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Anche l’inflazione risente del coronavirus

Elaborare statistiche in tempo di pandemia è molto complesso. Per esempio, l’indice dei prezzi al consumo non riesce a tener conto di tutti gli improvvisi cambiamenti nei consumi registrati nei mesi di lockdown. E i salari possono subirne le conseguenze.

Una variabile chiave per i salari

Una variabile chiave nelle difficili discussioni sui rinnovi contrattuali (in altri paesi, sull’aumento del salario minimo legale) è l’indice di inflazione. Secondo le stime Istat, a ottobre l’indice dei prezzi al consumo resta negativo (-0,3 per cento rispetto allo stesso mese del 2019) anche se in lenta risalita. In base a questi dati non ci sarebbero margini per chiedere aumenti legati al costo della vita, almeno se si guarda all’ultimo periodo.

Tuttavia, il calcolo del tasso di inflazione, così come altri indicatori, ha risentito molto del Covid-19 (si vedano anche i lavori sul tema della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale). Innanzitutto, per alcuni mesi e alcuni beni, la pandemia ha bloccato la raccolta dati sul terreno, obbligando gli uffici di statistica a ricorrere a imputazioni statistiche con un conseguente aumento del margine di errore. Inoltre, la composizione del paniere di beni e i relativi pesi che sono usati nel calcolo del tasso di inflazione non riflettono necessariamente i beni o servizi effettivamente consumati nei mesi di pandemia e la loro importanza nel bilancio familiare. Per fare un esempio, durante il lockdown, il consumo di benzina, auto, spettacoli, ristoranti è stato nullo o quasi. Anche con la ripresa, il consumo di questi beni e servizi resta inferiore agli anni scorsi. In compenso, la spesa per alimentari o la cura della casa durante i mesi di chiusura è stata probabilmente più alta del solito. Inoltre, i pesi usati nel calcolo considerano anche il ruolo di diversi tipi di punti vendita, un altro elemento che è cambiato durante i mesi di lockdown. Per esempio, è probabile che nelle zone non urbane, i consumatori siano stati obbligati a fare acquisti nel punto vendita più vicino, non necessariamente quello abituale o quello più conveniente. Il commercio online, infine, ha visto una crescita improvvisa e significativa.

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Le stime “alternative”

Nonostante alcuni correttivi proposti da Eurostat, il calcolo dell’indice di inflazione non riesce a riflettere pienamente questi cambiamenti improvvisi e radicali. Può sembrare una questione meramente tecnica, ma in realtà il calcolo dell’indice dei prezzi al consumo ha ripercussioni dirette e concrete sui lavoratori e le loro famiglie: secondo il Patto per la fabbrica, il trattamento economico minimo dei contratti collettivi nazionali di lavoro è legato all’andamento di quell’indice, depurato dalla dinamica dei beni energetici importati. Inoltre, la differenza tra il dato ufficiale e l’“inflazione percepita” può avere un impatto sul comportamento economico dei consumatori e, probabilmente, anche sulla coesione sociale e sulla fiducia dei cittadini.

In Francia, l’Insee – l’equivalente del nostro Istat – ha calcolato indici di inflazione alternativi, tenendo conto della variazione del tipo di beni e servizi effettivamente consumati negli ultimi mesi. Le differenze sono importanti, soprattutto se si considera che in Francia il salario minimo legale è indicizzato all’inflazione. Se si prendono i numeri di aprile (quelli in cui la differenza è più grande), lo scarto tra la stima ufficiale e quella alternativa comporterebbe una variazione di circa 180 euro annui per i lavoratori pagati al salario minimo.

In Italia, l’Istat non ha calcolato indici alternativi, ma nei bollettini mensili si trovano numeri che permettono comunque di valutare il potenziale scarto: l’indice generale dei prezzi al consumo a ottobre 2020 rispetto all’ottobre 2019 è stato negativo, -0,3. Al netto degli energetici, crollati ai minimi storici, invece, è salito al +0,5 per cento. Ma se si guarda solo l’indice dei beni alimentari, di cura della casa e della persona, il valore era del +1,4 per cento: una differenza sostanziale.

Significa che l’indice di inflazione è sbagliato? No, è solo un esempio (ne avevamo già parlato per il tasso di disoccupazione) di come produrre statistiche in tempo di pandemia sia ancora più complesso del solito. In questo caso, però, le conseguenze possono essere più concrete, visto che all’inflazione sono legati i salari.

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Legare le politiche pubbliche o contrattuali a indicatori statistici ha sempre pro e contro (si veda la discussione sui criteri di Maastricht o sui parametri rivisti del Fiscal Compact). In tempi di pandemia, con dati più difficili da produrre, la questione va considerata ancora più attentamente. Si può migliorare il calcolo dell’indice dei prezzi al consumo? Eurostat e gli uffici nazionali di statistica conducono in continuazione valutazioni di qualità delle statistiche che producono, e altrettanto fa la comunità scientifica. Tuttavia, tutto ciò richiede un lavoro e un confronto lunghi, astraendo dalla eventuale convenienza del momento.

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  1. Savino

    I giovani e le donne, cioè chi sfama i figli, già vivevano di lavoretti ora sono crocifissi in casa. Gli anziani prendono anche 2000-3000 euro di media di pensione, escono tutti i giorni di casa, infrangendo le regole dateci con la pandemia, e comprano 4 mele la volta o oggetti di poco valore. Io mi stupirei se l’inflazione lievitasse e se non fosse tutto bloccato.

  2. Roberto Coiutti

    Il calcolo dell’inflazione sarà difficile anche per i mesi avvenire, con o senza futuri lockdown, perché c’è l’effetto smart working. Infatti da marzo ho ridotto drasticamente gli acquisti nella città dove lavoro ed aumentati nel paese dove risiedo, oppure gli unici acquisti di vestiario effettuato sono stati per vestiario informale o presso la grande distribuzione organizzata perché un conto è fare il funzionario e riceve l’utenza, un’altra cosa stare in casa davanti al computer e telefono. Per non parlare delle spese ai distributori automatici di cibi e bevande praticamente azzerati.
    E nel frattempo sto pensando di rinnovare la casa ed il mobilio.

  3. Enrico D'Elia

    Non c’è dubbio che la variazione della SPESA dei consumatori dipende sia dalla variazione dei prezzi che da quella del paniere di beni e servizi acquistati. Sia prezzi che paniere cambiano in molte occasioni: durante una pandemia con lockdown accadono le sose spiegate benissino nell’articolo; ma anche durante un torneo di calcio internazionale o un’olimpiade aumenta molto il consumo di tv, patatine, birra e simili, mentre cala quello di spettacoli al cinema. Tuttavia, un indice calcolato tenendo conto sia della variazione dei prezzi che delle quantità è un indice della SPESA e non dei prezzi, come è scritto correttamente anche nelle norme che regolano il calcolo dell’indice armonizzato europeo. Come in qualsiasi esercizio di analisi shift and share, se si vuole misurare la pura variazione dei prezzi si deve necessariamente mantenere costante la composizione dell’aggregato. Un indice “alternativo” come quello calcolato in Francia misura forse l’inflazione “percepita”, ma non quella reale (ossia calcolata in base alle sole variazioni dei prezzi).

  4. Emanuele Paris

    non mi sono mai fidato molto della statistica, ma certamente è l’unico strumento che abbiamo su cui basare le nostre scelte e le nostre decisioni. Certamente in una situazione di emerganza viene difficile costruire dati solidi. Per quanto riguarda l’inflazione poi, da sempre sostengo che spacchettare l’indice generale dei prezzi verrebbe ad essere una scelta di equità sociale. Viene del tutto evidente che il paniere dei beni ha pesi diversi per classi sociali diversi; mia nonna dovrà sobirsi gli aumenti di pane, latte, gas, ed alimentari in generale, e non potrà compensarlo con una diminuzione magari dei biglietti aerei, hardware, telecominicazioni, e via dicendo. Io credo che spacchettare l’indice generale dei prezzi in 4/5 sotto classi e poi ancorare le decisioni in base alla classe di appartenenza verrebbe una scelta di buon senso ed equità sociale

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