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Passo avanti per il nuovo Codice delle pari opportunità*

Anche il Senato ha approvato la proposta di legge di modifica del Codice delle pari opportunità. Al centro ci sono le misure sulla promozione della parità salariale. Ma l’uguaglianza di genere continua a essere vista come un costo per le imprese.

Il nuovo Codice è legge

Dopo l’approvazione della Camera dei deputati, il 26 ottobre anche il Senato ha approvato la proposta di legge di modifica del Codice delle pari opportunità, che introduce ulteriori disposizioni volte a favorire l’uguaglianza di genere nel mercato del lavoro (“Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo”).

Le misure sulla promozione della parità salariale sono al cuore della proposta di legge, che pure tocca altri aspetti, come quello della applicazione delle quote di rappresentanza di genere nelle società controllate dalle pubbliche amministrazioni per ulteriori tre mandati e con una soglia del 40 per cento, come avviene per le società quotate.

Divario di retribuzione, un problema del settore privato

I divari di genere nelle retribuzioni e nell’occupazione testimoniano l’assenza di una parità effettiva tra uomini e donne nel mercato del lavoro. A fine 2020 l’Italia registrava uno dei peggiori tassi di occupazione femminile nell’Unione europea (48,5 per cento), meglio solo della Grecia e ben 14 punti percentuali al di sotto della media europea. Secondo i dati Eurostat, i differenziali salariali in Italia sono del 4,7 per cento contro una media nell’Unione europea del 14,1 per cento, ma le differenze tra settore pubblico e privato sono enormi: 3,8 per cento nel primo e 17 per cento nel secondo. La riduzione dei differenziali salariali di genere chiama quindi in causa il settore privato e le dinamiche retributive all’interno delle imprese, e bene fa la proposta di legge a concentrarsi su di esse.

In Italia, il Codice delle pari opportunità obbligava fino a oggi le imprese con più di cento dipendenti a stilare un rapporto almeno biennale sulla situazione del personale maschile e femminile in termini di occupazione e retribuzione. La soglia dell’obbligo scende ora a 50 dipendenti e il rapporto dovrebbe essere biennale, con la facoltà per le imprese di minori dimensioni di stilare la relazione su base volontaria.

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La modifica della soglia dimensionale comporta un ampliamento della platea di imprese tenute a comunicare i dati per genere su remunerazione e inquadramento dei propri dipendenti. Un ampliamento assai significativo, poiché si passa dalle circa 13 mila imprese con più di 100 dipendenti alle 31 mila con più di 50 dipendenti. L’aspettativa è che l’estensione dell’obbligo renda più efficace il perseguimento dell’obiettivo dell’uguaglianza di genere nelle retribuzioni. D’altro canto, il divario salariale di genere cresce significativamente con la dimensione dell’impresa. È pari al 15 per cento nelle imprese tra 50 e 100 dipendenti, finora non coperte dagli obblighi del Codice delle pari opportunità, sale al 18 per cento per quelle tra i 100 e i 500 e arriva al 23 per cento per quelle oltre i 500 dipendenti (mentre per le imprese fino a 15 dipendenti è il 6 per cento). Questo testimonia come la struttura verticale dell’organizzazione e le diverse opportunità di progressione di carriera per uomini e donne siano un elemento cruciale della disuguaglianza di genere nei salari. Il principio della “stessa paga per stesso lavoro, o lavoro di uguale valore”, richiamato anche nella proposta per la direttiva sulla trasparenza salariale della Commissione europea, non garantirebbe – anche se rispettato – la eliminazione dei differenziali salariali di genere.

Lavori di ricerca su Portogallo (condotti dal Nobel David Card e suoi coautori), Francia e anche Italia mostrano che le disuguaglianze salariali all’interno delle imprese influenzano in modo significativo la disuguaglianza di genere. Essere trasparenti sull’inquadramento di uomini e donne nell’organizzazione aziendale può però contribuire a ridurla. Alcuni studi sul Regno Unito, che ha introdotto per le imprese con più di 250 dipendenti l’obbligo di pubblicare annualmente i dati relativi al gender pay gap, evidenziano che la politica di trasparenza ha ridotto il differenziale salariale di genere nelle imprese interessate dagli obblighi rispetto a quelle che non lo sono, oltre ad aver spinto le imprese coinvolte dalla riforma a pubblicare annunci di lavoro più attenti al linguaggio di genere o con maggiori opportunità di flessibilità nell’organizzazione del lavoro.

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Il premio alle imprese “eque”

La pubblicazione dell’elenco delle aziende che ottemperano o meno all’obbligo è un’altra innovazione introdotta dalla proposta di legge. La visibilità dell’elenco richiama un meccanismo di “name and shame”, che può forse avere maggiore efficacia per le imprese di grandi dimensioni, ma che è una premessa, insieme alla previsione di sanzioni, anche queste praticamente assenti nell’attuale Codice, per l’efficacia dell’obbligo. Al di là dell’elenco, sarà però necessario che le informazioni puntuali raccolte nelle relazioni siano verificate e analizzate, affinché la relazione non sia un vuoto adempimento.

All’obbligo della redazione della relazione per le imprese con un minimo di 50 dipendenti si accompagna l’istituzione di una certificazione della parità di genere dal gennaio 2022, per riconoscere le aziende che si muovono nella direzione di una maggiore parità tra generi. Il bastone e la carota. I dettagli sui requisiti da soddisfare per ottenerla sono demandati a futuri decreti, mentre risorse sotto forma di sgravi contributivi sono destinate, entro certi limiti, alle imprese certificate come eque. Mentre la visibilità per i percorsi virtuosi è condivisibile, il “premio” monetario suggerisce che serve ancora tempo per arrivare al momento in cui l’uguaglianza di genere non sia considerata un costo per le imprese (per cui devono essere compensate), ma un vantaggio.

* Una versione breve di questo articolo è apparsa in contemporanea su Domani.

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  1. EMILIO

    MI DISPIACE CHE CONTINUA LA “GUERRA DELLE DONNE ” IN UN MODO PIUTTOSTO SCIALBO E CHE NON GIUNGE AGLI OBIETTIVI. COME SI PUò PENSARE DI MISURARE LA DIFFERENZA SALARIALE SENZA VEDERE DA COSA E’ REALMENTE DETERMINATA? COME SI PUO’ PENSARE CHE LE DONNE VENGONO PAGATE MENO SOLO PERCHE’ DONNE? TUTTE LE ANALISI NON TENGONO CONTO DI TANTI FATTORI AD ES. CHE LE DONNE USUFRUISCONO MAGGIORMENTE DI ALCUNI SUPPORTI (ES. CONGEDO MATERNITA’) CHE NON RIESCONO A COMPENSARE LA DIFFERENZA CON LO STIPENDIO ORDINARIO PERCEPITO. NON ESISTE UNA ANALISI CHE CONFRONTA IL REDDITO TRA UOMINI E DONNE A PARITA DI ORE LAVORATE. LAVORO DA 33 ANNI E NON HO MAI VISTO DISCRIMINAZIONI LEGATE AL SESSO D’ALTRA PARTE I CONTRATTI BASE DI TUTTE LE CATEGORIE NON SONO CERTO DIFFERENTI TRA UOMINI E DONNE. DETTO QUESTO LA LEGGE APPROVATA E’ MOLTO PILATESCA E SERVE SOLO PER LAVARE LA COSCIENZA DI UNA INTERA CLASSE POLITICA DAI PROBLEMI CHE EFFETTIVAMENTE RISCONTRANO TUTTE LE FAMIGLIE ITALIANE DOVE TUTTI I SUPPORTI SONO DIVENTATI IRRANGIUNGIBILI AD ES GLI ASILI NIDO SPOSTANDO LA QUESTIONE SULLA PARITA’ SALARIALE CON LA PUBBLICAZIONE DELLE DITTE CHE LA PRATICANO ….!!! UNA COMPLETA ED INUTILE ASSURDITA’ CERCHINO INVECE SOLUZIONI CHE SUPPORTINO LE FAMIGLIE CON LE LORO ESIGENZE IN PARTICOLARE CON I FIGLI (ES. SCUOLE APERTE ANCHE IL POMERIGGIO E NEI MESI ESTIVI NEGLI ORARI E NEI MESI IN CUI TUTTI LAVORANO, IMPIANTI SPORTIVI BEN FUNZIOANTI ECC.).

    • Luca Neri

      Emilio, sono completamente d’accordo con lei. Si costruiscono carriere accademiche, giornalistiche e politiche su una questione inesistente, posta in modo surrettizio e manipolatorio. Forse lei avrà visto i criteri per l’assegnazione dei fondi del PNRR: i progetti devono necessariamente impiegare oltre il 40% di donne, un criterio assolutamente impossibile da soddisfare in alcuni settori a meno di reclutare emerite incapaci solo in quanto donne. Con questo tipo di provvedimenti discriminatori si pensa di poter risolvere il problema dell’occupazione femminile nel nostro paese? Piccolo indizio: in USA dove le donne hanno diritto a 12 settimane di maternità non retribuita il 52% dei dirigenti sono donne e il tasso di occupazione è simile. Tuttavia le donne, persino in quel paese, continuano a lavorare meno ore. Vogliamo arrenderci ai fatti o vogliamo continuare a promulgare leggi sulla base di fondamenti ideologici completamente svincolati dalla realtà empirica?

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