Le scuole italiane continuano a procedere a singhiozzo, con l’alternarsi di aperture e chiusure. Le conseguenze su apprendimenti e benessere degli studenti rischiano di essere devastanti. A Berlino hanno scelto una soluzione radicale. E in Italia?
Le conseguenze della Dad
Dal 15 marzo la gran parte delle scuole italiane è stata nuovamente chiusa e oltre 7 milioni di studenti (degli 8,4 milioni complessivi) hanno seguito le lezioni on line da casa per due settimane. Il 7 aprile è previsto il ritorno in classe ovunque fino alla prima media, mentre rimarranno in didattica a distanza gli studenti della secondaria di secondo grado e quelli della II e III media delle regioni rosse. È il déjà vu di modalità ormai ben note che hanno però clamorosamente mancato l’occasione di trasformarsi da male necessario ad ampliamento delle opportunità didattiche.
La reintroduzione della Dad rischia di acuire notevolmente una condizione già gravemente compromessa. In questi mesi abbiamo assistito, infatti, a un preoccupante fenomeno definito efficacemente dall’ex ispettore scolastico Raffaele Iosa come “frenesia curricolare”, con gli studenti costretti a rincorrere per “finire i programmi”: come se molti insegnanti avessero dimenticato l’abolizione nel 2012 dei “programmi” in favore delle Indicazioni nazionali che hanno, invece, come obiettivo la creazione di competenze. Nelle secondarie la situazione è aggravata dalla frenesia valutativa: i rari ritorni in classe dalla didattica a distanza diventano il momento in cui concentrare interrogazioni e verifiche, anziché occasione per rinsaldare la relazione educativa.
Porre rimedio a questa situazione non è semplice con interventi puntuali e circoscritti. Lo è ancor meno, se gli interventi sono lasciati alla considerazione e alla buona volontà dei singoli insegnanti, senza una riflessione politica generale sulle priorità di sistema.
Un esempio di iniziativa politica drastico e non privo di criticità, ma indubbiamente volto a indirizzare gli eventi e non solo a subirli, viene da Berlino. Anche lì, c’è l’esigenza impellente di recuperare il tempo perduto, ma per farlo si propone non di accelerare il passo, ma di rallentarlo. Fermarlo, addirittura.
Il modello Berlino
A Berlino, come nel resto della Germania, nel corso dei ripetuti lockdown o delle chiusure mirate (che perdurano tutt’ora) le attività di didattica a distanza sono state messe a disposizione degli studenti ininterrottamente, ma non senza difficoltà. L’Ifo, Istituto per la ricerca economica con sede a Monaco di Baviera, certifica che nei soli mesi del primo lockdown la riduzione del tempo dedicato dagli studenti ad attività didattiche è stata di circa il 50 per cento (da 7,4 ore al giorno a 3,6). Una ricerca internazionale condotta da McKinsey – su insegnanti di otto paesi Oecd – riporta per la Germania una perdita di apprendimenti percepita pari a 1,7 mesi di scuola già a novembre (grafico 1).
A fine febbraio, per arginare la crisi degli apprendimenti, il parlamento della città-stato di Berlino ha approvato una legge che consente ai genitori che ne facciano richiesta entro il 13 aprile di far ripetere l’anno scolastico ai propri figli. L’intervento riguarda gli studenti nei primi dieci anni di istruzione, mentre ne sono esclusi quelli che si trovano negli ultimi due, quindi prossimi a conseguire l’Abitur. La richiesta della famiglia non è automaticamente accolta, ma viene vagliata da una commissione interna alla scuola in seguito a un colloquio approfondito con studente e genitori sulle motivazioni della richiesta. In tale occasione sono anche proposte soluzioni alternative, come il supporto individuale nel corso del prossimo anno scolastico.
La misura, introdotta anche in altri stati federali su pressione delle organizzazioni dei rappresentanti dei genitori, è stata accolta con favore dai rappresentanti degli studenti e dall’associazione nazionale degli insegnanti. Ciò nondimeno ha sollevato preoccupazioni di carattere operativo e organizzativo da parte dei dirigenti scolastici e dei provveditorati.
Idea originale, ma con qualche rischio
L’intervento, improntato al “fermarsi per non rimanere indietro” – nella sua brusca radicalità – sottolinea la funzione della scuola come “ascensore sociale”, promotrice da un lato di un diritto e di un’opportunità per gli studenti, dall’altro dell’interesse nazionale ad avere cittadini in pieno possesso di saperi e competenze.
Avrebbe senso suggerire questa soluzione per l’Italia e il suo sistema d’istruzione? Una proposta così radicale, nel nostro paese potrebbe avere risvolti negativi che rischierebbero addirittura di portare a conseguenze opposte a quelle sperate. Si intravedono almeno tre ordini di criticità:
– problemi organizzativi: per procedere alla formazione delle classi e all’assegnazione dei docenti si dovrebbe attendere la fine del processo di scelta le cui dimensioni e “forma” sono del tutto imprevedibili, condizionate da motivazioni individuali e dalle dinamiche tra pari. Ciò rischierebbe di portare al collasso il nostro sistema che già in tempi normali, con flussi di studenti prevedibili, non va a regime prima di ottobre, ad anno scolastico iniziato;
– problemi pedagogici: togliere uno o pochi studenti dal “gruppo classe” con cui hanno cominciato il ciclo implica una ricostruzione della relazione educativa con gli insegnanti e con i pari non necessariamente semplice e dall’esito incerto anche sugli apprendimenti;
– problemi di equità: lo stigma sociale per la “bocciatura” è ancora molto forte nel nostro paese, ragionevolmente in misura maggiore tra le famiglie meno istruite. Il rischio concreto è che ad aderire all’iniziativa possano essere in larga prevalenza proprio le fasce più istruite con figli in situazione di difficoltà, magari neppure troppo grave, portando a un’ulteriore esacerbazione delle differenze sociali.
L’“approccio berlinese” oltre ad aver suscitato un vivace dibattito nella capitale tedesca, viene in questi giorni discusso in Galles, Scozia e Florida dove, però, si considera anche l’ipotesi di fermare l’intero sistema scolastico per un anno.
Difficile dire come potrebbe reagire l’opinione pubblica di quei paesi (per non dire di quella italiana) a una proposta per certi versi ancora più radicale della berlinese, ma probabilmente meno azzardata in termini di equità e di conseguenze pedagogiche indesiderate. Nell’un caso e nell’altro, tuttavia, è evidente lo sforzo di fare seguire alle preoccupate analisi sui rischi della perdita di apprendimenti idee per soluzioni operative nuove, che – per quanto discutibili – hanno almeno il pregio di cogliere appieno il senso di un’emergenza eccezionale.
È troppo chiedere che lo stesso sforzo si faccia in Italia?
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sara
Poveri studenti
Giuseppe Campagnoli
Occorreva un po‘ di decisione e manifestazione di coraggio pur tenendo conto di ciò che si sta prospettando a livello istituzionale: ci sono stati circa cinque mesi di tempo per cominciare a oltrepassare la scuola tradizionale, pur sempre conservatrice, e siamo ahinoi arrivati al banco singolo, alle misurazioni e a cercare anche palestre, cinema, stanzoni e capannoni. Non mi sembra né utile né risolutivo per la prevenzione (che deve pur esserci…) limitarsi ai banchi, alle fettucce metriche oppure allo sparpagliamento puro e semplice in altri spazi per fare grosso modo le stesse cose di prima.
I dirigenti scolastici, che so per esperienza diretta avere spesso molta paura “burocratica”, per via del loro ruolo addensatosi perigliosamente, nel tempo, più sulle procedure e sugli adempimenti che sull’educazione, sanno bene che si possono percorrere alcune strade dell’autonomia scolastica e della sperimentazione per rispondere a esigenze di tutela della salute ma anche a quelle dell’avvio sottile ma deciso di una rivoluzione in educazione. Pochi adattamenti avrebbero garantito libertà, esperienze efficaci e apprendimenti diffusi oltre che la tutela della salute di tutti, lavorando per piccolissimi gruppi in luoghi significativi, educanti aperti o ampi insieme all’edificio tradizionale che in questa fase assumerebbe il ruolo di “portale” verso le esperienze altrove. Avrebbe qualche senso mischiare la didattica a distanza (che non avrebbe avuto, come pare, i risultati aspettati) con la didattica in presenza sempre con le stesse materie, gli orari, gli appelli, i controlli, con lo stesso vetusto modello di organizzazione di tempi e modi adattato all’ultimo momento alle esigenze dettate dalle regole di prevenzione applicate in modo meccanico e confuso?
Non vi è un momento migliore invece per sperimentare e mettere alla prova strade che si possono rinvenire anche nelle pieghe dell’autonomia scolastica, troppo parzialmente praticata nelle chances innovative. Non cogliere questa opportunità è un vero peccato e una plateale rinuncia al cambiamento. Sarebbe il caso di riflettere su tante esperienze rivoluzionarie che si sono dimostrate decisamente positive e stimolanti per mutare lentamente ma radicalmente un paradigma scolastico da tempo obsoleto e decisamente superato. Si poteva cominciare eccome.
Ad esempio:
1. Eliminazione graduale dell’edilizia scolastica verso la città educante fatta di una rete di luoghi per l’esperienza e l’apprendimento pubblici o privati, aperti o chiusi ma trasparenti e ampi. Certamente non per fare le stesse cose che si facevano in classe o nelle «uscite didattiche».
2. Attività in gruppi di 5-7-9 a seconda delle età o misti.
3. Creatività massima per sussidi didattici.
4. Destrutturazione delle discipline sconnesse e separate a favore di aree esperienziali e campi di educazione incidentale dove il bambino, il giovane, l’adulto che crescono e apprendono sono soggetti protagonisti che «si educano» non che «vengono educati».
5. Smontaggio dell’orario scolastico a favore di tempi flessibili e «orari di prossimità», con l’anno educativo che dura dodici mesi con pause di tempo libero diluite e diffuse.
Le cose da apprendere, l’educazione e la crescita non sono indifferenti ai luoghi in cui avvengono. La marcia di avvicinamento a un nuovo modello di scuola potrebbe integrare mirabilmente, in tante sperimentazioni brevi che facessero tesoro delle eventuali buone pratiche nel territorio, l’insieme dei progetti-scuola dei tempi-scuola e dei luoghi-scuola sfruttando anche quel poco che offre l’organico potenziato. Se si trasformassero, riducendoli anche di numero, gli edifici scolastici per un uso misto e flessibile (museo e scuola, biblioteca e scuola, terziario e scuola…) e si usassero gli spazi di cultura e non solo, pubblici e privati della città per “fare scuola”, persino bar, negozi e centri commerciali; se si abolissero le materie e si apprendesse per mappe concettuali, per argomenti e temi trasversali (gestiti dai docenti disponibili e competenti), il quadro potrebbe cambiare radicalmente e allora un organico sarebbe veramente funzionale.
Gli orari della settimana, del mese o del semestre potrebbero essere realmente smontati e resi flessibili e adattati a un canovaccio plurisettimanale di aree tematiche multidisciplinari e interdisciplinari, progetti ed eventi, nel quadro di un progetto di istituto o di rete territoriale, da sviluppare in diversi luoghi, anche utilizzando tablet e audiovisivi, docenti esterni e interni, mentori e maestri oltre che tutors negli ambiti di apprendimento, che possono essere anche un laboratorio artigiano, una fabbrica, un ufficio pubblico, un museo, un laboratorio, una mostra…
Un’utopia? Non tanto e non proprio.