In Europa torna lo spettro della stagflazione: uno scenario di bassa crescita e alta inflazione. Per evitare il peggio occorre che le banche centrali agiscano sulle aspettative e sul tasso di interesse reale. Due lezioni dagli anni Settanta.
Inflazione più alta e rallentamento della crescita: cioè stagflazione, il peggiore dei mondi possibili. È questo lo scenario macroeconomico paventato in Europa come risultato di due fattori: l’impennata dei costi dell’energia e il perdurare delle strozzature nelle catene del commercio internazionale.
Molti associano questo scenario a quello della “grande inflazione” degli anni Settanta, con al centro il dilemma fondamentale per le banche centrali: frenare, da un lato, l’inflazione con una politica monetaria restrittiva può causare, dall’altro, una simultanea contrazione dell’economia.
Eppure gli anni Settanta non sono trascorsi invano. Da allora, la politica monetaria ha appreso almeno due grandi lezioni su come fronteggiare gli shock stagflazionistici, cioè shock che originano dal lato dell’offerta: energia e costi di produzione sono più alti, e fanno schizzare i prezzi indipendentemente dall’andamento dal ciclo economico.
Lezione numero 1: Di fronte a shock di offerta, la politica monetaria non deve agire in modo “puntale”, bensì deve rispondere segnalando le proprie azioni future. Prendendo cioè impegni sul sentiero atteso dei tassi di interesse. Annunciare oggi ciò che farà domani e dopodomani. Questo è cruciale per gestire al meglio le aspettative di inflazione, che sono il motore principale dell’inflazione, soprattutto quando i rialzi dei prezzi coinvolgono beni molto “salienti” nel basket di consumo (benzina, elettricità, riscaldamento).
Lezione numero 2: Alzare i tassi di interesse nominali può non essere sufficiente per frenare l’inflazione. Molte banche centrali furono troppo timide negli anni Settanta con il rialzo dei tassi (e già prima delle due principali crisi petrolifere). Per frenare l’inflazione fu in realtà necessario alzare i tassi nominali al di sopra dell’inflazione, al fine di generare un rialzo dei tassi di interesse reali. Questi ultimi sono quelli rilevanti per le decisioni di consumo e investimento degli agenti, e quindi lo strumento chiave per incidere sulla domanda aggregata e, in ultimo, sull’inflazione.
La Figura 1 illustra la svolta nel regime di politica monetaria della Fed avvenuta alla fine anni Settanta (con il chairman della Fed Paul Volcker). Come si vede, dal 1979 l’evoluzione dei tassi d’interesse nominali a breve termine (controllati dalla banca centrale) eccede in modo persistente l’andamento dell’inflazione.
Una comprensibile obiezione alla lezione 2 è che un rialzo così marcato dei tassi di interesse possa causare una recessione: nel 1980-81, infatti, ci fu una contrazione dell’economia americana come effetto proprio dalla politica monetaria restrittiva.
Il punto cruciale però è un altro: la lezione 1 e 2 non sono indipendenti. Alla fine degli anni Settanta, fu necessario alzare così tanto i tassi d’interesse nominali, cioè applicare drasticamente la lezione 2 (tassi nominali più alti dell’inflazione), proprio perchè la Fed non aveva applicato prima la lezione 1 (cioè la “forward guidance sul sentiero futuro dei tassi). Arrivando così a perdere il controllo delle aspettative di inflazione. In altre parole, tardare troppo ad attuare la lezione 1 costringe a un’applicazione molto costosa della lezione 2.
Certamente la situazione corrente (in termini di dipendenza energetica e relazioni commerciali con la Russia) è diversa per l’Europa rispetto agli Stati Uniti. Ma ciò rende le lezioni apprese dagli anni Settanta ancora più rilevanti. Di fronte a shock dal lato dell’offerta (energia/supply chain) è quindi particolarmente importante, per le banche centrali, tenere dritta la barra delle aspettative. Agendo non in modo puntuale (si alzano i tassi oggi e poi domani si valuta), ma “programmatiche”: si preannuncia oggi ciò che si farà domani e dopodomani. Prendere impegni sulle decisioni future aiuta a gestire le aspettative. Che in queste fasi sono il motore principale del rialzo dei prezzi. La Fed lo ha capito, seppure in ritardo. E sta già orientando oggi gli operatori economici verso ben sette rialzi futuri dei tassi di interesse. La Bce sembra invece ancora confusa. Quasi fosse ancora una banca centrale degli anni Settanta.
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Savino
Il punto centrato nel discorso è che autorità monetarie e governative hanno perso il controllo delle aspettative dell’inflazione. Se non avessero perso tale bussola ci sarebbero stati meccanismi istituzionali sia sulla tenuta finanziaria, sia sull’adeguamento dei salari che sulla vigilanza dei prezzi.
Gli shock sono utili dal lato della domanda perchè tutta questa fase di crisi dovrebbe averci fatto capire che è la domanda a fare il mercato.
mauro marconi
Era apparso nella metà degli anni ottanta sul tema della Stagflazione un libro, una raccolta di saggi, che mostrava come come di fronte a questo tema la teoria economica fosse spiazzata e la p.e. cercasse nuovi strumenti?
Fra G
Potrebbe consigliare una referenza che spieghi (un po’ scientificamente) il meccanismo delle aspettative di inflazione?
Grazie