Sulle due sponde dell’Atlantico, l’uscita dalla politica monetaria ultra-accomodante avverrà a velocità diverse: la Fed sarà più rapida della Bce. Nell’area euro prevale la preoccupazione di non destabilizzare il mercato del debito pubblico.
Le banche centrali alle prese con la exit strategy
Le banche centrali sono impegnate nell’impostare una strategia di uscita dalle politiche ultra-espansive introdotte nella primavera del 2020 per far fronte all’emergenza pandemica. Questo avviene in un contesto particolarmente delicato, in cui da un lato vi sono ancora rischi di colpi di coda della pandemia, che consigliano una uscita prudente, dall’altro un ritorno dell’inflazione, che suggerisce una uscita più rapida. In aiuto delle banche centrali, viene l’esperienza passata: le misure introdotte nell’ultimo anno e mezzo fanno parte di un bagaglio di nuovi strumenti entrati stabilmente nella “cassetta degli attrezzi” della politica monetaria (a partire dalla crisi finanziaria del 2007-2008) e la exit strategy è già stata sperimentata. Prevede prima la riduzione degli acquisti netti di attività finanziarie, fino al loro azzeramento, poi l’aumento dei tassi di interesse di policy e, solo alla fine, la (parziale) riduzione dello stock di titoli accumulati in precedenza con il quantitative easing (Qe). È lo schema che verrà seguito sia dalla Banca centrale europea sia dalla Federal reserve.
Tuttavia, dagli annunci che le due banche centrali hanno fatto negli ultimi giorni (il 15 dicembre la Fed e il giorno seguente la Bce), è possibile prevedere diverse velocità di realizzazione dello schema. È come se le due banche centrali suonassero lo stesso spartito, ma a ritmi diversi: la Fed un andante, la Bce un adagio. Fuor di metafora, la Fed è più aggressiva, la Bce più prudente. La prima lascia prevedere un aumento dei tassi di interesse già da marzo-aprile 2022, mentre la seconda rinvia la mossa fino alla fine dell’anno prossimo. La Bce assicura in maniera esplicita il rinnovo dei titoli in scadenza, acquistati con il Pandemic Emergency Purchase Programme (Pepp), per almeno tutto il prossimo triennio. La Fed è più vaga su questo punto, probabilmente contando sul fatto che il new normal della politica monetaria statunitense già prevede il mantenimento di un ampio portafoglio-titoli. Inoltre, la Bce compensa la fine del Pepp con un rafforzamento dell’altro programma (Asset Purchase Programme – App), seppure in misura inferiore rispetto alle attese dei mercati.
La diversa velocità delle due banche centrali sembra riflettere preoccupazioni in parte diverse. La Fed è più preoccupata che la dinamica inflazionistica possa sfuggirle di mano, con un tasso di inflazione al 6,8 per cento, rispetto al 4,9 per cento della zona euro. La Bce sembra più preoccupata di un possibile ritorno della pandemia, ma soprattutto deve fare i conti con la delicata situazione dei paesi ad alto debito, come il nostro, e dell’impatto destabilizzante che una rapida uscita dal Qe potrebbe avere sul mercato del debito pubblico di quei paesi. All’interno del Consiglio direttivo della Bce i “falchi”, che premevano per un rapido abbandono del Qe, sono stati messi in minoranza (per ora).
Bce prudente
Entrando più in dettaglio, la Bce ha annunciato per marzo 2022 la fine degli acquisti netti di titoli effettuati nell’ambito del programma Pepp. Tuttavia, il reinvestimento dei proventi dei titoli in scadenza, acquistati con questo programma, continuerà almeno fino alla fine del 2024 (allungando così di un anno il roll-over). È importante anche il riferimento alla flessibilità nella politica di reinvestimento. Implica una possibile deviazione dalle capital keys (le quote proporzionali alla dimensione relativa di ciascun paese): se verrà effettivamente utilizzata, la flessibilità potrà favorire paesi ad alto debito, tra cui l’Italia.
La fine del Pepp verrà compensata con un aumento, seppure temporaneo, degli acquisti netti fatti con l’altro programma: App. Questi passeranno dagli attuali 20 miliardi a 40 miliardi al mese nel secondo trimestre del 2022, e a 30 nel terzo trimestre, per poi tornare a 20 da ottobre in avanti. I tassi di interesse di policy aumenteranno solo dopo la fine degli acquisti netti, quindi non prima della fine del prossimo anno. Il roll-over dei titoli acquistati con l’App andrà avanti per un periodo ancora più esteso.
Fed aggressiva
La Federal Reserve aveva già preso atto nei giorni scorsi, con le parole del suo presidente Jerome Powell, che l’inflazione elevata degli ultimi mesi non è un fenomeno transitorio. Lo ha confermato nel suo comunicato ufficiale del 15 dicembre, dove la parola “transitoria” è scomparsa lasciando il posto a “livelli elevati di inflazione”. Ancora più importante è la presa d’atto che l’inflazione si è mantenuta al di sopra del 2 per cento per un certo periodo di tempo (“exceeded 2 per cent for some time”). È chiaro, in queste parole, il riferimento alla strategia di average inflation targeting della Fed introdotta lo scorso anno. Prevede che, in seguito a un periodo in cui l’inflazione si collochi al di sotto dell’obiettivo del 2 per cento, com’è avvenuto in passato, ci debba essere un periodo in cui essa stia al di sopra di quel valore, per rispettare la media del 2 per cento. Ora questo requisito sembra soddisfatto agli occhi del Federal Open Market Committee (Fomc), l’organo decisionale della Fed. Sul fronte dell’occupazione, sono stati fatti progressi, ma si attende una ulteriore convergenza verso l’obiettivo della piena occupazione, peraltro mai quantificato dal Fomc. Una volta avvenuta la convergenza, la Fed potrà procedere ad aumentare i tassi di interesse, per evitare che l’inflazione in corso entri nelle aspettative degli operatori e diventi radicata nel sistema economico: se ciò accadesse, sarebbe poi difficile contrastarla. In effetti, i membri del Fomc prevedono tassi in rialzo durante il prossimo anno. Quando esattamente? La Fed ha chiarito che gli acquisti netti di attività finanziarie termineranno nel marzo 2022. È lecito attendersi che, subito dopo quella scadenza, abbia inizio la fase di rialzo dei tassi di policy, cioè del target range sul tasso interbancario (Federal Funds rate), attualmente allo 0-0,25 per cento. Nel frattempo, il portafoglio-titoli rimarrà ampio, assicurando condizioni finanziarie accomodanti ancora per lungo tempo, come indicato nel comunicato del Fomc.
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Stefano Scarabelli
Mi sembra che l’articolo evada la questione più importante: le misure annunciate dalle 2 banche centrali saranno sufficienti ad assicurare una genuina stabilità dei prezzi? Dico genuina, perché è sempre possibile cambiare il target di inflazione, se non si riesce (o non si vuole) raggiungerlo. A me sembra in specie che la BCE, con l’appoggio dei governi, stia modificando nei fatti il mandato assegnatole dal Trattato (che non è quello di garantire implicitamente i debiti pubblici, come l’articolo vorrebbe far credere) e credo che questa evoluzione sia foriera di cattivi presagi per la moneta unica.