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Ilva: è possibile una fabbrica sostenibile?

Il caso emblematico del dilemma tra tutela dell’ambiente e crescita economica è l’ex-Ilva di Taranto. I numeri su morti e malattie legate alle emissioni dell’impianto sono drammatici. Si può continuare a produrre, ma servono investimenti e tecnologie.

Tre soluzioni per un dilemma

È a partire dagli anni Ottanta che il dilemma tra conservazione dell’ambiente e crescita economica comincia a porsi in tutta la sua drammaticità. Nel 1983 fu creata la World Commission on Environment and Development, nota per aver pubblicato, nel 1987, il rapporto Our common future. Qualche anno dopo (1992), con l’Earth Summit di Rio de Janeiro, la UN Conference on Environment and Development dà ufficialmente inizio a una stagione di maggiore attenzione alle relazioni tra ambiente e sviluppo.

Ci sono tre possibilità di risolvere il dilemma: si può ritenere che crescita e ambiente siano incompatibili e quindi privilegiare la prima ovvero il secondo. In alternativa, si può cercare di percorrere la stretta via di uno sviluppo compatibile con l’ambiente. La prima è una visione “industrialista”, da “partito del Pil”, mentre la seconda sposa la decrescita (felice? Chissà). La terza via, quella che può essere definita dello sviluppo sostenibile, persegue il disaccoppiamento tra crescita economica e protezione dell’ambiente.

Se sul piano disciplinare gli economisti dell’ambiente si collocano quasi invariabilmente all’interno della terza visione, sul piano politico-sociale le cose sono meno nitide. Ma se declinate in salsa politica nazionale, le tre visioni si chiamano grossomodo Lega, Movimento 5 stelle, centrosinistra.

La sinistra, in particolare, si è trovata in crescente difficoltà nell’affrontare il dilemma: privilegiare l’occupazione (cioè lo sviluppo economico) anche con danni ambientali rilevanti? Oppure la salvaguardia dell’ambiente, anche se porta alla cessazione di attività produttive?

Il dramma di Taranto

Il caso emblematico – naturalmente non l’unico – è l’ex-Ilva di Taranto.

L’impianto ha una lunga, quanto tormentata, storia. Inaugurato il 10 aprile 1965 dall’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, il polo nacque con molte aspettative di rilancio di una zona in grande difficoltà come era Taranto all’inizio degli anni Sessanta. E fu ragione di speranza e fonte di occupazione per migliaia di famiglie. Una centralità sul territorio, accompagnata dall’intera società in tutte le sue forme. Basti ricordare un evento eccezionale: il celebre discorso di Papa Paolo VI, in visita pastorale dentro la fabbrica nel Natale del 1968.

Dopo una privatizzazione non felicissima da parte del gruppo Riva, l’acciaieria viene oggi gestita (non acquisita) dal gruppo ArcelorMittal, che conta in Italia oltre 10 mila dipendenti, di cui 8.277 nel sito produttivo di Taranto.

La gestione dell’acciaieria determina (o ha determinato sin qui) due principali effetti negativi. Il primo, più immediato e tragico, relativo alla sicurezza sul lavoro, cui da diversi anni si è unito quello, più subdolo, relativo alla dimensione ambientale. Sul tema della sicurezza sul lavoro, nelle statistiche internazionali l’Italia si segnala per le sue 1.218 denunce di infortunio mortale nel 2018 (in crescita del 6,1 per cento rispetto al 2017). Tuttavia, la crisi che desta particolare attenzione è quella relativa all’inquinamento e al suo enorme impatto sulla salute della popolazione.

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L’elenco dei veleni oggi presenti a Taranto e nei quartieri più esposti è davvero impressionante, così come lo è il numero delle morti “riconducibili” alle emissioni dell’acciaieria. Già nel 2012, su iniziativa del giudice Patrizia Todisco e dopo molteplici perizie scientifiche fu stabilito che vi fossero ben 164 morti “riconducibili” alle emissioni dell’acciaieria. La concentrazione delle sostanze tossiche è più alta nei quartieri più vicini alle ciminiere: lì la mortalità è quadrupla e i ricoveri per malattie cardiache tripli rispetto al resto della città. La cronistoria tragica degli interventi, dei mancati interventi, delle critiche, delle denunce è infinita.

Che l’impianto di Taranto inquini non stupisce nessuno e non dovrebbe rappresentare una novità. La stessa ArcelorMittal autocertifica emissioni annuali di oltre 2 mila tonnellate di polveri, 8.800 tonnellate di idrocarburi policiclici aromatici, 15 tonnellate di benzene e svariate tonnellate di altri inquinanti, nel pieno rispetto dei limiti di legge. Il problema è che periti chimici ed epidemiologici, nominati in fasi diverse dalla magistratura, hanno appurato senza ombra di dubbio che varie norme anti-inquinamento non sono rispettate e che questo ha prodotto gravi danni alla salute degli abitanti che vivono nei quartieri a ridosso del siderurgico.

C’è di più: ai tempi dell’estromissione dei Riva dalla gestione dell’impianto, la magistratura aveva assodato che tra il 1995 e il 2005 vi erano stati 386 morti a causa alle emissioni delle acciaierie, accompagnate, nello stesso periodo, da centinaia di ricoveri ospedalieri per gravi malattie legate dall’esposizione ai numerosi inquinanti emessi in atmosfera dall’impianto: 237 casi di tumori maligni, 247 infarti, 937 ricoveri per malattie respiratorie, 17 casi di tumori infantili.

I periti allora nominati della procura di Taranto calcolarono un totale di 11.550 morti in sette anni (in media 1.650 l’anno), legate soprattutto a cause cardiovascolari e respiratorie, e 26.999 ricoveri, per la maggior parte per cause cardiache, respiratorie e cerebrovascolari. Le concentrazioni di agenti inquinanti e la proporzione di decessi e malati è altissima nei quartieri limitrofi alla zona industriale. Secondo i dati ufficiali del rapporto «Sentieri» dell’Istituto superiore di sanità, nel 2003-2009 Taranto registra (rispetto alla media della Puglia) un +14 per cento di mortalità per gli uomini e un +8 per cento per le donne. La mortalità nel primo anno di vita dei bambini è più alta del 20 per cento. Forti differenze ci sono anche su tumori e malattie circolatorie, con addirittura un +211 per cento rispetto alla media pugliese per i mesoteliomi della pleura.

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L’aggiornamento dell’analisi della mortalità relativo al periodo 2006-2013 evidenzia, tra i residenti, eccessi di rischio, della mortalità generale e per grandi gruppi, rispetto a quanto si osserva nel media di riferimento. Nella popolazione residente (uomini e donne) risulta aumentato anche il rischio di decesso per le patologie considerate a priori come associate all’esposizione industriale specifica del sito, in particolare per il tumore del polmone, il mesotelioma e le malattie dell’apparato respiratorio, soprattutto per quelle acute tra gli uomini e quelle croniche tra le donne. Per il tumore del polmone e il mesotelioma anche lo studio dell’incidenza conferma l’eccesso osservato in quello della mortalità e mostra aumenti di incidenza per numerose sedi tumorali (uomini e donne).

Il futuro dell’impianto

In queste giornate convulse, quello che appare chiaro sul futuro dell’azienda è che politica e sindacati vogliono il proseguimento delle attività. Ma è altrettanto necessario partire con un massiccio programma di investimenti teso a sostituire progressivamente e rapidamente quelle parti di impianto particolarmente inquinanti. Ed è necessario ragionare sulla delocalizzazione di interi quartieri che semplicemente non dovevano essere dove sono oggi. Nella Taranto pre-siderurgica il quartiere Tamburi esisteva già, ma con la nascita dell’Italsider è iniziata la crescita esponenziale del costruito che non sembra volersi fermare.

Nel frattempo, la ricerca tecnologica relativa alla produzione di acciaio procede e ci sono già esperimenti su impianti che usano meno carbone e in modo più efficiente. Il carbone è un fattore fondamentale nell’industria dell’acciaio poiché da lì deriva, attraverso un processo chimico-fisico, il carbon coke utilizzato come combustibile per altoforni.

Bisogna ripartire da questo punto e attivare gli investimenti, sapendo che sarà un processo lungo e molto costoso. Ne va dell’occupazione diretta e indiretta di moltissime persone e del futuro di un’industria strategica per il paese. Solo in questo modo si riuscirà, qui e altrove, a coniugare sviluppo, occupazione e ambiente.|

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10 commenti

  1. Luciano Pontiroli

    Nell’articolo non trovo riferimento alcuno all’Autorizzazione Integrata Ambientale, rinnovata – se ben ricordo – tra il 2012 e il 2013, che introdusse prescrizioni molto severe, tali da rendere possibile l’obiettivo della sostenibilità. Considerato che la gestione Acelor Mittal è stata preceduta da una lunga gestione commissariale e che questa ha conseguito dalla famiglia Riva un rilevante risarcimento, quali sono le cause della perdurante pericolosità dell’impresa, tale da condurre il Tribunale di Taranto ad imporre all’attuale gestore la chiusura immediata di un altoforno e, in prospettiva, condurre alla chiusura dell’area a caldo?

    • Paolo Ottomano

      “quali sono le cause della perdurante pericolosità dell’impresa”? Se non bastano i morti (in fabbrica e fuori), i malati, i limiti imposti per le emissioni costantemente sforati, che altro è necessario per rimettere tutto in discussione? Una bomba atomica?

  2. Francesco A.

    Lavoro in società che produce impianti per Accaiaieria.
    LA riconversione di impianti a ciclo integrato con uso di coke (Altoforni) con altri meno inquinanti che utilizzano gas naturale (Impianti di riduzione diretta) è già partita da diversi anni in Europa e nel mondo.
    Addirittura in futuro tali impianti potranno utilizzare l’ Idrogeno come riducente in luogo del gas naturale riducendo fortemente l’ impatto del carbone sull ambiente e raggiungendo i migliori standard di emissione internazionali.
    Le due tematiche che io vedo importanti sono:
    1) La sovraprodduzione mondiale di Acciaio
    2) La tematica occupazionale. LA riduzione del personale è necessaria ( Acciaierie in Italia che hanno produzione simile hanno un costo del personale pari al 30% di quello di Taranato!)
    Per risolvere i due temi sopra non vedo altra strada che una nazionalizzazione temporanea per la riconversione degli impianti e del personale e quando si è raggiunto un costo operativo industriale competitivo la vendita a privati.

  3. Roberto Bellei

    Voi che avete studiato a fondo la materia mi potete spiegare una cosa? Come fanno in Austria e Germania a produrre acciaio senza inquinare a chiudendo i bilanci in utile?

  4. Interessante, utile. Ma la conclusione sconcerta perché ci dice che “bisogna ripartire da questo punto e attivare gli investimenti, sapendo che sarà un processo lungo e molto costoso”. Ora questo processo “molto costoso” chi lo paga? In particolare chi lo paga nell’attuale contesto del mercato dell’acciaio nel mondo. Questo vorremmo sapere. E’ ragionevole che sia il proprietario ArcelorMittal? Le aziende che escono dal mercato perché non è più conveniente produrre fanno parte di un sistema di mercato appunto. Si può impedirlo con scartoffie e tribunali? Si può costringere un’azienda che lo vuol fare a NON chiudere? Si può finanziarla con soldi pubblici? Ha senso? Mah. Su questo vorrei il parere dei collaboratori di LaVoce.info…

  5. Federico Leva

    Investimenti, “delocalizzazione di interi quartieri che semplicemente non dovevano essere dove sono oggi”, ecc. Tutto giusto. Ma davvero è piú conveniente spostare interi quartieri, reinventare da zero una fabbrica e curare decine di migliaia di malati che non spostare la fabbrica?

  6. Henri Schmit

    Non ci sono tre opzioni ma una sola, la terza. E non è un rebus per economisti, nemmeno una scelta solo imprenditoriale, ma una decisione pubblica, da prendere dopo attenta valutazione e dibattito aperto dall’autorità pubblica. Dagli anni 80 l’ambiente e la competitività delle aziende (anche siderurgiche) in un mercato comune (!) sono criteri supremi condivisi. L’Arbed lussemburghese chiude un’acciaieria da 6 mio t e trasferisce tutto in un impianto nuovo vicino al mare. Lo stato sostiene 23.000 che perdono il lavoro, impone una sovrattassa che rimane per anni. Nel 1981 all’università ho fatto uno studio sui fattori di competitività della siderurgia: non più vicinanza alle miniere e ai mercati dei prodotti, ma tecnologia, infrastrutture (Ferrovie, porto), costo dell’energia (siamo appena all’inizio della crisi del petrolio), lavoro e limiti ambientali. Contro il dumping dei paesi del terzo mondo ci sono già allora i dazi. Il governo socialista francese lascia fallire Creusot-Loire (nel 1986 circa). Che cosa ha fatto il governo italiano negli ultimi 30 anni? Alitalia, Mosè, ILVA, le storie si assomigliano. Chi è responsabile? Chi prende le decisioni? Chi dice la verità? Chi s’interessa ai fattori che veramente contano? E c’è chi ha faccia tosta per domandare a chi tocca pagare il conto! Riva in galera per gli impianti vetusti e le frode ambientali e Mittal pagherà la ristrutturazione impianti nuovi su un sito nuovo? siamo seri? Pagherà colui che è responsabile di tutto ciò!

  7. Henri Schmit

    Conclusione costruttiva: l’ilva è un impianto gravemente inquinante che rovina TA, apparentemente vetusto e non competitivo. ArcelorMittal non è un imprenditore ma un predatore. Bisogna trasformare l’esistente in un’attività eco-compatibile e competitiva. Non lo farà Mittal, una scelta sbagliata, senza prospettiva. In Italia ci sono fior di imprenditori dell’acciaio: Marcegaglia Arredi Amenduni Rocca e Riva; ci sono forse pure clienti europei dell’ilva? Solo loro sono in grado di giudicare che cos’è fattibile tecnicamente e sostenibile economicamente. Lo Stato non ha le competenze per gestire tale impresa. Il suo primo compito è la tutela della salute; poi deve definire le condizioni ambientali e urbanistiche, individuare il sito dove l’impresa può operare osservando gli standard ambientali più esigenti. Non bisogna seguire l’ideologia pseudo-liberale che vieta l’investimento pubblico necessario per realizzare la trasformazione concordata con soci imprenditoriali interessati che lo faranno solo con una prospettiva di guadagno e senza assumere il rischio penale creato da altri. Gli errori dei Riva e la rinuncia dei Marcegaglia è un fallimento dello Stato! Ora bisogna decidere dove con chi e con quanti soldi pubblici in aggiunta a quelli privati rilanciare guardando la realtà in faccia e facendo quanto serve in un’ottica di lungo termine con soci affidabili. Se non è possibile, non bisogna mantenere artificialmente 10k occupati, meglio chiudere rapidamente e bonificare l’area!

  8. Roberto Bellei

    Avrei gradito una risposta alla mia domanda dagli autori dell’articolo. Grazie

  9. Giulio Morossi

    Diamo sempre per scontati i danni alla salute dell’impianto siderurgico. Per difetto di competenza nessuno legge fra le righe l’incoerenza dei dati epidemiologici riportati, a partire dalla mortalità che nell’articolo oscilla fra 386 vittime in dieci anni e 11.550 in sette anni. Solo questa variabilità dovrebbe mettere in guardia sull’attendibilità dei numeri alla base della denuncia ambientale.

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