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Sul Pnrr serve un dibattito costruttivo

Le polemiche e le frizioni politiche seguite alla presentazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza testimoniano l’assenza di un dibattito ragionevole. Ma in gioco c’è il futuro del paese e anche i media sono chiamati a fare la propria parte.

Un dibattito desolante

Il dibattito che ha seguito la presentazione del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) da parte del governo è francamente desolante. Tolta la filastrocca iniziale sugli infausti destini del paese ancora una volta tradito, il succo della maggior parte degli interventi critici si può riassumere così: il Pnrr è da buttare perché non dà abbastanza soldi a noi, dove “noi” – a seconda dell’interlocutore – può essere alternativamente il Sud, il turismo, l’edilizia, l’industria, la cultura, i giovani, la scuola, la sanità, i lavoratori, le regioni, gli enti territoriali, etc.

Anche l’improvviso accendersi del quadro politico appare sospetto. Fino a ieri il primo ministro Giuseppe Conte pareva inamovibile; all’improvviso, finalmente approvato il Next Generation EU (NG-EU) a livello europeo, è tutto un fiorire di ipotesi di rimpasti, revisioni, nuove maggioranze tecniche o politiche, con pezzi della attuale maggioranza che sembrano più critici verso il governo della stessa opposizione. Perfino il terribile segretario della Lega, Matteo Salvini, in contrapposizione al quale è nato il presente governo, pare adesso magnanimamente disponibile a dare una mano a spendere i soldi dell’odiata Europa.

Tutto ciò non significa che un dibattito sul Pnrr non sia utile e necessario; al contrario, vista l’endemica instabilità del nostro sistema politico, è assolutamente indispensabile che questo ci sia, sia trasparente e coinvolga il più possibile l’opinione pubblica. In gioco c’è il futuro del paese e raggiungere una visione informata e in qualche misura condivisa su dove e perché investire i 200 miliardi messi a disposizione dal NG-EU è importante anche per evitare che tutto venga rimesso in discussione dalla prevedibile successione di governi diversi nel periodo di attuazione del piano. E anche perché il Pnrr presentato dal governo, benché generalmente apprezzabile, è ancora vuoto di proposte concrete su tutta una serie di settori rilevanti.

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A cosa servono i fondi NextGen

Ma, come suggerito anche da Mario Monti e Fabrizio Barca sul Corriere della Sera, è importante che questo dibattito sia incardinato su binari ragionevoli, per evitare che alla fine tutto si risolva in una distribuzione a pioggia a favore di chiunque alzi un lamento, nella speranza di accontentare tutto e tutti. Dopo ci troveremo solo più poveri e più indebitati. Per questo è allora utile ricordare a che servono i soldi del NG-EU: non a finanziare tutte le cose buone e giuste che sarebbe ipoteticamente utile finanziare. Servono, accompagnati da riforme adeguate, a rimuovere la lunga lista di vincoli strutturali che hanno impedito al paese di crescere negli ultimi 20 anni, puntigliosamente elencati nel documento presentato dal governo. Devono anche rispettare gli orientamenti europei che i nostri stessi rappresentanti in Europa hanno contribuito a definire, cioè investire soprattutto in economia digitale e sostenibilità ambientale, il mondo del futuro. Infine, servono anche a rendere il paese più resistente alla prossima, prevedibilissima, catastrofe sanitaria o ambientale.

È allora utile che chiunque intervenga nel dibattito, a cominciare dalle forze politiche in parlamento, lo faccia specificando come le proprie proposte di riforma del Pnrr del governo possono consentire di raggiungere meglio gli obiettivi elencati sopra, in che tempi, con quali modalità e con quali risultati intermedi, oggettivamente misurabili. Il tema della governance, a cui si è dato troppo peso nel dibattito, segue logicamente. Si tratta di individuare le procedure e le competenze necessarie perché gli obiettivi condivisi vengano raggiunti nei tempi strettissimi imposti dal piano, predisponendo anche meccanismi che redistribuiscano risorse se alcuni obiettivi si dimostrano irraggiungibili. Costringere il dibattito lungo questi canali concreti sarebbe utilissimo; e i principali media possono dare un contributo importante in questo senso.

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  1. Savino

    I vecchi volponi stanno per fare man bassa anche delle risorse denominate next generation UE. Giù le mani dalle risorse per i giovani. Il Paese post pandemia può essere solo e soltanto inequivocabilmente un Paese per giovani, che investe laddove i più anziani hanno fallito, investe nella sanità, nei giovani medici e ricercatori, investe nel merito e nelle eccellenze in tutte le professionalità, investe nella digitalizzazione, in una P.A. efficiente e non fatta di fannulloni e corrotti, investe in sviluppo sostenibile e non in condoni e disastri idrogeologici, investe in infrastrutture e in mobilità e non sta con chi getta pietre e petardi in Val di Susa (come, invece, fa il m5s). C’è voglia di un Paese moderno e occidentale contro la deriva immorale familistica di nuclei di potere e contro la deriva fondamentalista ideologica di alcuni partiti e sindacati. Non ci sono redditi di cittadinanza, quote 100 e clientele da soddisfare, ci sono giovani da far camminare con le proprie gambe, c’è una nuova classe dirigente cui fare spazio e da supportare (anzichè ridurla agli stenti della precarietà).

  2. Henri Schmit

    1/2 La frase più importante che si trova in forma altrettanto generica nell’articolo firmato Barca-Monti è la seguente: “Servono, accompagnati da riforme adeguate, a rimuovere la lunga lista di vincoli strutturali che hanno impedito al paese di crescere negli ultimi 20 anni, puntigliosamente elencati nel documento presentato dal governo.” Non dubito che Monti e Barca lo credano davvero. Dubito però che siano d’accordo sul contenuto delle riforme. Ricordo un recente diverbio fra Barca e Bonaccini il quale (come il sottoscritto) accetta notoriamente le vere riforme liberali-progressiste del governo Renzi, ossia il Jobs Act e le riforme del settore bancario. Contrariamente a Monti, Barca e gran parte del PD non sono su questa linea. A prescindere dalla soluzione giusta, l’errore più grave dopo l’indecorosa ritirata di Renzi è stato l’assenza di 2 o 3 dibattiti a livello PD e opinione pubblica generale: 1. Che cosa era condivisibile, che cosa da scartare della doppia riforma istituzionale bocciata al referendum? In gioco è la coerenza e l’efficienza della forma di governo. 2. Che cosa era da confermare, che cosa da cancellare per sempre della politica eco-fin del governo Renzi? Qua è in gioco il liberalismo progressista e sociale. 3. La terza domanda è la più delicata: come vedere l’Italia nell’UE e nel €-sistema. L’incomprensione non è limitata alle posizioni sovraniste (3/4 degli elettori intendono votare per partiti euroscettici o antieuropei) ma è molto più diffusa.

  3. Henri Schmit

    2/2 Il problema profondo è che politici, opinione pubblica e commentatori non si rendono conto delle implicazioni della partecipazione all’UE e all’€-sistema. La facoltà di uno SM di chiedere l’applicazione del MES ordinario è una garanzia contro difficoltà nella gestione eco-fin del debito sovrano. Il rifinanziamento del NGEu suppone risorse nazionali, tasse sugli stessi residenti; anche eventuali imposte “europee” saranno prelevate in ultima analisi sui contribuenti residenti degli SM; se no, la copertura da versare dagli SM sarà assicurata con nuovo debito nazionale, salvo riduzione della spesa pubblica. Il punto cruciale sono le condizioni d’utilizzo dei fondi europei, NGEu o MES, poco cambia, la logica è la stessa. Le condizioni più importanti non sono quelle settoriali (indicate) o procedurali (rinforzate), ma le riforme strutturali che fungono da fattore moltiplicatore. Senza riforme, i fondi UE saranno acqua sulla sabbia del deserto. Il problema drammatico è che in Italia non c’è consapevolezza di queste priorità né condivisione di un programma di riforme, nemmeno nella maggioranza. L’anti-europeismo vagante, il sovranismo senza responsabilità, conseguenza dell’incomprensione delle condizioni di appartenenza all’UE e all’€-sistema, rendono il futuro molto incerto. Alla fine converrebbe all’Italia, incapace da sola, convertirsi diventando europeista e invece di contestare le condizioni, invocarle, come altri paesi hanno fatto pochi anni fa chiedendo la tutela del MES.

  4. Giuseppe Pennisi

    Dopo il Consiglio Europeo del 10-11 dicembre, nei cinque mesi che si prevedono necessari per la ratifica dell’accordo, ci sono due strade:
    a) L’istituzione di un ente ad hoc, al di fuori del perimetro della pubblica amministrazione, guidato da una personalità tecnica di rilievo internazionale, come delineato in un volume consegnato il 14 dicembre dal Prof Giorgio La Malfa al Capo dello Stato. Ed è il modello della Cassa del Mezzogiorno che pensata da Viktor Sullam e dal suo (allora) assistente Hollis Chenery che ha funzionato bene sino alla metà degli anni Settanta del Novecento ed a cui la Banca Mondiale ha fatto quattro linee di credito di grande successo . L’ente sarebbe anche “il referente unico” richiesto dalla Commissione europea.
    b) Utilizzare le strutture esistenti. Il Cipe o il Ciae per l’indirizzo ed il coordinamento generale e se si vuole l’interlocuzione con la Commissione europea (il gran parte degli altri Stati tale compito è svolto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Mef), il Mef in quanto depositario della modellistica econometrica (lì sviluppata), dei metodi e delle tecniche di analisi costi benefici (anche nelle versioni più avanzate) e soprattutto del controllo finanziario (in quel corpo speciale che è la Ragioneria Generale dello Stato) opererebbe (come fa sempre) in collaborazione con gli enti di spesa, ministeri e regioni

  5. Costanza Pera

    Apprezzo molto l’articolo ma la pretesa di Conte di gestire in modo accentrato l’enorme quantità di fondi UE era insensata. Di Monti e Barca va ripreso il punto su iindicatori e risultati chiesti da UE che vanno puntuizzati al più presto. Bisogna che gli obbiettivi siano chiari e i soggetti di spesa identificati o dichiarare el procedure per sceglierli. Ovviamente vanno coinvolti i comuni come stazioni appaltanti e su molte materie, piaccia o non piaccia, le regioni, che sono responsabili della programmazione. Il MEF dispone già degli strumenti di monitoraggio dell’avanzamemto delle opere pubbliche finanziate di qualsiasi importo e di tutta la spesa pubblica. È però una struttura chiusa in se stessa, lontana dallo spirito di integrazione tra settori e dalla trasparenza che dovrebbe informare il piano. Serve una struttura di supporto alle amministrazioni che devono procedere e non è facile metterla su. L’esempio da NON prendere è il modello di funzionamento del CIPE e il suo supporto, iperburocratizzato e pedante: pagine e pagine di delibera per approvare una variante ad un’opera finanziata. Obbiettivamente siamo nei guai e la situazione è eccezionale. Forse si potrebbe immaginare un prestito/distacco per un anno presso la PCM di 30/50 persone da Banca d’Italia, dai principali ministeri e da alcune regioni in rappresentanza di tutte per articolare indicatori, obbiettivi, procedure, esecutori e con la RGS il monitoraggio. La politica approva e si occupa delle riforme.

  6. Dare la gestione (“governance”, nella Bozza del PNRR) dei soldi del PNRR alle Regioni (che, nell’attuale assetto “triangolare” dei fondi europei ordinari, riescono a spendere 2 mld l’anno, per cui la loro capacità di spesa dovrebbe miracolosamente moltiplicarsi per oltre 15 volte, 209/6) e perfino ai Comuni e coinvolgerle in maniera operativa significa certamente far fallire il piano. La gestione va data a una struttura centrale di alto livello di competenza (CDP, BEI, ENI, Banca d’Italia, Accademia, con un capo unico di altissimo livello, più i 6 per le 6 missioni), che abbia ramificazioni anche nelle Regioni, prendendo i migliori. Dalla Bozza si ricava che i moltiplicatori del SUD e del Nord sono, rispettivamente, quasi 5 e meno di 1, per cui, ancora, sarebbe inspiegabile continuare nel “furto” delle decine di miliardi sottratti ogni anno al Sud a favore del Nord. I grandi progetti per il Sud si conoscono già, non c’è bisogno di chiederli alle Regioni. A quelli che si conoscono già, io ne aggiungerei due, non previsti da nessuno: (i) un grande Piano pluriennale di case popolari di qualità, estremamente carenti ; e (ii) per accrescere il capitale sociale, un Progetto Educativo rivolto alle famiglie a casa, in particolare alle mamme in gravidanza e nei primi tre anni di vita dei figli, vale a dire il periodo in cui si sviluppano le sinapsi, a condizione però di venire sollecitate dall’interazione con l’ambiente altrimenti si atrofizzano e muoiono. Dopo i 3 anni, è già tardi.

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