Dopo i dazi sulle importazioni dalla Cina, Trump va all’attacco del Nafta. La revisione del trattato danneggerà certamente i consumatori Usa, senza garantire una crescita dell’occupazione. Però il presidente guadagnerà consenso tra i suoi elettori.

Nuova “crociata” di Trump

Donald Trump continua la sua battaglia per riscrivere le condizioni di integrazione economica degli Stati Uniti con il resto del mondo. Dopo i dazi sulle importazioni dalla Cina, riprende in mano l’intero accordo di libero scambio del Nord America in vigore dal 1994, il North American Free Trade Agreement (Nafta). Il 27 agosto il presidente Usa ha dichiarato di volerne rivedere parti importanti, in accordo bilaterale con il Messico, e di voler sottoporre presto il nuovo accordo al Congresso, aprendo al Canada solo in un momento successivo.

Così facendo, attraverso le modalità originali e lo stile autoritario che ormai lo contraddistinguono, Trump ha confermato la sua volontà di perseguire due obiettivi. Il primo è ridefinire in senso restrittivo l’apertura economica degli Stati Uniti nei confronti dei paesi con condizioni del mercato del lavoro molto diverse per salario minimo e diritti dei lavoratori, in questo caso il Messico. Secondo Trump, infatti, è il libero scambio con queste nazioni ad aver causato la perdita di milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti (in realtà, secondo diverse stime, per oltre l’80 per cento la perdita dei posti di lavoro nel manifatturiero statunitense è dovuta alla maggior produttività del lavoro).

A metà degli anni Ottanta, il Nafta ha rappresentato una tappa importante nel corso della globalizzazione economica fondata sull’integrazione internazionale delle filiere produttive. Ha formalizzato la sinergia tra la tecnologia statunitense e la maquila messicana, dando avvio a un modello di divisione internazionale del lavoro che ha beneficiato tutti i paesi membri. Ha fruttato milioni di posti di lavoro in Messico, ma soprattutto milioni di utili alle imprese statunitensi che si avvalgono della conveniente manodopera delle maquilas.

Oggi Trump vuole aumentare il contenuto domestico della produzione nord-americana, nello spirito di America first, chiedendo che aumenti il contributo statunitense e che una soglia minima del 40 per cento della componentistica auto prodotta in Messico sia realizzata da lavoratori che ricevono un salario orario di almeno 16 dollari, quasi quattro volte il salario minimo messicano.

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L’obiettivo è ridurre gli incentivi alla delocalizzazione e, in ultima analisi, tagliare all’osso la dipendenza dalle filiere estere – messicane e asiatiche, soprattutto cinesi e giapponesi. In particolare, nel settore automobilistico, il più importante nelle relazioni Usa-Messico, il valore aggiunto domestico dovrebbe aumentare dal 62,5 al 75 per cento. Questo ridurrà ulteriormente gli scambi di tutto il Nord America con l’Asia, che in molti settori, soprattutto l’automotive, avvengono attraverso il Messico.

Il problema insito nella svolta è duplice. Da un lato, è difficile imporre il rispetto effettivo di migliori condizioni di lavoro nelle maquilas: erano già previste dal Nafta, ma non sono mai state realizzate. Inoltre, il maggior costo di produzione finirà certamente per gravare sul consumatore statunitense, mentre non è detto che aumentino i posti di lavoro negli Stati Uniti.

Fiducia nel presidente

Il secondo obiettivo di Trump è introdurre un maggior ruolo della politica nelle relazioni economiche internazionali, oggi regolate principalmente da trattati di libero scambio. La sua proposta di revisione dell’accordo ogni sei anni introduce un elemento nuovo, ovvero la possibilità che gli Stati Uniti, evidentemente il paese più potente del gruppo e quello che finora ne ha beneficiato di più, possa esercitare un potere di ricatto, minacciando di rivedere le (sole) condizioni che gli procurano meno vantaggi.

In tutto ciò, la reazione degli investitori registrata dal Nasdaq, salito oltre 8000, indica una fiducia forse eccessiva nell’azione dell’amministrazione Trump. È opinione condivisa, benché scarsamente fondata, tra i lavoratori e i sindacati che il Nafta sia all’origine del problema occupazionale negli Usa. In realtà, con prospettive incerte di aumento dei posti di lavoro in America e invece prospettive certe di crescita del prezzo delle auto, dell’elettronica e di molto altro, quindi con una probabile riduzione dei profitti, non si vede come la revisione proposta da Trump possa far bene all’economia americana (Jeffrey J. Schott del Peterson Institute for International Economy l’ha definita “esuberanza irrazionale”). Fa bene di sicuro all’immagine del suo presidente agli occhi dei gruppi più vulnerabili e più facilmente impressionabili, dai quali si aspetta grande consenso al prossimo appuntamento elettorale di novembre.

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