L’automazione sta già cambiando la natura del lavoro: elimina alcune mansioni e richiede nuove competenze, in un processo destinato ad accentuarsi. Investire in educazione potrebbe non bastare. Perciò la ricerca di nuove soluzioni va iniziata adesso.
Lavori o mansioni a rischio?
Secondo uno studio di Benedikt Frey e Michael Osborne, negli Stati Uniti il 47 per cento dei lavori è a rischio automazione. I due studiosi britannici esprimono la previsione assumendo che siano a rischio le occupazioni e non le singole mansioni esplicate nell’adempimento di una prestazione. Ciò induce a pensare che quel 47 per cento sia una sovrastima, in quanto anche molti lavori considerati in pericolo inglobano una quota di mansioni difficilmente sostituibili dalle macchine. Seguendo l’approccio delle singole mansioni, Melanie Arntz, Terry Gregory e Ulrich Zierahn forniscono una stima diversa, forse più realistica: in media il rischio automazione per 21 paesi Oecd sarebbe del 9 per cento (si veda anche lo studio McKinsey commentato di recente su lavoce.info).
Nessuno è in grado di prevederne esattamente dimensioni e tempi, ma l’automazione sta già cambiando la natura del lavoro. In pratica, elimina alcune mansioni, rende alcuni lavoratori più produttivi e altri obsoleti. Il processo cambia anche i lavori che non andranno persi, eliminando la necessità di alcune competenze e rendendone essenziali altre. Il peso dell’aggiustamento ricadrà soprattutto sui lavoratori poco qualificati, sia perché i loro lavori sono spesso facilmente automatizzabili sia perché avranno maggiore difficoltà ad acquisire nuove competenze.
La disoccupazione sarà un problema ancora più serio in futuro non tanto per la mancanza di lavoro, ma perché le competenze necessarie per le nuove occupazioni evolveranno molto rapidamente e il sistema educativo attuale faticherà a tenere il passo. La soluzione non può consistere però nel rinunciare all’innovazione, che porterà anche innumerevoli benefici alla società, mentre le economie dei paesi che resteranno indietro nello sviluppo delle industrie del futuro – robotica, genetica, big data, cibersicurezza – saranno destinate all’irrilevanza.
Come diffondere le competenze
Cosa fare dunque dei lavoratori le cui competenze siano rese obsolete dalle nuove tecnologie? Come possiamo fronteggiare le crescenti ineguaglianze sociali e facilitare l’acquisizione di nuove competenze?
L’intervento più spesso suggerito è diminuire il costo del lavoro. Temo che si tratti solo di una soluzione di breve periodo che, rallentando l’adozione delle macchine, potrebbe però darci il tempo di mettere in atto altre misure.
Una seconda strada è fornire ai futuri lavoratori le competenze necessarie per sfruttare nel modo migliore le nuove tecnologie. Per farlo è necessaria una riforma del sistema educativo che, tra le altre cose, aumenti i salari degli insegnanti, al fine di attrarre e trattenere nel mondo dell’istruzione persone qualificate. Senza la diffusione di queste competenze, il lodevole sforzo di incentivare gli investimenti funzionali alla trasformazione tecnologica (Impresa 4.0) avrà un effetto modesto. Nuove tecnologie e lavoratori competenti sono complementari.
Ma come fa il sistema educativo a sapere quali sono le competenze di cui il mercato ha bisogno? Collegando le richieste degli imprenditori con le istituzioni (ad esempio, gli istituti professionali) che dovranno fornirle. L’Italia dovrebbe inoltre imitare quei paesi europei che hanno riconosciuto nella conoscenza delle basi della programmazione (“coding”) una vera e propria forma di alfabetizzazione e l’hanno quindi integrata nel curriculum scolastico fin dalla scuola primaria.
Prevedere un reddito minimo
Intervenire sul costo del lavoro e investire in educazione può alleviare e rimandare il problema, ma potrebbe non bastare se la nostra capacità di rendere attraente il lavoro per gli imprenditori non terrà il passo con l’avvento di nuove macchine, sempre meno costose ed efficienti e se i lavori del futuro evolveranno troppo velocemente perché i lavoratori possano acquisire le nuove competenze.
La soluzione migliore è probabilmente un’imposta negativa sul reddito: un reddito minimo garantito che non sia un sussidio permanente (per non comportare un disincentivo al lavoro), ma vari con il reddito. Se ad esempio la soglia di esenzione dalle tasse sui redditi personali fosse 10 mila euro e si scegliesse una percentuale di integrazione del reddito mancante alla soglia del 50 per cento, una persona senza reddito riceverebbe 5 mila euro (il 50 per cento di 10 mila). Se poi lo stesso individuo l’anno successivo trovasse un lavoro e il suo reddito fosse di 5 mila euro, il sussidio si ridurrebbe a 2.500 euro (il 50 per cento di 10 mila meno 5 mila). Sotto la soglia dei 10 mila, ogni euro guadagnato lavorando farebbe aumentare il reddito totale di 1,50.
Anche se in altri paesi il dibattito su questi temi è certamente a uno stadio più avanzato, nessuna nazione ha ancora predisposto le politiche necessarie per fare fronte alla sfida della “nuova età delle macchine”. Mancando punti di riferimento a cui ispirarsi diventa ancora più urgente iniziare subito a discuterne.
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Leo
Sotto la soglia dei 10000 euro ogni euro guadagnato farebbe aumentare il reddito di 1,50 euro è una affermazione errata. Sotto quella soglia ogni euro guadagnato viene assoggettato di fatto ad una imposta del 50 per cento; per ogni euro guadagnato perderei 50 centesimi di sussidio potenziali.
bob
“nella conoscenza delle basi della programmazione (“coding”) una vera e propria forma di alfabetizzazione” . Due cose: lei parla di un Paese con tassi di analfabetismo ( non sapere leggere e scrivere) da paura. lei parla di un Paese fermo da 30 anni. Il gap come si colma?