Investire nel carbone è dannoso dal punto di vista ambientale, ma anche economicamente sbagliato. Lo dicono i risultati delle utility a basse emissioni. Ma va garantita una decarbonizzazione ordinata. Intanto, in Italia entra in vigore il capacity market.

Il mercato del carbone

Per anni il carbone è stato la fonte predominante per la produzione di energia elettrica in molti paesi. Oggi in Europa rischia di essere ben presto messo all’angolo, non solo per ragioni ambientali, ma anche economiche. Da un lato, infatti, è la fonte più inquinante di energia elettrica (emette circa il doppio di gas serra per kWh rispetto al gas naturale) e la Ue, nel suo piano di decarbonizzazione, chiede ai paesi membri di abbandonarlo entro il 2030. Dall’altro, secondo il report di Carbon Tracker, l’80 per cento delle centrali a carbone europee ha un reddito operativo negativo, con perdite per le utility che potrebbero ammontare a 6,6 miliardi di euro solo nel 2019.

Le principali ragioni sono il calo del costo del gas e la crescente competitività delle rinnovabili, nonché l’aumento del prezzo dei certificati di emissione, quasi triplicato in tre anni (figura 1), per effetto della ripresa economica e di un meccanismo, chiamato Market Stability Reserve, che ne ha ridotto il surplus d’offerta.

Figura 1 – Prezzo dei permessi di emissione (€/tonnellata di CO2)

Fonte: Business Insider

Si salvano dall’“emorragia dei profitti” solo alcune centrali ad alta efficienza in Germania e Olanda. A queste si aggiunge la maggior parte di quelle ceche, italiane, polacche e slovene, che beneficiano dell’elevato prezzo dell’energia elettrica nei tre paesi, il più alto d’Europa. In più la Polonia, la cui economia dipende fortemente dal carbone, sussidia generosamente le sue centrali. Chi paga il conto più salato è invece la Germania, dove si stima che la sola utility Rwe potrebbe perdere 975 milioni di euro di Ebitda nel 2019.

Figura 2 – Date annunciate di fuoriuscita dal carbone nei vari paesi Ue

Quale soluzione?

Tredici paesi europei hanno già annunciato una data per l’abbandono del carbone nella produzione di energia elettrica (figura 2). Alcuni stanno anzi pensando di chiudere le proprie centrali prima del previsto, come il Portogallo, che ricava dal carbone circa il 12 per cento della propria elettricità e ha pianificato di anticiparne l’uscita già entro il 2023. Per altri, come Germania e Polonia, la scelta è ben più dolorosa, perché non solo dal carbone ricavano rispettivamente il 35 e l’80 per cento della propria elettricità, ma hanno anche un indotto economico legato ai bacini carboniferi. Dato il suo ampio spazio fiscale, Berlino ha previsto di investire 40 miliardi da qui al 2038 nella riconversione economica delle regioni carbonifere.

Leggi anche:  Il greenwashing può costare caro alle imprese

I governi che oggi decidono di continuare a sostenere le centrali a carbone rischiano così di trovarsi domani di fronte alla scelta tra assorbire le perdite (appesantendo il bilancio pubblico) o lasciarle in capo alle utility, con effetti negativi sul loro valore azionario. Ha fatto scuola, per esempio, il caso della centrale Ostroleka C in Polonia, la cui costruzione è stata bloccata su ricorso di un piccolo azionista della Enea SA, una delle società che partecipavano al progetto: il tribunale ha infatti riconosciuto che la realizzazione della nuova centrale sarebbe stata antieconomica e, se portata a termine, avrebbe eroso il capitale dell’azienda.

Si tratta di un problema finanziario di cui i mercati iniziano ad accorgersi. Negli ultimi anni le utility a basse emissioni di carbonio hanno avuto risultati migliori delle omologhe con alte emissioni (figura 3), grazie anche alla maggiore profittabilità, che con l’attuale valore del prezzo delle emissioni è destinata ad aumentare.

Figura 3 Rendimento delle utility dell’Eurostoxx 600

Fonte: Banca d’Italia

Note: LC = low-carbon, HC = high-carbon, LMH = portafoglio long sulle utility low-carbon e short su quelle high-carbon

Come uscire dal carbone in modo ordinato? Carbon Tracker propone una soluzione: sfruttare il minor costo del capitale per lo stato, rispetto alle utility, per finanziare la riconversione delle centrali a carbone in energia pulita, attraverso un meccanismo di cartolarizzazione già utilizzato negli Usa. Una società veicolo (Spv) a garanzia pubblica emette i bond con cui acquista la centrale a carbone e la chiude. L’utility viene obbligata a reinvestire il ricavato in energia rinnovabile. Sfruttando il differenziale tra il costo del debito dell’Spv e il costo medio del capitale dell’utility, nonché il diverso rendimento dell’investimento in rinnovabili rispetto all’esistente centrale a carbone, si genera una soluzione vantaggiosa per tutti.

La via italiana: il capacity market

In Italia il carbone produce circa l’11 per cento dell’energia elettrica e il suo abbandono è previsto per il 2025. Fortunatamente, la maggior parte delle centrali sono vecchie e già ammortizzate. Senza nuovi investimenti in capacità programmabile o in accumuli si pone però un problema di adeguatezza del sistema. Il mercato elettrico, infatti, è soggetto a un vincolo tecnico per cui l’energia immessa e prelevata dalla rete deve pressoché combaciare in ogni istante. Perciò è necessaria capacità di riserva in grado di attivarsi rapidamente in caso di forti scostamenti della domanda dall’offerta, per garantire la stabilità della rete ed evitare disservizi come i blackout. Negli ultimi anni, con la dismissione di varie centrali a gas o carbone, il margine di riserva si è ridotto notevolmente, soprattutto al Nord e nelle Isole. Allo stesso tempo la Strategia energetica nazionale prevede che la capacità rinnovabile non programmabile (eolico e fotovoltaico) passerà dagli attuali 30 GW a 70,3 GW nel 2030.

Leggi anche:  Autoconsumo diffuso: arrivano le regole operative del Gse

Per gestire in sicurezza l’abbandono del carbone è stato recentemente istituito il capacity market. Presente già in altri paesi europei, consiste in aste competitive periodiche con contratti d’opzione di lungo periodo. Il gestore della rete, Terna, remunera la capacità che contribuisce all’adeguatezza del sistema con un premio annuo in proporzione ai megawatt resi disponibili; la controparte ha l’obbligo di fornire la capacità sui mercati dell’energia e dei servizi ancillari quando richiesto e deve restituire a Terna la differenza tra il prezzo di mercato dell’elettricità e lo strike price previsto dal contratto. L’Italia è stato il primo paese a introdurre i limiti emissivi previsti dal Clean Energy Package, escludendo così le centrali a carbone dalle aste del capacity market.

L’obiettivo del capacity market è duplice. Da un lato, ridurre il potere di mercato dei generatori nelle ore di picco della domanda, calmierando il prezzo grazie allo strike price. Dall’altro, permettere di aumentare la capacità rinnovabile intermittente senza rischi per l’adeguatezza della rete (proprio in questi giorni ripartono gli investimenti in nuova capacità rinnovabile con le aste competitive previste dal decreto Fer).

Il capacity market avrà un costo stimato dal ministero dello Sviluppo economico in 1,75 miliardi all’anno, contro minori spese per 3,35 miliardi. Insomma, gli strumenti per un futuro prossimo senza il carbone ci sono, ma è necessaria un’adeguata lungimiranza nella politica industriale, sperando che gli accumuli di energia e la gestione intelligente della domanda per regolarla alle variazioni dell’offerta (demand-response) assumano un ruolo più importante.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Nagorno-Karabakh: un intreccio complicato per l'Europa