Un documento della Commissione europea apre la prima fase di consultazione su “un equo salario minimo”. Non significa l’introduzione di una stessa misura in tutti i paesi Ue. Permetterà però di discutere di riduzione di povertà e disuguaglianze salariali.
Il documento della Commissione
Il 14 gennaio la Commissione europea ha pubblicato un documento che apre la prima fase della consultazione su “un equo salario minimo”. È arrivata dunque l’ora di un salario minimo europeo come alcuni partiti anche in Italia vorrebbero? No. Il documento è il primo passo di un processo più lungo che, però, fin dalle prime righe mette in chiaro cosa la Commissione non farà: non introdurrà un salario minimo uguale in tutti paesi; non interverrà nel processo decisionale nazionale. E, infine, la Commissione non imporrà la definizione di un salario minimo per legge in quei paesi dove i minimi sono stabiliti nei contratti collettivi (quindi, in teoria, l’Italia ne è fuori).
Che farà la Commissione quindi? Sono tre gli obiettivi messi in evidenza nel documento sottoposto a consultazione. Il primo è quello di assicurare che i salari minimi siano “adeguati” in tutti i paesi europei. Definire qual è il livello adeguato di un salario minimo non è un esercizio semplice. E non è nemmeno un esercizio statistico, ma una scelta sommamente politica.
Nel suo documento la Commissione non prende una posizione precisa, ma fa riferimento al concetto di “living wage”, cioè un salario che permetta di vivere, che viene calcolato sulla base di un paniere di beni e servizi che vengono considerati essenziali per vivere degnamente (quindi non solo per non essere poveri). La Commissione, poi, fa riferimento alla soglia di povertà, cioè il 60 per cento del reddito familiare mediano disponibile. Oppure ai salari minimi misurati in parità di potere d’acquisto. Per la maggior parte dei paesi europei si tratterebbe di un aumento molto sostanziale del salario minimo attualmente in vigore.
La Commissione, poi, menziona la questione della copertura dei minimi salariali. A differenza di quanto ci si poteva aspettare dai discorsi della presidente Ursula von der Leyen, nel documento non c’è un riferimento esplicito al fatto che i salari minimi debbano essere applicati a tutti i lavoratori. La clausola sarebbe stata inaccettabile per i paesi nordici, dove una piccola fetta di lavoratori è esclusa dalla contrattazione collettiva perché non iscritta a un sindacato: sono le stesse organizzazioni sindacali che vogliono lasciarla esclusa, proprio per dare gli incentivi necessari a sindacalizzarsi ed evitare problemi di free-riding, cioè beneficiare della copertura sindacale senza pagarne i costi. Sulla questione della copertura, quindi, la Commissione resta relativamente vaga, richiamando sostanzialmente solo il problema, molto serio, del non rispetto dei minimi salariali.
La Commissione affronta poi le modalità con cui i salari minimi sono fissati, esprimendo un appoggio esplicito al coinvolgimento delle parti sociali e all’uso di indicatori chiari e definiti per evitare un’eccessiva politicizzazione (come per esempio negli Usa, dove il salario minimo è definito dal Congresso ed è strettamente legato alla maggioranza del momento).
Ora si apre il dibattito
Il documento della Commissione è una bozza per il dibattito che identifica bene le questioni da dirimere, ma che lascia le porte aperte alla discussione. I sindacati europei hanno lamentato la mancanza di dettaglio, ma in realtà la Commissione, prima dei dettagli, rivolge alle parti sociali una domanda di fondo: è utile che l’Unione europea intervenga sul tema? E la risposta non sarà scontata. È molto probabile immaginare che le parti datoriali diranno “no, grazie”. Ma la Confederazione europea dei sindacati non sarà in grado di esprimere un “sì” convinto, vista l’opposizione feroce dei sindacati nordici. In passato erano spalleggiati da quelli italiani, ora meno esposti sul tema nonostante rimangano fermamente contrari a un salario minimo per legge in Italia.
L’esito, quindi, non è scontato. Comunque vada, il documento marca un cambio di rotta significativo nelle priorità di Bruxelles (da “moderazione salariale” si è passati a parlare di “salari equi”) ed è l’occasione per riflettere su come meglio raggiungere gli obiettivi di riduzione della povertà e delle disuguaglianze salariali. Il salario minimo può essere un elemento della risposta in alcuni paesi. Non in altri. E comunque non l’unico. La speranza è che non diventi il solo elemento su cui cristallizzare il dibattito.
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Fabrizio Fabi
Questa idea del “salario minimo”, oltretutto diversificato per paese, sembra davvero una perdita di tempo, una roba per creare nuova burocrazia, oltretutto articolata per paese; accentuando il maggior problema della attuale “Unione” europea. Investimenti produttivi, ci vogliono; progetti europei di sviluppo ! Inoltre, un salario minimo unico per ogni paese, anziché per sub-area territoriale, creerebbe ulteriori disincentivi all’investimento nelle aree sottosviluppate. Vedi l’esperienza negativa, in Italia, dell’aboliziaone delle “gabbie salariali”, negli anni Sessanta, che ha penalizzato il Sud favorendo ivi l’economia in nero.
GIOVANNI MIGALI
PERSONALMENTE IL RDC LO PAROGONO COME L’IDEA REALIZZATA DA FANFANI :CASE POPOLARI QUINDI IDEE DA BENEDIRE CON ANNI E SALUTE A CHI DEDICA LA POLITICA AL BENESSERE DEL POPOLO SOVRANO POICHè QUESTO è E RESTERà IL LAVORO DEI POLITICI ,NOOOO AL CAMPIONATO MEDIATICO IO FACCIO QUESTO E TU NON FAI NIENTE QUINDI ITALIANI PRIMA DI OMNIA RES CORDIALITà P.S LA VITA è BELLA