Non sarà la direttiva europea sul salario minimo a risolvere i problemi della contrattazione collettiva italiana, in particolare quello dei contratti pirata. Il lavoro di monitoraggio e raccolta dati potrebbe però aiutare a fare qualche passo avanti.
La direttiva europea sul salario minimo
A fine ottobre è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea la direttiva per salari minimi adeguati. Gli stati membri avranno tempo fino al 15 novembre 2024 per recepirla. Quali conseguenze concrete avrà in Italia? Poche, soprattutto se non si vorrà cogliere l’occasione per una riflessione più profonda, andando oltre la lettera della norma comunitaria.
La direttiva ha due gambe: una serve per garantire salari minimi adeguati e si rivolge ai paesi che hanno un salario minimo per legge, quindi non all’Italia. Un’altra per promuovere la contrattazione collettiva in materia salariale, in particolare in quei paesi in cui la percentuale di lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva è inferiore all’80 per cento. Tutte le stime disponibili per il nostro paese indicano un tasso di copertura, almeno formale, ben al di sopra di quella cifra (100 per cento per l’Ocse, 99 per cento per l’Ilo, 100 per cento nella Structure of Earnings Survey di Eurostat, 97 per cento nella European Company Survey di Eurofound e 94,3 per cento nei dati Cnel-Uniemens)
Questo ha portato alcuni commentatori a definire “insipida” la direttiva. È una definizione ingenerosa visto il cambio di passo che rappresenta dal punto di vista politico: fino a pochi anni fa il mantra era flessibilità salariale e decentralizzazione. Però è vero che la sua natura è principalmente procedurale. La direttiva non obbliga a introdurre un salario minimo e non impone un livello, ma si concentra sulla governance del salario minimo, in particolare per rafforzare il coinvolgimento delle parti sociali, sul monitoraggio e raccolta dati e sull’applicazione dei minimi salariali. Anche l’unico indicatore espressamente menzionato nel testo, l’80 per cento di copertura contrattuale, fa scattare l’obbligo di preparare un piano d’azione, ma non è un obiettivo in sé.
Le ricadute in Italia
Per l’Italia, la direttiva non rappresenterà quel “vincolo esterno” che alcuni temevano e altri speravano. La nuova maggioranza, dopo averlo detto in campagna elettorale, ha ribadito in Parlamento che è contraria a un salario minimo per legge. Nel nostro paese, gli obblighi derivanti dal recepimento della direttiva si limiteranno, quindi, al monitoraggio (su cui c’è comunque un ampio lavoro da fare) e all’applicazione effettiva dei minimi (su cui ugualmente non siamo i primi della classe, come mostrano le stime di lavoratori pagati meno dei minimi previsti dai Ccnl). Le grandi questioni che hanno motivato il dibattito italiano di questi anni restano però sul tavolo.
Il numero di contratti collettivi nazionali depositati al Cnel continua a crescere, dai circa trecento di metà anni Duemila si è arrivati ai mille di oggi. Solo il 22 per cento sono firmati da Cgil, Cisl o Uil (mentre erano il 57 per cento nel 2011), il resto da altre sigle. Alcune sono organizzazioni di lavoratori vere, seppure fuori dalla triplice, come Ugl e Confsal che si sono fatte spazio negli ultimi anni. Altre, invece, sono sigle sostanzialmente inventate ad hoc per firmare contratti di comodo, detti “pirata”, per pagare salari inferiori a quelli previsti dal Ccnl di settore.
La gran parte di questi nuovi contratti si applicano a un numero esiguo di lavoratori. Un quarto dei contratti di cui abbiamo notizia nel flusso Uniemens Inps si applica a meno di cento lavoratori, la metà si applica a meno di mille persone. Alcuni Ccnl coprono appena due o tre lavoratori. Il grosso dei lavoratori dipendenti è ancora garantito da contratti Cgil, Cisl e Uil. Ma, pur restando confinati a un numero molto limitato di lavoratori, i contratti “pirata” (non essendoci una definizione univoca è anche difficile misurarli) esercitano una pressione al ribasso sul resto della contrattazione collettiva. La sola possibilità di firmarne uno indebolisce la negoziazione, come testimonia il caso eclatante del Ccnl degli istituti di vigilanza che, pur siglato da Cgil, Cisl e Uil, non è stato ritenuto dai giudici in grado di “assicurare un’esistenza libera e dignitosa” come previsto dall’articolo 36 della Costituzione. Oppure, la curiosa e recente firma di un accordo per i metalmeccanici tra la non troppo nota Assoartigiani, parte di Confindustria, e l’Ugl e di fatto in concorrenza con il contratto dei metalmeccanici siglato da Federmeccanica (l’associazione confindustriale dell’industria meccanica) con Fim, Fiom e Uilm.
Oltre all’aumento dei contratti collettivi, nell’ultimo decennio si è visto anche un aumento dei contratti scaduti e della durata media della vacanza contrattuale. Al momento, il 50 per cento dei lavoratori dipendenti è coperto da un contratto scaduto in media da quasi tre anni. Sono ritardi enormi già in tempi normali e ancor di più in tempi di inflazione record.
In conclusione, non sarà l’Europa a risolvere i problemi della contrattazione collettiva italiana, che richiedono un’assunzione di responsabilità nazionale. Però, vorremmo sperare che la discussione che ci sarà per il recepimento della direttiva e il lavoro di monitoraggio e raccolta dati che la norma europea impone possano aiutare a informare il dibattito e a fare qualche passo avanti.
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Firmin
Più che poco incisiva, la direttiva europea mi sembra ottocentesca. Si parla ancora di un salario orario quando gran parte dei lavori (e quindi delle retribuzioni) ormai è legato a dei risultati più che ad un tempo di esecuzione o di presenza. Lo smart working ha addirittura accentuato questa tendenza. Inoltre aggirare qualsiasi normativa sul salario minimo orario è facilissimo (basta retribuire meno ore di quelle effettivamente lavorate o sottoinquadrare il lavoratore) ed è altamente improbabile che ad ottenere una sua corretta applicazione siano dei lavoratori talmente deboli da accettare salari così bassi. Se si intende davvero sostenere il reddito dei working poor è molto più efficace una misura come il reddito di cittadinanza (opportunamente migliorata), che pone il lavoratore nelle condizioni di rifiutare offerte indecenti.