Si dice spesso che ci sono due Italie: il Centro-Nord, più industrializzato e ricco, e il Sud, più povero e caratterizzato da bassa crescita. Ma la geografia della disuguaglianza di reddito è molto più complessa, come mostrano i risultati di uno studio.
Le due Italie
La narrativa delle due Italie, che ci racconta di ampie differenze di reddito tra Nord e Sud del paese, è conosciuta a livello internazionale. A un Centro-Nord più industrializzato, più ricco e dotato di servizi più efficienti, si contrappone un Sud rappresentato come omogeneamente più povero, meno sviluppato, caratterizzato da una bassa crescita. Ciò contribuirebbe a spiegare le disuguaglianze di reddito che negli ultimi decenni, in Italia come nella maggior parte dei paesi occidentali, si sono aggravate, accrescendo il divario tra i ricchi e i poveri. Ma quando si considera la geografia è davvero ancora soltanto una questione Nord-Sud?
Differenze in provincia
In un nostro recente lavoro, utilizziamo i dati dell’universo dei lavoratori italiani impiegati nel settore privato forniti attraverso il programma VisitInps Scholars e definiamo come misura di disuguaglianza la varianza del reddito da lavoro (espresso in logaritmo) ricevuto in un anno. Decomponiamo la misura in due fattori: una parte dovuta alle differenze di reddito tra province e una parte dovuta alle differenze di reddito all’interno delle province, per capire da dove origini la parte predominante della disuguaglianza.
Nel 1985, la varianza di reddito tra province rappresentava il 3,93 per cento della varianza totale, mentre il rimanente 96,07 per cento era attribuibile alla varianza all’interno delle province. Nel 2018, la varianza di reddito tra province rappresentava il 3,02 per cento della varianza totale. Questi numeri ci dicono che le differenze provinciali, negli anni Ottanta come oggi, sono marginali nello spiegare le differenze salariali dei lavoratori italiani in uno specifico anno (cross-section). Se è vero che ci sono differenze sostanziali tra i redditi medi nelle province più ricche e in quelle più povere, sono però le differenze al loro interno a essere di gran lunga più importanti. La differenza tra il reddito medio in provincia di Milano e in provincia di Napoli è molto minore rispetto alla differenza di reddito tra l’individuo più povero e quello più ricco che vivono in provincia di Milano (o di Napoli). I nostri risultati rafforzano l’evidenza fornita in alcuni studi precedenti di una maggiore disuguaglianza interna alle regioni e province italiane, rispetto alla disuguaglianza tra regioni e province. Una possibile spiegazione potrebbe derivare dal fatto che le province italiane si differenziano di più nei tassi di disoccupazione/occupazione che nei livelli salariali.
Differenze nel reddito di tutta la vita lavorativa
Per esplorare questa possibilità, calcoliamo il reddito totale dei lavoratori durante tutta la loro carriera lavorativa (e non solo in un anno), includendo pertanto non solo i periodi di occupazione ma anche quelli di non-occupazione, in cui i soggetti potrebbero risultare percettori di misure a sostegno del reddito. Utilizziamo un campione di lavoratori italiani (circa il 13 per cento della popolazione totale), che include lavoratori nel settore privato, pubblico e lavoratori autonomi. Per questi soggetti, osserviamo gli estratti conto contributivi, che includono non solo informazioni sul reddito da lavoro, ma anche sui benefici percepiti durante la loro vita lavorativa (sussidi di disoccupazione, maternità, malattia, cassa integrazione e altro). Ci concentriamo sulla coorte di lavoratori nati nel 1960 e calcoliamo il reddito totale attualizzato, definendo come misura di disuguaglianza la varianza del reddito totale durante tutta la carriera lavorativa (espresso in logaritmo). Assegnando ciascun lavoratore alla provincia di nascita, calcoliamo, come nell’esercizio precedente, la percentuale della varianza di reddito attribuibile alla differenza tra province e quella all’interno delle province. Mentre la percentuale tra province è incredibilmente piccola e pari al 3,4 per cento, quella all’interno delle province è molto più rilevante e pari al 96,6 per cento. Come per l’analisi cross-section, è importante sottolineare come ci siano differenze sostanziali tra i redditi accumulati durante l’intera vita lavorativa nelle province più ricche e in quelle più povere, però le differenze di reddito all’interno delle province hanno un ordine di grandezza decisamente più grande. A questi risultati si giunge considerando sia i soli lavoratori del settore privato sia tutti i lavoratori, quindi anche quelli pubblici e gli autonomi. Inoltre, i risultati sono comparabili sia quando consideriamo solo i redditi da lavoro sia quando includiamo anche i benefici.
Migrazioni e differenze di genere
Si potrebbe pensare che il risultato sia dovuto alla migrazione: un’estesa percentuale di lavoratori potrebbe essersi infatti spostata verso province più ricche, limitando pertanto il ruolo della provincia di nascita nello spiegare la disuguaglianza. Ripetiamo quindi il nostro esercizio attribuendo i lavoratori all’ultima provincia dove hanno versato i contributi. Il risultato che otteniamo è molto simile: la percentuale della varianza del reddito di tutta la vita lavorativa attribuibile alla differenza tra province è pari al 4,2 per cento. Questo ci porta a pensare che la migrazione non sia un fattore cruciale per il nostro risultato.
Le disparità di genere ancora una volta giocano una parte importante: le differenze tra province sono più rilevanti per le donne rispetto agli uomini. La percentuale della varianza di reddito tra province è pari all’1,8 per cento tra gli uomini, mentre sale al 7,1 per cento nel campione di sole donne. Questi numeri rispecchiano una forte eterogeneità nell’occupazione femminile tra il Nord e il Sud Italia, dove la partecipazione femminile al mercato del lavoro è ancora molto bassa e le carriere lavorative risultano maggiormente frammentate.
La nostra analisi mostra come la vera geografia della disuguaglianza reddituale in Italia sia molto più complessa del divario Nord-Sud. I dati documentano un ruolo marginale della componente tra province, a fronte di una componente interna alle province di gran lunga più importante. Il nostro risultato evidenzia la necessità di nuovi tipi di politiche da introdurre a fianco di quelle attuali place-based a sostegno del Mezzogiorno se si vuole ridurre la disuguaglianza di reddito in Italia. E dà spunti di riflessione al recente dibattito sulla opportunità di una modernizzazione della contrattazione collettiva, come discusso in recenti articoli pubblicati su lavoce.info e sul Menabò.
* Le opinioni espresse sono esclusivamente degli autori e non riflettono necessariamente quelle dell’istituzione di appartenenza.
Questo articolo è apparso contemporaneamente sul Menabò di Etica Economia.
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Paolo
Fino a che gli stipendi pubblici saranno uguali in tutte le province d’italia, sarà normale avere risultati come quelli dell’articolo: essi agiscono da calmiere e da riferimento per tutte le carriere lavorative. Peraltro essendoci livelli di ingresso stipendiali più alti nel pubblico, province poco sviluppate dove la maggior parte dei lavoratori è impiegata come pubblico dipendente probabilmente mostrano livelli di reddito più alti (un po’ come accade ai salari medi che aumentano quando vengono licenziati i lavoratori più poveri: ma la crisi ovviamente è più nera).
La vera differenza in termini di sviluppo, come anche gli autori intuiscono, non è quanto guadagna chi è impiegato, ma quanti sono gli impiegati (e di converso i disoccupati e gli scoraggiati).
Probabilmente si possono ottenere risultati più interessanti e meno fuorvianti calcolando le medie e le disuguaglianze rispetto all’intera popolazione in età da lavoro (con i disoccupati contati con salario nullo, ovviamente), e non solo ai lavoratori.
Enrico D'Elia
Gli autori hanno misurato i differenziali tra i redditi da lavoro dipendente e autonomo (e per sussidi di disoccupazione) dei lavoratori regolari e con entrate maggiori di zero (altrimenti non avrebbero potuto applicare i logaritmi!). In pratica hanno escluso gli irregolari e tutti coloro che beneficiano di decontribuzioni varie (giovani, lavoratori del sud, ecc.). A questo punto, il risultato che ottengono non stupisce affatto, visto che in questo paese i contratti collettivi sono ancora nazionali e i redditi degli autonomi dichiarati all’Inps sono appiattiti geograficamente grazie a varie norme previdenziali. Già utilizzando i dati delle dichiarazioni fiscali (che risentono meno di decontribuzioni e altro) si vedono differenze territoriali molto più significative. Sarebbe molto più interessante “controllare” questo risultato per sesso, età, qualifica, settore e altro, utilizzando un banale stimatore panel. Si “scoprirebbe” così che, a parità di altre condizioni, i differenziali geografici tra i redditi da lavoro contano parecchio.
Enrico D'Elia
Se si prendono le dichiarazioni IRPEF dei dipendenti relative all’anno 2019 disaggregate per comune, si vede che la provincia di residenza spiega il 63% della varianza complessiva degli imponibili da lavoro pro-capite (il 66% dei corrispondenti logaritmi). Francamente non capisco come sia possibile che una ANOVA fatta sui dati individuali, come quella condotta dagli autori, possa dare risultati così diversi. La distribuzione dei redditi individuali all’interno di ciascun comune dovrebbe essere ben strana.
Luca Cigolini
Quindi, se la percezione che ci sia maggiore povertà in alcune province corrisponde a realtà, dovremmo concludere che la differenza sta nella distribuzione non omogenea della ricchezza?
O dovremmo cercare quale altra spiegazione?
O forse questa percezione è solo una percezione e la questione meridionale – in questo campo – non esiste più?