Nei paesi avanzati le competenze economico-finanziarie dei cittadini non sono importanti solo per le scelte individuali, ma anche per quelle collettive. Perché per i politici è più difficile un uso strategico della politica fiscale. E l’Italia è un caso esemplare.
La cultura finanziaria aiuta i conti pubblici
Una vasta letteratura scientifica – recentemente ripresa dai media – ha mostrato come individui con buone competenze economico-finanziarie gestiscano meglio le proprie pensioni e i propri risparmi e investimenti, evitando così un eccessivo indebitamento personale. Ma le competenze economico-finanziarie non sono rilevanti solo per le scelte individuali, lo sono anche per quelle collettive dei paesi avanzati.
La figura 1 illustra l’andamento congiunto del saldo di bilancio pubblico e del grado di diffusione, aggregato per paese, delle competenze economico-finanziarie tra la popolazione (la fonte è IMD World Competitiveness Yearbook). I dati si riferiscono a 23 paesi Oecd, compresa l’Italia, osservati annualmente nel periodo 1999-2008.
Figura 1 – Saldo di bilancio pubblico e cultura finanziaria
Il saldo di bilancio pubblico sembra essere correlato positivamente con la cultura economico-finanziaria media della popolazione: paesi che presentano deficit maggiori sono anche caratterizzati da livelli di competenze economico-finanziarie inferiori. I meccanismi in grado di spiegare la correlazione possono essere molteplici. I due più importanti – e non mutuamente esclusivi – riguardano la selezione della classe politica e l’incentivo dei politici a usare strategicamente le tasse e la spesa pubblica per ottenere il consenso.
Il primo meccanismo è piuttosto semplice. In paesi con una maggiore cultura economico-finanziaria, i politici dovrebbero saper gestire meglio il bilancio pubblico perché selezionati da elettori mediamente più competenti. Il secondo meccanismo è, invece, più sofisticato. Nei paesi con una maggiore cultura economico-finanziaria, i politici avrebbero un minor grado di libertà nell’uso strategico della politica fiscale. Questo perché elettori mediamente più competenti sono anche mediamente meno manipolabili.
I danni della polarizzazione politica
In un recente lavoro abbiamo tentato di valutare la consistenza del secondo meccanismo, prendendo spunto da un argomento teorico piuttosto intuitivo: l’intensità con cui la politica fiscale viene utilizzata in modo strategico non dipende solo da quanto (dis)informati sono gli elettori, ma anche da quanto conflittuale è l’arena politica. La teoria suggerisce infatti che al crescere della distanza tra i programmi politici, crescano anche gli incentivi a vincere le elezioni poiché, in caso di sconfitta, i partiti all’opposizione dovranno subire politiche molto lontane dai loro ideali. L’asservimento della politica fiscale alla ricerca del consenso dovrebbe quindi crescere al crescere della conflittualità politica, ma la relazione dovrebbe attenuarsi nei contesti in cui la cultura economico-finanziaria degli elettori è più diffusa.
Per testare l’ipotesi, abbiamo utilizzato il campione descritto sopra, misurando la conflittualità politica con il grado di polarizzazione ideologica del governo in carica. L’intensità della manipolazione è stata approssimata depurando il saldo di bilancio pubblico dalle variabili economiche standard (debito, tasso di interesse, ciclo economico e così via). Una volta eliminato l’effetto delle determinanti “economiche”, tutto ciò che rimane è intuitivamente imputabile a determinanti “politiche”. La tabella 1 illustra l’impatto congiunto della polarizzazione politica e delle competenze economico-finanziarie sul saldo di bilancio pubblico depurato dagli effetti delle variabili economiche.
Tabella 1 – Polarizzazione politica e cultura finanziaria
La tabella mostra che, per un dato livello di cultura economico-finanziaria, nei contesti a elevata polarizzazione il saldo di bilancio pubblico è inferiore. E la relazione è meno intensa se la cultura finanziaria è mediamente alta. L’uso strategico della politica fiscale appare quindi ampio quando sussistono forti incentivi a manipolare (alta polarizzazione) e quando gli elettori sono più manipolabili perché hanno competenze economico-finanziarie limitate.
La cultura finanziaria ha dunque un impatto positivo sull’andamento delle finanze pubbliche. Nel periodo 1999-2008, tra i ventitré paesi, l’Italia figura al penultimo posto per cultura finanziaria (davanti solo al Portogallo) e la debolezza strutturale delle nostre finanze pubbliche è perfettamente in linea con il risultato. Come mostrato anche qui, i benefici dell’educazione finanziaria devono essere valorizzati tramite opportuni programmi pubblici. La novità è che, accanto agli effetti virtuosi sulle finanze “individuali”, la cultura economico-finanziaria è rilevante e benefica anche per le finanze pubbliche nonché per il funzionamento delle democrazie avanzate.
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Henri Schmit
Interessante e convincente il rapporto fra polarizzazione del dibattito sulle alternative fiscali e cultura finanziaria. Più significativo sarebbe il rapporto fra polarizzazione e appropriatezza/efficienza/convergenza delle politiche fiscali. Quest’ultima è relativamente facile a misurare, mentre la cultura finanziaria è un concetto equivoco: si deve intendere il livello di conoscenza degli strumenti finanziari, (bizzarrerie) fiscali e (trucchi) giuridici nella popolazione o la garanzia pubblica dell’uso corretto degli strumenti e dell’effettiva repressione degli abusi da parte degli operatori, o tutti i due insieme? L’Italia sarà pure arretrata nella diffusione delle conoscenze finanziarie (dato fornito dagli autori), ma lo è soprattutto nell’insufficiente garanzia del rispetto delle regole costitutive di tutti i meccanismi di finanza privata e pubblica. Bisogna infine tener conto di un ulteriore parametro: le modalità tecniche – non proprio equivalenti nei vari paesi – del diritto di voto incidono sulla capacità dei cittadini di esprimere il loro consenso/dissenso con gli autori delle politiche fiscali….