unico modo per essere competitivi in Italia è mettere in concorrenza le universita dal punto di vista della più autonomia nelle offerte formative e nella apertura del finanziamento dell’università fornendo gli strumenti finalizzati al mercato a cui sono destinati. Il modello Uk dovrebbe essere preso come punto di riferimento dal punto di vista della competizone e della trasparenza a livello non solo nazionale ma anche internazionale. Un celebre esempio di concorrenza in Uk è la infinita lotta Cambridge-Oxford che costringe le due universita (pur avendo una domanda molto più ampia della disponibilita di posti) a essere sempre in compezione per attirare i migliori talenti di tutta Europa. In Italia l’Emilia Romagna, dove vi sono 4 università nel raggio di 40/60 km, è il luogo dove questa concorrenza esiste ed è determinata dalla facilità di spostarsi da una all’altra università. Oggi con l’alta velocità dei treni questo discorso di mobilità si puo espandere. Speriamo bene.

  4. Alessandro Figà Talamanca

    Mi sembra che lo studio citato stabilisca una buona correlazione tra il punteggio di Shangai e “autonomia e concorrenza”, ma non un nesso di causalità. Dopo aver osservato che chi va in giro di inverno senza cappello ha, in generale, una folta capigliatura, non vorremmo suggerire ai calvi di rischiare il raffreddore andando in giro senza cappello. Un’altra caratteristica probabilmente associata alle università che sono in cima alla graduatoria di Shangai è quella di offrire le lezioni in lingua inglese. Saremmo sicuri che un’offerta generalizzata di didattica in inglese (maccheronico) migliorerebbe le università italiane? Infine credo proprio che un governo serio dovrebbe autonomamente proporsi dei traguardi di miglioramento per le università finanziate da fondi pubblici, piuttosto che inseguire graduatorie. Dovrebbe quindi soprattutto chiarire (e chiarirsi) in che termini le università statali debbano rispondere alla domanda di istruzione post-secondaria di massa (50% dei diciannovenni), ed in che modo questa risposta possa coesistere con la formazione di scienziati e tecnici di alto livello.

  5. Alberto Mura

    Il limite del giudizio sul sistema universitario di un Paese basato sul numero delle università che occupano i primi posti in classifiche tipo quella di Shanghai è che tale criterio favorisce quei Paesi dove i migliori ricercatori tendono a essere concentrati in poche università "eccellenti". Sono invece sfavoriti quei Paesi dove i migliori studiosi sono sparsi piu` o meno casualmente su tutto il territorio nazionale. E ciò è proprio il caso dell’Italia. La riprova statistica la si ottiene considerando non già le prime cento unniversità, ma un numero molto maggiore di "buone università", per esempio le prime 500 università al mondo. Se si fa così, si scopre allora che l’Italia si trova al 5° posto, a pari merito con il Canada, immediatamente davanti alla Francia (settima), preceduta solo da USA, Germania, Regno Unito e Giappone. Se si tiene conto della diversa popolazione dei vari Paesi, L’Italia scivola al 19° posto, ma resta sempre davanti alla Francia (20°), mentre ai primi 5 posti troviamo Nuova Zelanda, Svezia, Israele, Svizzera e Finlandia. Gli Usa sono al 16° posto. Fonte: http://www.nationmaster.com/graph/edu_uni_top_500-education-universities-top-500

  6. Fabio Ranchetti, professore di Economia politica, Università di Pisa

    L’articolo di Checchi e Jappelli è ottimo, e sostanzialmente condivisibile. Il disegno di legge Gelmini è davvero un ulteriore esempio di superfetazione burocratica, confuso e autocontradditorio (tranne qualche marginale proposta migliorativa). Un esempio per tutti. A pag.23 del disegno, "a giustificazione dell’opzione regolatoria proposta" e dopo avere riaffermato che si tratta di una riforma "a costo zero", si afferma: "L’intervento normativo non ha effetti sul libero mercato e non influenza le attività di impresa o il sistema di competitività del Paese"! Ma, allora, a che (o a chi) serve?

  7. Aram Megighian

    Perfetta analisi che, attraverso vari passi intermedi, porta comunque sempre allo stesso punto: il valore legale del titolo di Laurea. Lo studente Marco giustamente plaude ai suggerimenti dell’articolo, ma rimane il fatto che dopo la Laurea rimane sempre questo "macigno" del valore legale del titolo di Laurea che lo omogeinizza agli altri. Alcuni argomentano che nel privato, il valore legale del titolo di Laurea viene poco considerato. Parlando con ex studenti la cosa invece non pare proprio così e sembra che la considerazione reale del curriculum di studio (che può variare da una Università all’altra) e del lavoro finale di tesi non abbiano quel fondamentale ruolo che hanno in un colloquio di lavoro all’estero. Perchè il punto è proprio questo: la possibilità dell’intervistato di essere valutato realmente (e pertanto anche remunerato realmente, non dimentichiamolo) in base alla sua preparazione. Preparazione ottenibile presso l’Università che lui ha ritenuto migliore per questo in base alla naturale competizione tra differenti e veramente autonomi atenei.

  8. renzo

    Scusate, ma io tutta questa correlazione dal grafico mostrato nell’articolo non la vedo. Sarà un po’ tecnico, ma mi piacerebbe sapere il valore dell’indice di correlazione, ossia l’intensità dell’associazione tra variabili, e non solo il coefficiente di regressione. Come osservato anche da un altro lettore, il grafico sconta molta dispersione intorno alla retta di regressione e può capitare di vedere paesi allo stesso livello di autonomia e concorrenza, ma con esiti radicalmente opposti.

  9. Renzino l'Europeo

    Nel dibattito politico in materia di istruzione superiore (peraltro informato adeguatamente da studi e ricerche di tipo accademico) si preferisce usare – e applicare – la massima "autonomia e responsabilità" ,che ricomprende, ma con qualche modificazione e allargamento di vedute, quella di "autonomia e concorrenza". Inoltre, non è d’uopo usare la classifica di Shangai come misura delle prestazioni. In Europa si stanno studiando ulteriori e più raffinati metodi multidimensionali di trasparenza e informazione sulle Università, che evitino la dittatura mediatica delle classifiche dei nostri amici cinesi. Questi ranking sono spesso più dannosi che proficui per coltivare una politica della qualità dell’istruzione, che va affrontata innanzitutto con ben altri strumenti di organizzazione e valutazione delle attività.

  10. Luca Deidda

    Come non essere d’accordo con la visione di Checchi e Jappelli. Più autonomia e più concorrenza. Autonomia vuol dire, credo, far diventare ogni ateneo l’unico artefice del proprio destino: del proprio successo o del proprio declino. Ciò implica l’esistenza di un sistema di allocazione delle risorse all’università tale per cui ogni ateneo subisca le conseguenze delle proprie scelte. Come conciliare questo principio, che sia pure timidamente, è presente nel tentativo di riforma della Gelmini, con la scelta di definire le commissioni dei concorsi attraverso un meccanismo che, di fatto, può tradursi in un’estrazione casuale? Può un ateneo dirsi artefice del proprio destino se il reclutamento è frutto delle scelte di una commissione eletta dal caso? Ancora una volta siamo di fronte ad un esempio di perversione centralista, per di più fatalista. Altro che artefici del proprio destino, qui ci si affida al fato. Ciò che sconcerta è che ad ispirare questo meccanismo di nomine non siano stati solo politici che di meccanismi di Governance e più in generale di sistemi coerenti di incentivi poco s’intendono.

  11. Federico M. Mucciarelli

    Ottimo articolo. Centra tutti i problemi. Una piccola chiosa, in termini propositivi. Si parla di competizione tra atenei, che dovrebbe essere il prodotto dell’autonomia. Ma competizione significa che gli atenei dovrebbero fare a gara per attrarre i ricercatori e professori migliori, perchè così facendo attraggono più studenti. Dimentichiamo per un attimo il problema degli incentivi statali (i famosi ranking e la distribuzione dei soldi in base a essi): anche risolvendo quest’aspetto ne resterebbe aperto un altro enorme, che impedisce la concorrenza: lo status giuridico dei professori. Due sole notazioni. In primo luogo, lo stipendio dei professori è uguale per tutti gli atenei, lo decide lo stato con un decreto (e ne può fare quello che vuole, tanto più che quest’anno per legge ci hanno tolto lo scatto…): nulla di più contrario all’idea di concorrenza. In secondo luogo, per cambiare università il professore deve ottenere l’autorizzazione dell’ateneo d’origine: è un po’ come se la Fiat per rubare un ingegnere bravo alla Peugeot dovesse chiederle il permesso!

  12. Immacolata Pinto

    Parliamo di dati? Bene, il Sistema Universitario Italiano era uno dei migliori al mondo prima dell’eccessivo spazio dato all’ “autonomia” e alla “concorrenza” ovvero dopo gli accordi europei sull’istruzione superiore del 1999 e le relative riforme universitarie nei diversi paesi europei (vd. Processo di Bologna e per l’Italia Riforma Luigi Berlinguer, meglio nota come 3+2). L’Università Italiana aveva bisogno esclusivamente di mettere a punto un buon sistema di valutazione (vd. i lavori in corso della Fondazione CRUI e del CUN). Per praticare un efficace controllo della Qualità non c’è assolutamente bisogno di far diventare le Università delle aziende, i soggetti che ci lavorano degli imprenditori, i contenuti insegnati una merce di scambio e quelli che frequentano le Università dei potenziali compratori. Io, quindi, molto umilmente, direi, carissimi economisti, carissimi studiosi, carissimi governanti, carissimi cittadini, applichiamo un rigido e serio sistema di valutazione e, innanzitutto, ridiamo valore sociale all’Istruzione come bene primario di un Paese.

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