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TROPPA FLESSIBILITÀ NON AIUTA LA CRESCITA

Maggiori garanzie contrattuali per i lavoratori assunti a tempo determinato sono il presupposto necessario per tornare alla crescita economica. I contratti a termine hanno un impatto negativo sugli incentivi ad accumulare capitale umano specifico. Tanto più in economie come la nostra, con imprese specializzate in settori tradizionali e impiego di tecnologie e organizzazioni gestionali mature. Il ricorso al lavoro temporaneo per ridurre il costo del lavoro rischia di ritardare gli investimenti in innovazione e in competenze. E frena le potenzialità di crescita produttiva.

Tra le cause della riduzione della capacità di crescita sperimentata da molti paesi europei negli ultimi anni, va indicata anche la diffusione dei contratti a termine. E, dunque, il presupposto necessario per riprendere un percorso di crescita economica è una politica di maggiori garanzie contrattuali per chi viene assunto a tempo determinato.

PRODUTTIVITÀ E RIFORME

Siamo arrivati a questa conclusione partendo dall’osservazione che a partire dalla metà degli anni Novanta la crescita della produttività nell’area euro si è quasi dimezzata, passando da un tasso del 2,7 per cento nel periodo 1974-1994, all’1,3 per cento per gli anni 1995-2006. (1)
Il declino della dinamica della produttività è spiegato non tanto dal rallentamento dell’accumulazione dei fattori di produzione, quanto dalla diminuzione dell’efficienza con cui questi sono utilizzati, ovvero dalla produttività totale dei fattori (Ptf).
D’altra parte, la diminuzione della crescita dell’efficienza produttiva si è realizzata proprio nel periodo in cui molti governi europei hanno accelerato il processo di riforme dirette ad accrescere la flessibilità del mercato del lavoro. Riforme che sono state realizzate al “margine”, ovvero riducendo le garanzie a protezione dell’impiego dei lavori a termine, mantenendo invece sostanzialmente inalterate quelle relative ai contratti regolari. E il risultato è stato una grande diffusione dei contratti a termine nel periodo 1995-2007 (figura 1).

Figura 1: Variazione media annua dei lavoratori con contratti a termine- 1995-2007

Fonte: Eurostat

È naturale quindi chiedersi se e in quale misura questo grande cambiamento abbia condizionato nel medio-lungo periodo l’evoluzione della produttività del lavoro e, in particolare, la dinamica della Ptf.

IL CASO DELL’ITALIA

Per rispondere alla domanda abbiamo utilizzato i dati EU-Klems relativi ai settori manifatturieri e servizi di quattordici paesi dell’Unione Europea, tenendo conto della intrinseca diversa propensione all’uso dei contratti temporanei che caratterizza le imprese dei diversi settori. (2)
La nostra analisi empirica mostra in effetti che la riduzione delle garanzie a protezione dell’impiego per i lavoratori a termine ha causato una diminuzione dello 0,10 per cento circa della crescita media annua della Ptf nel periodo 1995-2007. Un risultato che si ottiene considerando anche il ruolo positivo che possono giocare altri fattori, come il grado di concorrenzialità del mercato dei prodotti.
L’Italia si rivela poi un caso emblematico. È nel nostro paese, infatti, che sono stati realizzati i cambiamenti legislativi più forti. Tanto che l’indicatore Ocse relativo al grado di protezione per i contratti a termine (che varia su una scala da 0 a 6) è sceso, da noi, di ben 3,5 punti negli anni 1995-2007, rispetto a una media di –0,45 negli altri quattordici paesi europei.
Nello stesso periodo si sono registrati in Italia i peggiori risultati in termini di dinamica della Ptf: una variazione negativa cumulata di -3,77 per cento, rispetto a una crescita della media dei quattordici paesi considerati del 7,02 per cento. Le imprese italiane non hanno tardato a occupare i maggiori spazi concessi dalle nuove regole, come si vede chiaramente dalla figura 1.
La figura 2 mostra invece un confronto con i principali partner europei sul terreno della Ptf che sembra altrettanto indicativo.

Figura 2:Produttività totale dei fattori, 1995-2007 (1995=100)

Fonte: EU-KLEMS

Abbiamo calcolato, ad esempio, che se non ci fosse stata la riduzione delle protezioni sui contratti a termine, la crescita cumulata negli anni 1995-2007 della Ptf del terziario avanzato e dei servizi alle imprese, rispetto a quella della manifattura, sarebbe stata superiore di oltre 7 punti percentuali a quanto avvenuto in realtà.
In sostanza possiamo interpretare il risultato come una verifica dell’ipotesi dei “binari morti”: l’uso dei contratti a termine sembra esercitare un impatto negativo sugli incentivi ad accumulare capitale umano specifico. L’effetto sembra prevalere soprattutto in economie come la nostra, dove le imprese sono specializzate in settori tradizionali e impiegano tecnologie e organizzazioni gestionali mature. E dove il ricorso al lavoro temporaneo, come opzione per ridurre il costo del lavoro, rischia di ritardare gli investimenti in innovazione e in competenze e dunque frena le potenzialità di crescita produttiva.
Tutto ciò ha implicazioni di politica economica, che ritroviamo nelle parole del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi: “Le riforme attuate, diffondendo l’uso di contratti a termine, hanno incoraggiato l’impiego del lavoro, portando ad aumentare l’occupazione negli anni precedenti la crisi, più che nei maggiori paesi dell’area dell’euro; ma senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si indebolisce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità”. (2)
Sembra perciò utile la proposta di un contratto unico e con tutele progressive già formulata su questo sito da Tito Boeri e Pietro Garibaldi: il contratto unico – proprio perché a tempo indeterminato – risolve fin dall’inizio il problema della precarietà, dà alle imprese la necessaria flessibilità nel periodo di prova iniziale e, poiché non ha termini di scadenza, incentiva gli investimenti in formazione.

 

(1) Trichet J-C. (2007), “Productivity in the euro area and monetary policy”, Special Lecture at the 22nd Annual Congress of the European Economic Association, Budapest, 27 August 2007.

(2) Damiani M., Pompei F., Ricci A. (2011), “Temporary job protection and productivity growth in EU economies, MPRA Paper No. 29698 Munich Personal RePEc Archive, http://mpra.ub.uni-muenchen.de/29698/.

(3) Draghi M. (2010), “Crescita, benessere e compiti dell’economia politica” Lezione magistrale del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, Istao – Facoltà di Economia “G. Fuà”, Ancona, 5 novembre 2010.

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22 commenti

  1. Pina

    Troppa precarietà non aiuta la crescita. Occorre distinguere la flessibilità positiva da quella negativa. Quello che non viene attuato nelle nostre imprese è l’incontro con la flessibilità che desiderano le persone per tanti motivi ed a un certo punto della loro vita. Se chiedi il part-time, ti discriminano, l’orario flessibile in molte imprese non è concepibile. Lo scambio nella flessibilità è solo a senso unico e quindi si traduce in contratti a termine e quindi in sè precari. Perchè non si batte sulla flessibilità positiva, quella che le donne da anni portano avanti ma che non rientra mai negli studi macroeconomici. Solo combinano le diverse flex positive si possono raggiungere risultati importanti rinunciando ognuno a dei principi e scambiando opportunità nella flessibilità. Usiamo le parole nel modo giusto, altrimenti si demonizzano strumenti invece importanti per le persone e le imprese.

  2. Marcello

    TROPPA FLESSIBILITÀ NON AIUTA LA CRESCITA => MENO FLESSIBILITA’ FA CRESCERE. E’ un sillogismo spurio. Le aziende investono meno sulle RU e la produttività ne risente: è una delle conseguenze deteriori di un sistema sbilanciato: le aziende, in particolare quelle che lavorano su commessa, con prospettive a breve-medio termine (spec. nell’italico contesto), nell’impossibilità di accollarsi il rischio di assunzioni a tempo indet., ricorrono a forme “flessibili”, che magari gli costano pure di più ma sono più “sicure”. Ma una minor flessibilità comporterebbe maggior investimento nelle RU? E quali sarebbero le conseguenze nei settori più maturi, dove i margini di contribuzione si fanno sempre più ridotti? Non si dovrebbe invece ridurre le garanzie del lavoro a tempo indeterminato (magari accordando sussidi consistenti in caso di disoccupazione) per indurre le imprese ad aprire di più al lavoro a tempo indeterminato e così poter adottare una politica più serena di investimento nelle R.U.? Tra l’altro: meno flessibilità significa anche maggior complessità… (vedi http://dieoff.org/page134.htm).

  3. Ugo Pellegri

    Il vero problema, ha perfettamente ragione il prof. Ichino, è che da una parte abbiamo troppa flessibilità che fa male, contratti a termine, cocopro ed altre diavolerie simili, dall’altra l’ipergaranzia dei più fortunati, specialmente nel pubblico impiego, alla quale nessun fortunato vuole rinunciare. Non dobbiamo dimenticare che le diavolerie di cui sopra, ben prima del povero prof. Biagi che invece ha cercato di introdurre qualche correttivo, sono state inventate da una classe politica, incapace di riconsiderare gli eccessi dello statuto dei lavoratori e della legislazione in materia negli 70 e 80 e di abrogare quegli istituti assolutamente non comparabili con quelli delle altre nazioni europee con le quali oggi, in modo parziale, ci si confronta. In altri termini quando non si ragiona in maniera sistemica ma si inseguono più obiettivi parziali si combinano i disastri che oggi lamentiamo.

  4. Paolo Guaita

    Questo articolo mi fa sorgere una riflessione ed interrogativo. In Italia il lavoro temporaneo oltre ad essere meno “garantito” contrattualmente è anche (molto) meno remunerato del lavoro a tempo indeterminato. Ho lavorato all’estero per diversi anni ed ho visto applicare un approccio esattamente contrario che mi sembra generare risultati tutto sommato positivi. Il lavoratore temporaneo, proprio per la precarietà del suo ingaggio, viene pagato di più del lavoratore a tempo indeterminato. Un meccanismo di remunerazione del rischio. L’azienda che utilizza il lavoratore temporaneo, o freelance, lo fa se valuta che il vantaggio della extra flessibilità è maggiore dell’extra costo. Questa è una situazione win-win che genera un ricco mercato del lavoro temporaneo che da vantaggi a tutti. Quello che vedo in Italia sembra invece essere a sistematico discapito del lavoratore. Gli svantaggi per il datore di lavoro analizzati da questo articolo sembrano essere effetti di ordine secondario (soprattutto per chi ha prospettive di medio e breve termine). Ma perchè abbiamo scelto un modello di lavoro temporaneo così distorto? Paolo Guaita

  5. Luca Mori

    Non sono un esperto ma mi sembra anomalo che il lavoro a tempo determinato sia generalmente meno remunerato (o comunque alla pari) di quello a tempo indeterminato. Cioè: io cedo al datore di lavoro, oltre alla mia prestazione, la possibilità di usufruirne solo per il periodo strattamente necessario ed anzichè riceverne un premio ne subuisco quasi una penalizzazione economica. Oltre a questa ingiustizia di fondo (maggior disponibilità dovrebbe corrispondere a maggior costo/compenso), credo che un maggior costo del lavoro a tempo determinato potrebbe disincentivare il ricorso sistematico e l’uso distorto che molte aziende ne fanno puntando solo al risparmio economico immediato; d’altro canto una maggiore remunerazione potrebbe rendere i lavoratori più disponibili verso queste forme di contratto, incentivandoli, soprattutto se giovani, a ricercare sempre nuove opportunità e consentendo comunque una costanza nell’accantonamento dei contributi ed una maggiore tranquillità economica per eventuali periodi di disoccupazione.

  6. Huygens

    Bisognerebbe provare a fare qualcosa: la gente non può andare avanti senza prospettive per il futuro. E poi? Che fanno?

  7. Paolo

    Non dispongo di dati, ma ho l’impressione che la disponibilità di manodopera flessibile e a basso costo abbia indotto le imprese a utilizzarla la manodopera come fattore sostitutivo e ad arretrare notevolmente negli investimenti in nuovi prodotti, nuovi processi e tecnologia. Difficile dire cosa sia causa e cosa effetto, ma questo ragionamento mi sembra coerente rispetto al fatto che in Italia sia presente il tipo di industria di cui parla l’articolo.

  8. Michele Governatori

    Molto interessante. Propongo di indagare anche il seguente quesito: è neutrale che le garanzie di continuità del reddito siano fornite dalle aziende stesse o dagli ammortizzatori, ai fini degli effetti sulla PTF?

  9. Michele Intorcia

    Io ricordo bene gli albori dell’ideologia della flessibilità al lavoro nei primi anni ’90 perchè stavo per laurearmi e cercavo di capire cosa avrei fatto dopo. Si diceva che erano finiti i tempi del lavoro garantito a vita e si aprivano i meravigliosi tempi delle opportunità del lavoro flessibile. E toccava alla mia generazione e quelli seguenti saggiarne gli effetti. Quello della flessibilità è un tipico esempio di parole “padrone” (E.Morin), quando le parole non vengono analizzate bene ma usate come bastoni o scuri, per fare male. All’opposto dell’originale significato, la flessibilità è stata usate per irrigimentare e irrigidire intere generazioni di lavoratori nell’ideologia, madre di tutte le ideologie liberiste di destra-centro-sinistra: l’ideologia della crescita. Il vostro breve articolo, che discute pochi numeri, svela l’inganno dell’ideologia. Piu’ flessibilità è addirittura associata a meno produttività e meno crescita. Il modello non funziona. Non dovreste voi economisti pensarne un altro? Grazie.

  10. Anonimo

    La variabile quantitativa del lavoro è dipendente dalla variabile di costanza dei costi degli altri fattori della produzione tale per cui un aumento del tempo libero di lavoro, fermo restando il salario, è equivalente ad un aumento del costo del fattore produttivo capitale a parità dei rendimenti di scala e, per effetto della maggiore concorrenza, funzionali in termini di crescita del profitto e degli investimenti futuri nel raggiungimento del pieno impiego degli stessi imput produttivi.

  11. Martino

    Tesi un po’ tirata per i capelli: Francia e Germania hanno ottimi risultati in termini di produttività malgrado l’aumento di flessibilità! E perchè il Regno Unito non ha lo stesso miglioramente malgrado una diminuzione di flessibilità? E poi sarebbe interessante sapere a che punto di flessibilità erano i vari paesi nel 1995! In Italia la flessibiltà serve eccome, ma non quella introdotta in questi anni. Bisogna eliminare l’articolo 18, punto e basta. Non si è avuto il coraggio di farlo e si è creata quella flessibilità dal call center che non serve a nessuno, solo per non saper affrontare apertamente il problema. Bisogna smuovere il mercato del lavoro: non è possibile che troppi dipendenti, appena leggono “indeterminato” nel proprio contratto, non cambino più lavoro e avanzino solo per anzianità! E che un’azienda non possa “separarsi” da un dipendente se lo ritiene necessario. Tutto questo frena il progredire del singolo (sia in termini di competenze, ma anche di guadagno) e di certo non fa aumentare la produttività!

  12. sponsor

    A dispetto della elevata percentuale di crescita nel lavoro temporaneo, lo share di lavoro temporaneo in Italia è ancora fra i più bassi di Europa. Proviamo a leggere la riduzione della produttività in altro modo? La rigidità del lavoro protetto anche in presenza di crisi provoca un innalzamento delle ore lavorate per unità di prodotto, meno mercato meno prodotto ma stesse ore lavorate, e produttività finisce in cantina. In alcuni ambienti forse si è spostato i ricavi su nero dichiarando comunque tutti i costi, altro bel colpo alla produttività.

  13. gianluca ricozzi

    Non considerate anche l’effetto devastante che l’introduzione dei contratti precari, in assenza di un sistema di ammortizzatori sociali, ha determinato sul reddito delle famiglie e dei consumatori: il generale impoverimento di fasce sempre più ampie della popolazione, sopratutto giovanile, non potrebbe essere messa in relazione con la contrazione della domanda di consumi che, se non erro, costituisce una delle ragioni della bassa crescita italiana?

  14. LUCIANO GALBIATI

    L’abuso dei contratti a termine – e conseguente dualismo del mercato del lavoro – si elimina rendendo piu costoso (oneri previdenziali) il ricorso al lavoro “flessibile”. In alternativa estendendo l’articolo 18 a tutti i lavoratori. Verità finalmente evidente anche a economisti, politici e regolatori. L’intransigente ideologizzazione della flessibilità del lavoro è irrimediabilmente superata. Ennesimo fallimento del dogma liberista.

  15. Anonimo

    Le predominanze delle società di capitale sono funzionali al raggiungimento del pieno impiego in termini di produttività del fattore produttivo lavoro in ragione del rischio di impresa; in caso contrario l’impiego dell’imput di lavoro è reddituale in termini di produttività media e,considerando le aspettative di maggiori profitti futuri dato il costo della produzione, in costanza del fattore tempo libero a parità del saggio di prodotto netto e, quindi, del fattore tempo lavoro garantendo una equivalenza delle concorrenze intra-fattoriali (vedi tecnologie capital-intensive); il tutto in rispetto alle normative vigenti.

  16. Alessandro Tampieri

    Scusate, osservando gli aumenti di contratti a termine in confronto con le variazioni di produttività, mi pare di capire che, in Francia e Germania (ma non in UK), questo abbia coinciso con un aumento della produttività. Forse ho capito male, ma se ho ragione, perché in quei paesi la relazione è positiva? Potete darmi maggiori dettagli per supportare la vostra tesi? Buona giornata Alessandro.

    • La redazione

      I tassi di crescita medi annui dei contratti a termine, tra il 1995 ed il 2008, sono stati in Francia e Germania all’incirca la metà di quelli avutisi in Italia (in Francia +3%, in Germania +3,5 in Italia +7,2%).
      Anche la diminuzione della protezione dei contratti a termine in questi paesi è stata inferiore (in Francia ad esempio non si è verificato, secondo gli indicatori OCSE, nessun abbassamento dei livelli di protezione per questi lavoratori). L’Italia è invece il paese che ha maggiormente ridotto il di grado di protezione dei contratti a termine. E’ plausibile pensare che in Francia e Germania ci sia stata una maggiore attenzione, sia nel non abbassare troppo il livello di protezione dei lavoratori temporanei, sia nel non aumentare troppo il ricorso a queste tipologie lavorative nelle imprese. Tutto questo si è riflesso positivamente sulla crescita della produttività totale dei fattori (PTF).
      Inoltre non dimentichiamo che la crescita della PTF è il risultato anche di altri fattori, dei quali si tiene conto nella nostra analisi econometrica (rimandiamo al nostro articolo in bibliografia per ulteriori dettagli). In altri termini sui trend positivi della PTF in Francia e Germania influiscono in primo luogo i maggiori investimenti in Ricerca e Sviluppo e in secondo luogo, per la Germania, ma non per la Francia, una minore regolamentazione del mercato dei prodotti.

  17. claudio

    E’ evidente che con l’acqua alla gola si cerca di stare a galla ma non ci impegna per raggiungere obiettivi. Gli obiettivi e i miglioramenti si ottengono se ci si sente coinvolti in un’esperienza, se il nostro lavoro potrà avere un futuro e se sarà possibile godere dei risultati.

  18. Aldo P.

    20/30 anni addietro, il sogno dell’imprenditore italiano era: flessibilità del lavoro e bassi tassi d’interesse con un grande mercato facilmente accessibile. Con l’avvento dell’euro e dei contratti a progetto/Co.Co.Pro tutto questo è stato raggiunto. Risultato? “La grande imprenditoria italiana ha fatto cilecca”, non potendo più agire sulla leva monetaria (come aveva sempre fatto in passato svalutando la lira per favorire le esportazioni ) ha perso totalmente concorrenzialità italiana. In Italia la meritocrazia non è mai esistita nella politica, nella pubblica amministrazione ma anche nel privato. Quando l’italia è entrata nell’arena competitiva europea ad armi pari con gli altri paesi (avvento dell’euro) la classe dirigenziale ha dimostrato quanto vale: MENO CHE ZERO!!! Mia figlia, laureata e con grande esperienza lavorativa e professionalità, lavora in media 10/12 ore al giorno per 1.000€ al mese con contratti Co.Co.Pro di durata che si riduce sempre più. Lavora per le solite “maledette” agenzie ed il risultato qual’è? All’azienda cliente il lavoratore costa comunque moltissimo e, non essendoci un rapporto diretto tra il lavoratore e l’azienda cliente, non si potrà mai emergere!

  19. Antonio Curri

    Lavoro in un settore, il terziario, e mi occupo dal ’95 di implementare ERP internazionali in aziende di produzione discreta. Mi sembra di avere un punto di osservazione abbastanza privilegiato. Ho vissuto almeno due cicli di crisi dell’informatica, legate chiaramente a crisi economiche. Bene mi sembra di aver osservato un maggior ricorso alla cosiddetta flessibilità, forse nel mio settore maggiore dei numeri citati nell’articolo; di continuare a scoprire nelle aziende dove facciamo le nostre attività una assoluta incapacità a scoprire la capacità produttiva nascosta, ma intanto si devono ridurre i giorni di festa in nome di una maggiore presunta efficienza; di vedere pochissime aziende che hanno una chiara strategia che perseguono con feroce determinazione: basta vedere quanto spendono in R&D e quanto viene reinvestito in azienda e quanto viene “messo in tasca” dai soci…. Intanto, in questi stessi anni la domanda ed i consumi continuano a diminuire, non sarà perché il reddito disponibile delle famiglie ha lo stesso tipo di decremento? Che la pressione fiscale è in aumento soprattutto in quelle fasce dove si fanno i grandi consumi dei beni che le aziende di cui parlo producono e vendono… In realtà per tenere a magazzino, tanto sul bilancio viene vista come plusvalenza…. Devo dire poi che le persone che lavorano a “progetto” sono trattati come dipendenti normali, non ci sono controlli, ma il guaio maggiore è che queste persone non sono motivate a dare di più: tanto sono pagate male, hanno meno tutele, sanno già che non ritorneranno… Tiro le somme personali e parziali ma questo sistema non funziona, la mancanza di strategie “industriali” delle aziende molto spesso sono ridicole, ma neanche a livello Paese Italia sappiamo od almeno non mostriamo chi vogliamo essere nella competizione globale e come vogliamo arrivarci. Vedendo tutti gli altri commenti che trattano di flessibilità in relazione ai consumi, chiedo ai redattori di questo articolo se non sia possibile estrapolare dei dati che possano smentire o confermare queste sensazioni. Se si riuscisse a spiegare in modo “scientifico” questa correlazione, credo che si possa capire una volta per tutte se aumentare la flessibilità, se aumentare le garanzie ai lavoratori flessibili, se diminuire quelle a disposizione dei contratti indeterminati. Grazie per quanto fate!

  20. Giorgio Trenti

    I giovani che studiano sono bravi, si laureano e si trovano disoccupati. Le attese di questi giovani sono frustrate perché i posti di lavoro qualificato sono pochi e non tendono ad aumentare. Essi in ogni caso accettano posti di lavoro non particolarmente qualificati o rimangono in una vana attesa che consuma la vita. Pochi potranno dedicarsi ad un’attività in proprio, perché non c’è bisogno di tanti imprenditori. Non si dispone di una legge moderna per affrontare il problema; si propone una legge innovativa. Articolo unico Comma 1 L’art. 2097 del codice civile è sostituito dal seguente: Le parti stabiliscono le regole del contratto di lavoro. Comma 2 A tutte le persone fisiche, di cittadinanza italiana, è riconosciuto il diritto alla disponibilità di un minimo vitale, sulla base della dichiarazione annuale dei redditi. Comma 3 A tutte le persone fisiche laureate, di cittadinanza italiana, il datore di lavoro riconosce una preferenza in tutte assunzioni.

  21. Anonimo

    Le dinamiche occupazionali nelle flessibilità dei fattori della produzione, o anche dette concorrenze intra-fattoriali, sono dipendenti dalle ragioni di scambio delle economie relazionali in escalation funzionali al raggiungimento dei margini di profitto (profit-selling) . Pertanto compito dei policy-makers è quello di equilibrare il sistema dei pagamenti in determinazione dei profitti crescenti (profit-takers) in stato inverso rispetto alla remunerazione del lavoro: il salario.

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