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L’Europa disunita di salari e produttività

Che cosa ha reso così diverse fra loro le dinamiche del mercato del lavoro nei paesi europei nell’ultimo decennio? E quali politiche dovrebbe adottare ciascun Governo per modificare la situazione? L’analisi dei dati suggerisce di guardare ai salari e alla produttività. Il problema dell’Italia.
IL COSTO DEL LAVORO IN EUROPA
L’immagine che ci viene spesso proposta del mercato del lavoro in Europa è quella di un’area eterogenea, dove nell’ultimo decennio il costo del lavoro per unità di prodotto ha registrato dinamiche molto diverse tra paesi. Mentre è rimasto stabile in Germania, è fortemente cresciuto negli altri paesi, soprattutto in quelli dell’Europa mediterranea. E si aggiunge spesso che la crisi economico-finanziaria in alcuni paesi dell’Eurozona, come l’Italia, sarebbe fortemente connessa alla struttura del mercato del lavoro.
Queste osservazioni richiedono un’analisi più approfondita, che permetta di comprendere meglio alcune cause delle dinamiche recenti del costo del lavoro in Europa. Partiamo da alcuni dati relativi alle tre maggiori economie dell’eurozona: Germania, Francia e Italia.
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Il grafico 1 mostra le dinamiche del costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) a partire dal 2000 per i tre paesi. Conferma appunto che in Germania il Clup è rimasto pressoché invariato mentre è cresciuto in Francia e ancora di più in Italia. L’indicatore non è però sufficiente per capire i retroscena di dinamiche così difformi.
Il Clup è dato dal rapporto tra il costo del lavoro per addetto (che comprende, oltre alle retribuzioni lorde, i contributi sociali, le provvidenze al personale e gli accantonamenti per il trattamento di fine rapporto) e la produttività per addetto. Pertanto, se per l’impiego di un’ora di lavoro un’impresa spende il 10 per cento più di un’altra impresa, ma da quell’ora di lavoro ottiene il 20 per cento di prodotto in più, a quella spesa più alta per la retribuzione corrisponde un costo del lavoro per unità di prodotto inferiore. Per questo è importante disaggregare il dato della dinamica del Clup nelle due componenti che contribuiscono a determinarla: quella della dinamica dei salari e quella della dinamica della produttività.
SALARI E PRODUTTIVITÀ
2bCominciamo dai salari nominali. Il grafico 2 mostra come nell’ultimo decennio siano cresciuti significativamente, e pressoché in egual misura, in Italia e Francia, mentre l’aumento è stato meno marcato in Germania.
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Il tasso di inflazione (grafico 3) è stato tuttavia più alto in Italia che negli altri due paesi (e maggiore in Francia rispetto alla Germania), dunque la dinamica dei salari reali è quella illustrata nel grafico 4: sono cresciuti in Francia, sono rimasti pressoché invariati in Italia e sono diminuiti in Germania.

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Vediamo ora l’andamento della produttività. Anche in questo caso i dati rilevano differenze interessanti tra i paesi. Il grafico 5 descrive l’andamento della produttività del lavoro per ora lavorata (in euro) a partire dal 2000. La variabile misura la quantità di prodotto ottenuto con l’impiego di un’unità di lavoro. Come ci si poteva aspettare, in Italia la produttività del lavoro non è aumentata nell’ultimo decennio (si percepisce semmai un leggero declino). Tuttavia, in Germania e in Francia è aumentata in egual misura e in modo costante e significativo. È anche interessante notare come in termini di livelli, forse un po’ a sorpresa, la produttività del lavoro in Francia sia più elevata di quella della Germania.
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IL CUNEO FISCALE
I differenziali nell’andamento del costo del lavoro possono allora dipendere dal cuneo fiscale, spesso citato nel nostro paese come la causa dell’eccessivo costo del lavoro? Il cuneo fiscale rappresenta il divario tra il costo del lavoro a carico delle imprese e la retribuzione netta in busta paga percepita dal lavoratore dipendente. Il differenziale è costituito dal prelievo fiscale, dai contributi previdenziali e sociali a carico del lavoratore e dell’impresa. Dal grafico 6 si può osservare come negli ultimi dieci anni in Germania vi sia stata una riduzione del cuneo fiscale (di un lavoratore single monoreddito) di qualche punto percentuale, che potrebbe aver favorito la riduzione del costo del lavoro in questo paese. In Francia e in Italia, invece, è rimasto sostanzialmente stabile. Quindi è difficile imputare al cuneo fiscale un contributo significativo all’incremento del costo del lavoro. È inoltre interessante notare come il suo livello in Italia sia inferiore a quello degli altri due paesi.
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Quali conclusioni possiamo trarre da questa breve analisi? Innanzitutto possiamo farci un’idea più chiara di ciò che ha reso così diverse, da paese a paese, le dinamiche del mercato del lavoro in Europa nell’ultimo decennio. In Italia i salari nominali sono cresciuti parallelamente all’inflazione, lasciando i salari reali invariati, nonostante una produttività del lavoro costante o in lieve declino. In Francia, l’aumento della produttività del lavoro è stato trasferito ai lavoratori, che percepiscono non solo salari nominali, ma anche reali, significativamente più alti. In Germania, l’aumento della produttività del lavoro è stato trattenuto dalle imprese, che hanno quindi guadagnato competitività sul mercato. In sintesi, la divergenza nel costo del lavoro tra i tre Paesi va imputata principalmente al fatto che in Italia la produttività non è cresciuta, contrariamente a quanto avvenuto in Francia e Germania. E mentre in Francia la crescita della produttività ha consentito un incremento dei salari reali, in Germania è stata superiore all’aumento dei salari.
Questi risultati suggeriscono, quindi, che le politiche del mercato del lavoro dovrebbero tenere conto delle differenze interne in merito alle dinamiche salariali e della produttività. Se paesi come la Francia, per esempio, potrebbero ottenere facilmente guadagni di competitività mediante un certo grado di moderazione salariale, il nostro paese sembra avere come unica soluzione la crescita della produttività. L’alternativa sarebbe la riduzione dei salari reali, un’opzione con costi sociali elevati, che non solo non garantirebbe la crescita e lo sviluppo economico del paese, ma potrebbe avere effetti depressivi sulla domanda aggregata.
Un’analisi della dinamica salariale e della produttività all’interno dei vari settori produttivi e tra le varie Regioni italiane potrebbe poi offrire spunti di riflessione interessanti per meglio comprendere le possibili cause della mancata crescita di produttività nel nostro paese, e soprattutto per individuare possibili interventi per stimolarne un significativo e persistente aumento.

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38 commenti

  1. Massimiliano

    Buongiorno, vedo dal vostro articolo che in Italia, tra il 2000 e il 2010, i salari reali per ore lavorate sono cresciuti del 4% circa e la produttività del lavoro per ora lavorata è rimasta pressochè costante. Come si spiega l’aumento, pari al 30% circa, del CLUP? Con una riduzione delle unità prodotte?

    • Jacopo

      credo che il CLUP si riferisca ai salari nominali, non a quelli reali. quelli infatti aumentano del 30% circa.

  2. Nicola Sciclone

    L’analisi è molto interessante, oltre che nota.
    Avrei però da avanzare due considerazioni: una di carattere generale, l’altra più specifica.
    La prima considerazione attiene al concetto di produttività, che non è una grandezza di immediata interpretazione. Se ad esempio in tempo di crisi, come quelli attuali, si produce molto meno che in passato, senza che ciò determini una proporzionale caduta del lavoro (la cosiddetta resilienza del sistema), è evidente che la produttività diminuisca, ma da questo non ne deriva automaticamente un giudizio di inefficienza per il nostro sistema produttivo. Casomai di capacità di resistenza. Inoltre, nel medio lungo periodo, sarà un caso, la produttività italiana mostra un profilo peggiore delle altre economie a partire dall’ingresso nell’euro. Ancora: tutta colpa delle nostre imprese o magari di un tasso di cambio non adeguato alla specializzazione produttiva? Questo per dire che i problemi della nostra bassa produttività, incontestabili, stanno forse anche in una serie di cause esterne al mondo della produzione (inefficienze del terziario, cambio non favorevole, alto costo materie prime, alto costo denaro, ecc.) e che ne limitano le performance. Potremmo rovesciare l’impostazione: quali produttività potremmo attenderci se avessimo le condizioni di accesso al credito che hanno le imprese tedesche, se l’energia costasse quanto in Germania, se avessimo una specializzazione in beni durevoli come i tedeschi (macchine, friogoriferi, ecc.) capaci di assecondare la domanda dei paesi emergenti o in crescita come la Cina? Affermazioni quali: il nostro paese sembra avere come unica soluzione la crescita della produttività sono condivisibili, ma forse spostano il dibattito da quello che è il vero problema: su quale modello di crescita dobbiamo puntare?
    Seconda più puntuale considerazione: un elemento di aggravio per le imprese italiane è l’elevata incidenza dell’Irap. Ho l’impressione, ma non la certezza, che nei confronti internazionali sul cuneo fiscale questo aspetto non emerga. Se questo fosse vero, la posizione dell’italia peggiorerebbe significativamente.

  3. Leonello Tronti

    La Francia ha seguito un classico sentiero di crescita bilanciata alla Kaldor, rispettando la “legge di Bowley”, e dunque contando sulla capacità interna del sistema di rispondere agli shock esogeni.
    La Germania, invece, grazie alle sue relazioni industriali partecipative, che consentono un grado di coesione sociale molto elevato, ha messo in atto uno “scambio politico” di tutto rilievo: la moderazione salariale in cambio della riorganizzazione dell’intero sistema produttivo e, quindi, di una maggior sostenibilità di occupazione e salari.
    L’Italia si è gingillata sprecando enormi energie su scemenze come l’art. 18 e disinteressandosi del tutto dei problemi della crescita e della politica industriale. Non ha puntato sulla crescita bilanciata ma nemmeno su di un serio “scambio politico” moderazione contro riorganizzazione. Ha buttato al vento la grande occasione per riorganizzare il sistema produttivo e renderlo sostenibile offerta dalla moderazione salariale accordata con l’accordo di luglio ’93 e con le ripetute riforme del mercato del lavoro. Ha invece finito con il ridurre per inerzia consumi e investimenti e creare una miriade di imprese e microimprese marginali, che la crisi ha spazzato e spazza via come il vento, perdendo posizioni su posizioni nel commercio internazionale.
    Quanto dobbiamo attendere perché politica e partner sociali si rendano conto che abbiamo un deficit di strategia, senza il quale andiamo semplicemente allo sbando?

    • HK

      Concordo con la sua analisi. Però non ho capito cosa intenda per “scemenze come l’articolo 18”. La mia modesta esperienza di imprenditore mi insegna che l’art 18 Italiota che sancisce l’intoccabilità del posto di lavoro di fannulloni, disonesti e piantagrane è una parte significativa del problema.

      • Leonello Tronti

        Il problema dell’articolo 18 non è di diritto. Se un licenziamento non ha giusta causa né giustificato motivo, è un atto illecito e quindi nullo. La questione vera è di tipo applicativo: a) con quale criterio i giudici giudicano giusta la causa o giustificato il motivo?; b) e anche più importante, quando una causa per licenziamento dura cinque anni e si conclude con una sentenza di nullità, il datore non solo deve reintegrare, ma deve pagare, oltre ai danni e alle spese, cinque anni di stipendi! Le cause per licenziamento non devono durare più di tre mesi! Questa è l’unica vera soluzione del problema

    • giulioPolemico

      Concordo perfettamente con quanto da lei scritto, soprattutto per quanto riguarda la miriade di nanoimprese, tanto marginali quanto effimere. Questo è una conseguenza del fatto che per mentalità i popoli meridionali non hanno alcun interesse a scienza e tecnologia, che mai come oggi sono indispensabili nelle competizioni tra imprese e quindi nello sviluppo dell’economia.

  4. Stefano

    Bella analisi, ma in Italia non riusciremo mai a risolvere il problema finché tutti continuano a pensare che la colpa della bassa produttività sia dei lavoratori, come se i lavoratori italiani fossero peggiori dei tedeschi. La nostra produttività è bassa perché lo stato non crea le condizioni e gli imprenditori non investono

  5. Antonio Gasperi

    a mio parere il dr. Tronti ha riportato il commento nella giusta cornice teorica: aggiungerei che data ProdLav = P / L , abbiamo che il grado medio di meccanizzazione è K / P e l’intensità media di capitale del sistema è K / L (adotto la nomenclatura del prof. Pasinetti) ; quest’ultimo dato dovrebbe essere piuttosto costante nel tempo (dipendendo fra l’altro dal peso dei diversi settori produttivi), ed è la causa della cd. legge aurea di Bowley. Ciò che invece si dovrebbe sapere per valutare meglio l’andamento della produttività è se e di quanto è variato il grado di meccanizzazione. un saluto

  6. Federico

    Solo alcuni veloci rilievi. Innanzitutto il tax wage: Taxing Wages: Country note for Italy. Oecd risulta relatively “HIGH”, E SUPERIORE ALLA MEDIA EUROPEA, a differenza di quanto parrebbe emergere dall’articolo. in particolare, il costo del lavoro in Italia per un lavoratore non sposato è circa due volte lo stipendio netto contro un rapporto pari a 1,7 per la media dell’area euro e a circa 1,5 per la media dei Paesi Ocse. mi pare che sia unA PRIORITA’ SU CUI INTERVENIRE. 2. competitività: dinamica del tasso di cambio effettivo reale basato sul costo del lavoro per unità di prodotto: Italia + 50 PUNTI percentuali, bassa produttività, ALTO CUNEO FISCALE, e SCARSA competitività. e spesa pubblica ELEVATA. o sbaglio?

  7. alfonso

    Ci sono diverse analisi che spiegano le cause della bassa produttività. A parte le pubbliche amministrazioni e le grandi società di servizi ( dove risiede per antonomasia…. ), essa sembra essere in gran parte concentrata nelle piccole imprese sia industriali che di servizi ( invece noi le beatifichiamo!) con l’aggiunta delle molto grandi ( sono poche , e ne conosciamo il nome …..)
    Con tutto il rispetto per l’attacco alle auto blu , i problemi sono lì , ma bisogna avere il coraggio di affrontarli con determinazione .

  8. elsa vokrri

    Stefano: ma sei sicuro che è colpa dello stato che non crea le condizioni e dei imprenditori che non investono, o è anche colpa dei lavoratori italiani che appena ottengono un contratto di lavoro a tempo indeterminato iniziano a non fare niente, secondo me i lavoratori italiani devono iniziare a lavorare piutosto di criticare come se la colpa fosse sempre di qualcun altro, quei grafici spiegano tutto

  9. livan marranzini

    Buonasera, grazie per i grafici sono veramente utili, però non la penso come voi, innanzitutto nei periodi di recessione, con la caduta del Pil osserviamo una diminuzione del valore aggiunto, allora cosa dovrebbe fare un imprenditore dovrebbe licenziare??? nel caso proceda al licenziamento vi sarà un numero inferiore di N unità lavorative, le quali determineranno una variazione dell’indicatore, ma siamo realmente convinti che la risposta al problema sia questa, io ho una view completamente diversa, stiamo vivendo una CRISI DA DOMANDA, viviamo questa crisi poiché le manovre di austerity riducono il reddito disponibile, quindi gli individui reagiscono contraendo i consumi, la produttività può anche aumentare all’infinito, ma nel momento in cui quel prodotto che viene realizzato dall’impresa non viene poi ad essere domandato dal consumatore, quell’incremento di produttività si è perso nel nulla, se non rilanciamo i consumi difficilmente riusciremo a riprenderci, gli animal spirits di keynes si sono defunti, in questa incertezza gli imprenditori non investono, senza fiducia nel proprio paese non si riparte, bisogna far ripartire la domanda, a quel punto i consumi ripartono, le imprese vedranno finalmente una ventata di ottimismo,saranno in grado di sostenere i loro dipendenti, gli investimenti in R&S potranno determinare incrementi di produttività, e forse riusciremo tutti ad essere più felici.

  10. Alberto

    Chissà perchè invece si sta semplicemente aumentando la produttività tagliando i salari a parità di lavoro svolto: vogliamo continuare a sostenere questa assurda situazione di cambio fisso e svalutazione interna (l’unica possibile, allo stato attuale eurosuicida), cioè diminuzione dei salari, cioè impoverimento?

  11. Maurizio Cocucci

    I confronti a livello internazionale sono sicuramente utili e questa analisi è indubbiamente indicativa. Suggerirei comunque anche di fare un confronto ‘interno’ paragonando le diverse situazioni nelle regioni italiane. Ad esempio la regione Trentino Alto-Adige ha un livello di disoccupazione tra i più bassi in Europa. In particolare la provincia di Bolzano ha registrato nel 2010 il più basso tasso di disoccupazione in assoluto in Europa ed oggi, risentendo anch’essa della crisi, è comunque tra le migliori 10. La disoccupazione giovanile è poco superiore al 11% (era la metà l’anno precedente), contro una media nazionale che supera il 37%. Il reddito pro-capite, oltre ad essere il più alto in Italia, è tra i più alti in Europa. Eppure queste due province sono in Italia, hanno l’euro, pagano le stesse tasse del resto d’Italia e magari qualcosa di più visto che l’autonomia consente di aggiungere qualche imposta locale. Si potrebbe obiettare che le due province ricevono molti trasferimenti dallo Stato, in realtà esse trattengono il 90% delle imposte e i trasferimenti che ricevono sono più o meno pari a quanto versano. Credo che molto del loro merito vada imputato all’efficienza dell’apparato amministrativo, alla politica del territorio, alle iniziative a favore dell’occupazione e delle attività produttive, ai pochi sprechi. L’economia poggia sul turismo, cosa che potrebbero copiare altre regioni oggi in difficoltà come quelle del meridione.

    • Abelgrifo

      premetto che sono meridionale e lavoro in trentino per l’Agenzia delle Entrate. le cose riferite sulle due province autonome sono parzialmente vere. due sono gli elementi di difformità tra trentino e le altre realtà italiane. anzitutto in trentino vi è un grado di evasione assai inferiore alla media nazionale sia per maggiore onestà dei contribuenti sia per la presenza di un numero di controlli proporzionalmente molto superiore rispetto al resto del paese cui corrisponde peraltro un tasso di litigiosità bassissimo. in secondo luogo bisogna riconoscere che le province hanno un atteggiamento assai protezionistico nei confronti delle imprese residenti. questo si riflette sia in maggiori servizi e minori ritardi, sia in un atteggiamento assai più favorevole nell’accesso al credito. questa “protezione” però si paga con una scarsa capacità imprenditoriale di massimizzare i fattori produttivi, una certa pigrizia strategica delle imprese che oggi si trovano spesso sfornite dei mezzi logici per affrontare i più competitivi mercati globalizzati. il fattore dimensionale poi sfavorisce queste imprese così come il fattore logistico ed infrastrutturale. I dati riportati sono quindi ampiamente drogati da un supporto che oggi le province, causa patto di stabilità, non possono più fornire in maniera così diffusa. L’assenza poi di criminalità organizzata incide sui costi occulti di queste imprese, costi che qui non esistono mentre in altra parte del paese sono la norma. la produttività del lavoro non è solo legata alla maggiore o minore voglia di lavorare dei dipendenti, ma anche alle capacità tecniche del management e del necessario supporto professionale esterno, alla presenza ed accessibilità di infrastrutture di comunicazione (strade, porti, ferrovie, ma anche banda larga) e soprattutto ai costi di energia, servizi e giustizia. su tutti questi punti il nostro paese è indietro di anni luce rispetto al resto d’Europa ed è per questo che oggi perdiamo la competizione in materia di produttività.

  12. aenrique

    L’articolo si conclude con l’utilizzo del condizionale: “l’alternativa sarebbe la riduzione dei salari reali…” perchè? è ciò che sta avvenendo da 10 anni grazie al vincolo esterno. Di che cosa stiamo parlando? il sistema sta implodendo e noi dovremmo preoccuparci di aumentare la “produttività” magari licenziando così la produzione per addetto diminuisce no? Ed è esattamente quello che sta accadando nel mondo reale. Oggi la vera questione è il rilancio della domanda aggregata che in una crisi di queste proporzioni può avvenire solo da parte pubblica… ah già ma questo vorrebbe dire sconfessare il rispetto dei parametri di Maastrich che non hanno alcun significato scientifico, ah già ma questo vorrebbe dire discutere dell’uscita dell’Italia dall’euro zona…

    • Maurizio Cocucci

      Credo che abbia letto quella parte velocemente e non abbia così colto in pieno ciò che gli autori affermano: “…il nostro paese sembra avere come unica soluzione la crescita della produttività. L’alternativa sarebbe la riduzione dei salari reali, un’opzione con costi sociali elevati, che non solo non garantirebbe la crescita e lo sviluppo economico del paese, ma potrebbe avere effetti depressivi sulla domanda aggregata.”. Pertanto loro sostengono, a ragione, che occorre puntare sulla produttività, altrimenti per rimanere concorrenziali non rimarrebbe che agire sui salari reali con le conseguenze negative che hanno appunto sottolineato.
      Mi permetta poi di farle notare che ascoltando gli imprenditori, loro non parlano mai di euro quale causa principale del problema, ma semmai di eccessiva pressione fiscale, eccessiva burocrazia (che si traduce anche in costi ulteriori per le imprese), tempi lunghi della giustizia, ritardi nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione, scarso supporto a sostegno dell’export e altre questioni legate ad esempio alle vie di comunicazione e alla logistica. Certo un euro più debole potrebbe sostenere le nostre esportazioni, ma per contro aumenterebbe i costi per le importazioni. Per quanto riguarda i parametri di Maastricht credo che in presenza di un mercato finanziario che al momento non sta dando fiducia al ‘debitore Italia’ è meglio che tiriamo la cinghia altrimenti il peso degli interessi che dovremmo pagare finiranno per diventare insostenibili.

      • marcello

        La cinghia devono tirarla le classi alte che anche con le varie crisi hanno visto aumentare i loro patrimoni. Ma apriti cielo se qualcuno parla di imposta patrimoniale. E gli evasori, non quelli di necessità, ma quelli che dichiarano dei redditi risibili e poi hanno la Mercedes e hanno un tenore di vita che un impiegato non raggiungerà mai. Questa classe politica non ha la minima voglia di redistribuire il reddito.

  13. Matteo

    Il problema della bassa produttività purtroppo non è un fenomeno esogeno al sistema paese. Chi non si fosse accorto, per vantaggio o per ignoranza, i nodi posti dal cambio imposto per l’igresso nell’euro, stanno venendo al pettine.. L’euforia degli imprenditori del primo periodo, quando ,cito le voci del popolo(si sono fatti i soldi) si è presto scontrata con la situazione reale del paese, e vengo ad un esempio banale, ma che riassume il tema della domanda interna. Il sig. Rossi percepiva un milione e mezzo di lire come stipendio, e pagava il kg di pane 1500 lire, dopo l’ingresso nell’euro, il suo stipendio è diventato 800 euro circa, ma il suo Kg di pane ha seguito la parita perfetta nel cambio , costando 1,50 euro cioè 3000 delle vecchie lire. Ora con il potere di acquisto ridotto della metà e le retribuzioni di fatto dimezzate, come può il panettire sperare di vendere più pane.. Gli imprenditori oggi stanno pagando la speculazione iniziale , di cui nessuno parla, perche lo stesso stato è stato pronto a trasformare tasse e balzelli in euro, raddoppiando il gettito fiscale..La spirale in cui siamo entrati, si risolve solo in un modo. Sovranita monetaria ed uscita dall’euro.

    • Maurizio Cocucci

      Non seguo il suo ragionamento. I salari nominali sono aumentati e non sono rimasti costanti come fa credere lei con l’esempio del lavoratore, il problema è che questo aumento è stato assorbito dall’inflazione e dall’aumento della pressione fiscale. I tedeschi, che se la passano certamente meglio di noi, hanno visto il livello dei loro salari reali diminuire però come è scritto nell’articolo hanno comunque un potere d’acquisto ancora maggiore rispetto al nostro.
      Per ciò che concerne la sovranità monetaria credo che ci sia molta confusione sull’argomento, perchè questa se vogliamo non c’era neppure con la lira! Mi spiego, la sovranità monetaria che si intende è quella che lo Stato quando è in deficit anzichè procurarsi il denaro sui mercati, subendo così la fiducia o meno degli stessi, si stampa i soldi autonomamente. Praticamente ciò che avveniva prima della privatizzazione della Banca d’Italia del 1981, con il risultato che avevamo tassi di inflazione e di interesse elevati. Il sistema ha retto in qualche modo perchè il debito pubblico era ancora relativamente basso e la crescita del PIL era comunque a livelli ben maggiori di quelli possibili oggi. Negli anni ’60 e ’70 era ancora in corso la rinascita del Paese dal dopoguerra e il mondo era diviso in 2. Oggi il mercato è globalizzato e se pensiamo che con un ritorno ad una valuta nazionale la Fiat faccia rientrare le sue produzioni in Italia così come le migliaia di imprese italiane che hanno in questi anni delocalizzato per stare sul mercato ci sbagliamo di grosso.

      • matteo

        Lei è sicuro che i salari reali sono aumentati..? ha potuto verificare da quanto tempo non si rinnova un contratto di lavoro, e non parlo nell’impiego pubblico dove sono fermi ormai da 5 anni, ma nel privato..?Vede il problema della banca centrale pubblica, sta alla base del debito e non solo, il meccanismo che lei ha citato , era uno dei fattori di quella crescita checchè se ne dica. Il signoraggio bancario dalla privatizzazione in poi , ha fatto lievitare il debito pubblico che oggi conosciamo, e che cresce ormai in maniera incontrollata, dalla nascità dell’euro. Non mi pare di aver assistito a nessuna riduzione dei prezzi, e nessuna riduzione del debito, dalla perdità di sovranita della moneta. Io dico, ma ovviamente da profano dell’economia classica” posso sbagliare, che un ritorno ad una banca centrale pubblica avrebbe dei risvolti, anche per quanto attiene i mercati, lo stesso SME di nuova istituzione altro non è, che un nuovo organismo finanziario privato che presta soldi ad interesse, soldi che gli stati, ed in ultima analisi i cittadini conferiscono allo stesso fondo. Cosi il debito non si ridurra mai, è una balla pazzesca” quella della riduzione attraverso la politica di bilancio, se la moneta non è nostra, ma ce la prestano dietro il pagamento di un interesse. La globalizzazione di cui lei parla niente ha a che fare con la crisi dei mercati odierni, le merci hanno sempre viaggiato, ciò che è alla base della crisi odierna è la speculazione finanziaria”leggasi bancaria”.

    • Gian Pietro

      I prezzi possono essere raddoppiati (alcuni) il primo periodo, questione di mesi credo, perché poi evidentemente quando (per seguire il tuo esempio) il panettiere vede che a prezzo doppio non vende, oppure vende molto meno, abbasserà i prezzi, legge della domanda e dell’offerta. E poi se tutti i prezzi fossero raddoppiati all’improvviso e poi rimasti tali, credi forse che saremmo potuti andare avanti per 20 anni? Saremmo morti di fame dopo poco tempo, visto che non credo che prima dell’Euro un lavoratore medio riuscisse a tiurare avanti con metà dello stipendio.

  14. Paolo

    non si parla però dell’intensità energetica del ns paese un parametro che identifica il costo dell’energia. La produttività non dipende solo dal costo del lavoro ma anche da quello dell’energia. In Italia i costi dell’energia elettrica sono i più alti d’europa

  15. Mario Rossi

    Cominciate a depurare i dati della produttività dai 5 milioni di lavoratori pubblici che non producono alcunchè e poi rifate i conti!! rimarrete esterrefatti

  16. Maurizio Cocucci

    Io ho parlato di salari nominali, che sono indubbiamente aumentati così come si può osservare dal grafico. Quelli reali sono aumentati anch’essi ma di poco e proprio causa inflazione. Se poi aggiungiamo l’aumento della pressione fiscale e il taglio di servizi pubblici che hanno gravato entrambi sulle tasche di molti redditi minori, ecco che si spiega buona parte del calo della domanda interna, motivo principale della crisi che attraversiamo. La tempesta finanziaria ha solo dato uno scossone ad un sistema malato da decenni, ma come avviene per i temporali atmosferici prima o poi passano. Noi se vogliamo tornare a crescere e vedere un po’ di sole dobbiamo capire le vere cause della crisi, che risiedono in un sistema che deve essere profondamente riformato così come fece la Germania dal 2002 al 2004 sotto la cancelleria di Gerhard Schröder, riforme che permisero ai tedeschi di incrementare sensibilmente la produttività dal 2005 (visibile nel grafico qui pubblicato) e superare sia noi che i francesi in competitività (la Germania a fine millennio era considerata la malata d’Europa).Per ciò che concerne la globalizzazione, essa è proprio una delle cause della crisi del nostro apparato produttivo, rimasto legato a prodotti dal basso valore aggiunto. Globalizzazione infatti non significa trasportare semplicemente una merce all’altra parte del mondo, ma confrontarsi con mercati e competitors sempre più agguerriti. Noi possiamo disegnare bellissime calzature, ma è impensabile produrle oggi in Italia. La questione del signoraggio è stata chiarita abbondantemente smentendo molte credenze. Gli interessi che vengono pagati alla BCE, vengono da questa in gran parte ripartiti alle rispettive banche centrali nazionali e a loro volta versati ai rispettivi governi (secondo gli ultimi bilanci della Banca d’Italia più della metà degli utili sono stati dati allo Stato).

  17. Maurizio Cocucci

    Non facciamo demagogia. Che ci sia un sovrannumero in alcuni settori/enti della PA è vero, ma la sua è una osservazione piuttosto pesante. Piuttosto si documenti lei come viene calcolata la produttività qui rappresentata, che riguarda il settore privato, e rimmarra esterrefatto.

  18. Massimo Matteoli

    Complimenti per l’articolo.
    I dati sulla “produttività” mi fanno, però, nascere un dubbio che sottopongo agli autori.
    Se questi numerii sono (come penso siano) attendibilii, com’è possibile che le imprese italiane sui mercati esteri, dove si confrontano con la migliore concorrenza staniera, segnino da anni risultati più che positivi, spesso superiori ad ogni aspettativa e non solo – come si potrebbe pensare – nella moda e nel design ma anche nei macchinari e nelle attrezzature?
    Cosa ci consente, nonostante ogni prevedibile ragione, di continuare ad essere tra i protagonisti del commercio mondiale?
    La risposta, che io non so dare, mi sembra fondamentale per capire quali siano i veri punti di forza e di debolezza del nostro sistema produttivo.

  19. va bene l’analisi, ma quali le soluzioni ?

  20. Massimo Consorti

    Anche un bambino capisce un errore grave nell’analisi, avete messo un grafico che faceva vedere gli incrementi percentuali dei salari, per poter dire che i salari in Germania sono cresciuti meno rispetto all’Italia, ma l’incremento effettivo come è stato? Percentualmente saranno forse cresciuti meno ( forse) ma partivano da circa il doppio, quindi in realtà sono cresciuti di più. L’analisi è inaccettabile, anche perchè viene taciuto che il management delle aziende italiane non è stato capace di custodire e far crescere i propri brand, politiche di non qualità, poco lungimiranti, adesso di fronte alla crisi dei mercati e senza dei brand forti, è ovvio che devono vendere tutto a prezzi ultrascontati, allora diminuisce la produttività, a questo aggiungi impianti che vanno pure a singhiozzo, ed ecco i costi per unità che aumentano. Se si rimane confinati in prodotti a scarso valore aggiunto la produttività in tempi di crisi può solo scendere , non serve un premio Nobel.

  21. Paolo

    Scusate, mi sfugge come mai i primi 4 grafici partano da una base comune 100 e i seguenti no. A mio avviso o tutti a base 100 o su valori ‘reali’. Se no, così come sono, creano dei bias che viziano i ragionamenti, le conseguenze e anche i commenti.

  22. luca

    Secondo me, il mancato aumento della produttività è imputabile alla mancata crescita dei ricavi delle aziende. In parte a causa del calo dei consumi interni e, in parte, alla dovuta diminuzione delle esportazioni imputabili ad una minor competitività venutasi a manifestare con il venir meno delle politiche di svalutazione competitiva della lira non più possibili con l’entrata nell’euro.

  23. Luca Solari

    Esistono analisi comparative sulla diffusione dei modelli di organizzazione del lavoro a maggiore produttività che da tempo illustrano la componente “organizzativa” di questo gap.
    In Italia persistono modelli tradizionali o tayloristi di organizzazione del lavoro che possono rappresentare una delle cause di questo differenziale. Purtroppo, il dibattito pubblico e l’azione politica si orienta quasi sempre al tema del costo del lavoro e alla regolazione del rapporto di lavoro, trascurando la componente di processo. Esiste un evidente gap di capacità di diagnosi e di definizione di una prognosi riconducibile ad una scarsa comprensione dell’impatto della dimensione organizzata dell’attività produttiva e del lavoro.

  24. Alessio Calcagno

    Mi piacerebbe capire: quali sono i fattori che influenzano la produttività di una economia?

  25. Fabrizio - Cambridge (UK)

    Secondo me l’articolo e’ ben fatto e spiega in modo semplice e chiaro alcune dinamiche economiche fondamentali, ci sono pero’ due cose importanti che secondo me non sono state dibattute:
    1) Riprendendo un commento sotto e’ chiaro che confrontando salari nominali e reali (tenendo conto dell’inflazione) con un base 100 nel 2000 per tutte e tre le nazioni si perde l’informazione fondamentale che gia’ nel 2000 gli stipendi in valore assoluto erano molto piu’ alti in Francia e soprattutto in Germania che in Italia e quindi l’aumento relativo dal 2000 ad oggi degli stipendi in Italia rispetto alla Germania tradotto in valore assoluto e’ non significativo o addirittura inesistente.
    2) La curva di produttivita’ dell’Italia, non in crescita e con un offset molto evidente rispetto a Francia e Germania e’ decisamente sospetta e a mio avviso e imputabile alla situazione peculiare Italiana dove il lavoro nero incide molto piu’ che negli altri paesi europei. Questa osservazione e’ stata piu’ volte fatta anche da economisti di primo piano come Krugman. In sostanza la curva di produttivita’ Italiana e’ sottostimata, e quindi risulta un’illusione statistca.
    Il lavoro nero secondo uno studio CGIL impatta il 17% del PIL Italiano ( all’incirca come l’evasione fiscale) contro una media del 4% negli altri paesi Europei avanzati.
    Guardando i dati dell produttivita’ per regione in Italia si vede subito come ci sia una correlazione tra regioni a bassa produttivita’ e ad alta incidenza del sommerso (nel sud Italia e’ stimato al 90% delle ore lavorate, contro un 30% al Nord e un 50% al centro).
    3) Da quano detto mi spingo a dire che e’ sull’emersione del lavoro nero che il governo dovrebbe focalizzare gli sforzi per risollevare le sorti dell’economia Italiana; essendo il cuneo fiscale prossimo al 50% in Italia i mancati introiti per il governo e per gli enti di previdenza dovuti al sommerso sono notevoli; inoltre essendo il cuneo fiscale in Italia piu’ basso rispetto ai nostri naturali concorrenti manufatturieri (e mercati target per le esportazioni) Francia e Germania credo che parlare di gap di competitivita’ per l’Italia sia in realta’ solo un mezzo problema. L’emersione del nero porterebbe molti soldi nelle casse statali permettendo una certa riduzione del cuneo fiscale ma soprattutto una sua rimodulazione per aumentare gli stipendi in valore assoluto (fondamentale per attrarre eccellenze dall’estero e fermare la fuga delle eccellenza Italiane verso l’estero) e rilanciare cosi’ la spesa interna.

  26. Mauro Peveri

    Premesso che faccio i complimenti all’analisi faccio osservare che se abbiamo un divario di produttivitá cosi marcato é probabilmente anche causa dei diversi prezzi di vendita dei prodotti. Un audi viene venduta a circa 10.000 in piu di un alfa dello stesso segmento per cui la produttivitá tedesca risulta essere decisamente superiore. Quindi il divario Italia – germania é in parte da attribuire alla qualitá dei prodotti venduti. Sarebbe poi interessante confrontare la voce investimenti altro elemento che incide fortemente sull’andamento della produttivitá.

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