Sotto l’egida dell’Ocse, il cammino per arrivare a una tassazione più equa delle multinazionali ha fatto un altro passo avanti. Le principali economie mondiali hanno raggiunto un nuovo accordo che definisce meglio i contorni di quanto stabilito a luglio.
Il nuovo accordo
L’agognato accordo fra le principali economie mondiali, riunite sotto l’egida dell’Ocse, per una tassazione più equa delle multinazionali ha fatto un ulteriore passo avanti.
Nel luglio scorso si era concordato di procedere con la Two-Pillar Solution, cioè con la proposta (i) di tassare nei paesi-mercato i profitti delle multinazionali indipendentemente dall’esistenza di una entità fisica nel paese-mercato (Pillar One) e quella (ii) di applicare una minimum tax del 15 per cento sui profitti tassati localmente con aliquota inferiore a questa, così da ridurre l’appetibilità dei paesi a troppo bassa tassazione (Pillar Two) .
L’accordo tuttavia, ancorché decisivo, presentava una evidente matrice politica e lasciava un po’ troppo nel vago le concrete soluzioni che lo avrebbero dovuto accompagnare. Ma ecco che l’8 ottobre scorso l’Ocse torna sul punto e fa l’atteso passo avanti.
Viene confermato, innanzitutto, che il Pillar One si applica solo alle multinazionali con più di 20 miliardi di euro di volume d’affari e con profitti superiori al 10 per cento del relativo fatturato. La soglia di ingresso basata sul fatturato verrà abbassata a 10 miliardi di euro fra sette anni se la soluzione ora prevista darà buoni risultati. Ne sono escluse le imprese estrattive (leggi petrolifere) e quelle soggette a regimi regolati (leggi banche e assicurazioni). Mentre, all’origine, questo sistema di tassazione era riservato alle imprese “digitali” – con tutte le complicazioni di identificazione -, parrebbe oggi esteso a tutte quelle che realizzano ricavi e profitti delle dimensioni citate indipendentemente dal settore operativo. Sono, peraltro, escluse le attività realizzate in paesi da cui deriva un fatturato minimale (meno di 1 milione di euro; 0,25 milioni se il Pil è inferiore a 40 miliardi). L’Ocse indica in circa cento le multinazionali che presentano oggi queste caratteristiche e in 125 miliardi di dollari l’anno la fetta di profitto attribuibile ai paesi-mercato.
La ripartizione tra paesi-mercato
Il regime in questione prevede una ripartizione convenzionale del diritto a tassare il profitto mondiale come segue. Il profitto mondiale viene segmentato in più parti. Una prima quota, misurata in un importo pari al 10 per cento del fatturato globale, è tassabile nel paese di provenienza della multinazionale. La parte che residua (residual profit) – che sarà molto significativa per le imprese più profittevoli; trascurabile per le altre – è tassabile per il suo 25 per cento nei paesi-mercato anche se ivi manca un’entità fisica. Questi indicatori – necessari per definire il cosiddetto Amount A del Pillar One – erano forniti in modo assai generico a luglio, mentre sono precisati oggi in termini ben più netti.
La conseguenza principale è che il profitto globale suscettibile di questa attribuzione – un importo valutato dall’Ocse in ben 125 miliardi di dollari – sarà assegnato ai paesi-mercato per la relativa tassazione (taxing rights). Se queste valutazioni sono fondate, significa che un importo dell’ordine di 31,25 miliardi di dollari l’anno verrà attribuito, per essere ivi tassato, ai paesi-mercato con le aliquote a essi proprie. La divisione dell’importo totale fra i vari paesi-mercato avverrà sulla base del fatturato quivi realizzato. Il computo in questione, che potrebbe risultare non semplicissimo, è affidato a una entità giuridica designata dalla multinazionale che dovrebbe rapportarsi a una entità amministrativa da definire. Originariamente si era ipotizzata una entità sovranazionale composta da funzionari appartenenti a una pluralità di stati. Le attuali comunicazioni non vi fanno menzione, anche se si afferma che la definizione dell’Amount A e della relativa ripartizione avverrà in maniera definitiva così da non far emergere contestazioni (auguri!).
Nulla si dice con riferimento alla parte che ulteriormente residua: cioè al 75 per cento del residual profit che non forma oggetto di taxing rights attribuiti ai paesi-mercato. In assenza di altre indicazioni, dovrebbe essere tassato secondo i meccanismi convenzionali attuali (che non vengono revocati). Il che vuol dire: tassazione nel paese della casa madre, salvo che vi siano controllate estere o stabili organizzazioni dichiarate in paesi esteri che verrebbero ordinariamente tassate in base agli eventuali redditi ivi dichiarati.
In cambio dell’adozione del nuovo regime gli stati membri si impegnano ad abrogare la digital service tax – se ne hanno adottata una, come nel nostro caso – ovvero a rinunciare al suo varo se ne avessero manifestato l’intenzione.
Il nuovo regime entrerebbe in vigore nel 2023. A tal fine si prevede la redazione di una sorta di convenzione multilaterale che gli stati aderenti approverebbero quale integrazione dei vigenti trattati contro le doppie imposizioni. Operazione che in Italia comporterebbe l’approvazione di una legge ad hoc modificativa di tutte le leggi di recepimento dei Ttattati attualmente operanti con l’aggiunta dell’abrogazione dell’attuale imposta sui servizi digitali.
La Global Minimun Tax
Per la Global Minimum Tax (Pillar Two) si conferma, innanzitutto, che ha un’estensione ben diversa spaziando sulle multinazionali con volume di ricavi superiore solo a 750 milioni di euro. Renderebbe disponibile per la sua applicazione un importo dell’ordine di 150 miliardi di dollari l’anno. Il meccanismo pare abbastanza semplice. Se nel paese X si paga meno del 15 per cento, il paese d’origine della multinazionale (Y) ha diritto a prelevare sui redditi prodotti nel paese X un importo aggiuntivo tale da raggiungere complessivamente un prelievo pari al 15 per cento del reddito prodotto in X. Importante, però, è la specificazione che la base di calcolo della sua applicazione è l’imposta effettivamente applicata e non l’aliquota nominale applicabile nel paese X. Il che finirà per attrarre nel regime in questione anche filiali operanti in paesi apparentemente “normali”. La bassa aliquota effettiva potrà trovare accettabili giustificazioni (Ace, terremoti, pandemie, coordinamento col GILTI americano, e così via). Questa materia è tuttavia solo accennata e richiede evidenti perfezionamenti. La Minimum Tax prevede, infine, alcune eccezioni (non si applica alle attività di shipping) e un approccio temporale gradualistico – basato sulle dimensioni delle immobilizzazioni e le spese di personale – per non danneggiare eccessivamente imprese che si affacciano solo ora sui mercati internazionali. Approccio comprensibile, ma inevitabilmente destinato a suscitare sgradevoli confronti e discussioni. La via, però, sembra ormai tracciata. Si applicherà dal 2023.
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Marcello Sabioneta
Articolo chiaro anche per non addetti. Grazie.
Novità che mi pare positiva anche se con aree ancora da chiarire come citato.