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Pensioni contributive: i nuovi coefficienti e la farsa del “tasso di sconto”

È stata pubblicata la tabella con i nuovi coefficienti di trasformazione per il biennio 2023‑2024. Grava su di loro la mancanza di trasparenza che li caratterizza fin dai primi passi della riforma Dini. La via maestra è l’aumento dell’età pensionabile.

Coefficienti ancora avvolti nel mistero

Con decreto del 1° dicembre 2022, i ministeri competenti hanno prodotto la tabella dei nuovi coefficienti di trasformazione che resteranno in vigore nel biennio 2023‑2024. Come in occasione dei precedenti aggiornamenti, la tabella reca l’indecifrabile nota: «tasso di sconto=1,5%». La Relazione tecnica “chiarisce” che si tratta del «prevedibile tasso di crescita reale di lungo periodo del prodotto interno lordo» senza tuttavia spiegare il legame fra i coefficienti e un simile dato macroeconomico. Né potrebbe farlo perché non esiste alcun legame, e il “tasso di sconto” in calce alla tabella ha, in realtà, un significato diverso. Per svelare l’arcano, occorre fare appello alla memoria di chi, come lo scrivente, ebbe modo di partecipare ai convulsi lavori preparatori della riforma passata alla storia col nome del presidente Dini.

Il conto personale

Noto in letteratura con l’acronimo Ndc da Notional Defined Contribution, il sistema contributivo è basato sul “conto personale” dove il lavoratore deposita virtualmente i contributi. Il conto frutta un interesse che la riforma Dini volle discutibilmente individuare nella crescita nominale del Pil (mediamente rilevata nell’ultimo quinquennio disponibile). Trascurando le complicazioni formali derivanti dalla reversibilità, il saldo del conto al pensionamento, chiamato montante contributivo, è spalmato sulla prevedibile vita residua del pensionato. Il compito è affidato al coefficiente di trasformazione che è il reciproco della vita residua. Moltiplicandolo per il montante, si ottiene il valor comune delle annualità di pensione spettanti. All’aumentare dell’età al pensionamento, il coefficiente cresce perché la vita residua decresce.

La prima annualità è erogata subito (sia pure in rate mensili), mentre le successive devono aspettare il loro turno, ma la riforma Dini ebbe il demerito di non indicare in quale “sala d’attesa” devono farlo. Il modello Ndc prevede che il conto personale non si estingua al pensionamento e che le annualità (dopo la prima) vi restino depositate fino al “prelievo” continuando a maturare interessi. La seconda ne matura per un anno, la terza per due, la quarta per tre, e così via. Perciò i prelievi aumentano in ragione della crescita nominale del Pil.

Come indicizzare le pensioni contributive

Per dar seguito a tutto ciò, basta che quest’ultima sia annualmente usata non solo per rivalutare i montanti contributivi in formazione, ma anche per indicizzare le pensioni in essere. In tal modo, un unico tasso d’interesse remunera i conti personali di tutti i “correntisti” (attivi e pensionati) ed è dimostrato che tale forma di equità intergenerazionale garantisce l’equilibrio finanziario, cioè una spesa in linea col gettito contributivo.

L’indicizzazione al Pil nominale spetta indipendentemente dall’importo della pensione, cosicché nel modello Ndc non c’è spazio per il pregiudizio, radicato nel legislatore previdenziale italiano, che le pensioni più alte meritino d’essere indicizzate meno. Inoltre, l’indicizzazione al Pil aumenta il potere d’acquisto anziché limitarsi a preservarlo, così da evitare le “pensioni d’annata” (tanto più povere quanto più vetuste) che provocano invidia sociale e innescano il rischio di rivendicazioni destabilizzanti (tanto maggiore quanto più vecchio è il corpo elettorale).

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Una variante pericolosa

I test di “adeguatezza” preoccuparono il governo Dini mostrando che le pensioni contributive non avrebbero mantenuto i saggi di sostituzione (rapporti fra prima pensione e ultimo salario) offerti da quelle retributive. Fu allora spiegato che il modello Ndc consente un’importante flessibilità, intuitivamente “narrabile” in vari modi. Uno fa riferimento alla possibilità di “scontare” l’indicizzazione, cioè rinunciarvi in parte, per ottenere in cambio una maggiorazione dei coefficienti. Come se la parte scontata fosse pagata anticipatamente sotto forma di aumento della pensione iniziale. Il tasso che sconta l’indicizzazione è chiamato, in gergo finanziario, “tasso tecnico anticipato”.

Fu spiegato anche che un tasso tecnico dell’1,5 per cento avrebbe maggiorato i coefficienti al punto da allineare i saggi di sostituzione “contributivi” a quelli “retributivi”. Tuttavia, l’indicizzazione al Pil nominale scontata dell’1,5 per cento sarebbe stata insufficiente a evitare le pensioni d’annata, e perfino a garantire il potere d’acquisto nei casi (tutt’altro che improbabili) in cui la crescita reale del Pil fosse scesa sotto l’1,5 per cento.

Prevalsero le convenienze

L’epilogo di quella vicenda fu “all’italiana”. Al testo di legge furono allegati coefficienti “segretamente” maggiorati anticipando un tasso tecnico dell’1,5 per cento di cui non fu fatta menzione. Il segreto sarebbe rimasto tombale perché la formula dei coefficienti restò nella penna del governo. Diventò “pubblica” sette anni dopo per benemerita iniziativa del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale.

A dire il vero, il tasso tecnico comparve in calce alla tabella dei coefficienti sotto l’inusuale etichetta di “tasso di sconto” che ne mimetizzò il significato facendolo passare inosservato. Fu così inaugurata la tradizione proseguita dagli aggiornamenti seguenti, compreso l’ultimo del dicembre scorso.

Il tema dell’indicizzazione venne del tutto ignorato, cosicché alle pensioni contributive fu implicitamente estesa quella ai prezzi allora vigente, in forma quasi piena, per le retributive. L’indicizzazione, richiesta dal modello Ndc, non uscì dalle segrete stanze dov’era stata spiegata.

In camera caritatis, tali scelte furono giustificate coi seguenti argomenti:

  • sarebbe stato arduo spiegare al Parlamento i complicati tecnicismi del modello contributivo;
  • sarebbe stato rischioso tornare sull’importante risultato, non ancora digerito dai sindacati, che il governo Amato aveva ottenuto tre anni prima sganciando le pensioni dai salari;
  • sarebbe stato inopportuno che le pensioni contributive fossero indicizzate diversamente da quelle retributive;
  • nella plausibile ipotesi che il Pil reale fosse mediamente cresciuto all’1,5 per cento, l’indicizzazione ai prezzi sarebbe stata tendenzialmente equivalente a quella dovuta;
  • erano state prese le dovute cautele prescrivendo che l’ipotesi fosse verificata in occasione dei futuri aggiornamenti dei coefficienti (L 335/1995, art. 1, c. 11).
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Cosa fare?

Il tasso di sconto dell’1,5 per cento, in calce alla tabella dei nuovi coefficienti, è il tasso tecnico occultamente scelto per maggiorarli, che il modello Ndc richiede di scontare dall’indicizzazione al Pil nominale. Il «tasso di crescita reale di lungo periodo del prodotto interno lordo» (erroneamente confuso col tasso di sconto) è invece l’ipotesi macroeconomica sotto la quale l’indicizzazione ai prezzi equivale a quella richiesta. Pur trascurando la crescente fatica con cui tale ipotesi può essere creduta, le condizioni per l’equivalenza sono comunque tramontate perché, dopo la riforma Dini, l’indicizzazione ai prezzi è stata bersaglio di ripetuti provvedimenti restrittivi, fra cui la legge di bilancio per il 2023.

Il sistema contributivo resterà incompiuto finché non saranno chiariti il significato del “tasso di sconto” (meglio chiamarlo tasso tecnico) e il ruolo di “leva” che il modello Ndc gli assegna per governare il trade off fra i coefficienti e l’indicizzazione. Quand’anche fosse presa coscienza del problema, la soluzione non sarebbe a portata di mano. Infatti, la conferma di un tasso di sconto pari all’1,5 per cento lascerebbe spazio a un’indicizzazione inadeguata, tanto più che il drammatico declino demografico, atteso nei prossimi decenni, trascinerà un rallentamento del Pil.

Sull’esempio norvegese, il tasso di sconto potrebbe essere ridotto allo 0,75 per cento. L’indicizzazione ne trarrebbe vantaggio, ma i coefficienti, e quindi i saggi di sostituzione, dovrebbero subire abbattimenti cospicui. Un mezzo per evitarli è la rinuncia alla reversibilità sulla scia di molti paesi (fra cui il Regno Unito, l’Olanda, la Svezia, la Norvegia, la Lettonia, l’Australia e la Nuova Zelanda) dove la partecipazione femminile al mercato del lavoro si è allineata a quella maschile. Infatti, i coefficienti “a una testa” svedesi sovrastano quelli “a due teste” italiani pur in presenza di un tasso di sconto analogo e tavole di sopravvivenza simili.

Tuttavia, la via maestra è l’aumento dell’età pensionabile che può non solo contrastare la riduzione del tasso di sconto con quella della vita residua, ma anche consentire montanti contributivi più robusti. In Svezia, l’età minima è di 65 anni e la pensione d’anzianità è sconosciuta, mentre in Italia il traguardo dei 65 anni è tagliato solo dal 42 per cento delle pensioni liquidate dal Fondo pensioni lavoratori dipendenti nei primi 9 mesi del 2022 (Inps, Monitoraggio dei flussi di pensionamento – Rilevazione del 2/10/2022, Tav. 8).

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Il Punto

  1. Dan Ant

    Non capisco perche` ci si ostini a sostenere che si debba lavorare sempre piu` a lungo, quando chiunque abbia raggiunto i 60 anni possa ragionevolmente sostenere che mantenere un anziano al lavoro significa accollare un costo sociale alle aziende.

    E comunque, pur dichiarando la mia ignoranza in tema di calcolo pensionistico, Ndc e tutto il resto, continuo a sorprendermi di come si possa sempre trascurare il fatto che, essendo noi in un sistema ripartitivo la capacita` dell’INPS di pagare delle pensioni dipende dal gettito corrente e non da quanto i lavoratori hanno versato durante la loro carriera lavorativa.

    La soluzione di questa annosa questione mi sembra l’uovo di colombo: incentivare sempre piu` le pensioni integrative, fino a renderle “la pensione”, togliendo finalmente dal bilancio dello stato la voce piu` ingombrante.

    • Maurizio Cortesi

      Condivido questa prospettiva che significa eliminare gradualmente i contributi obbligatori a favore di quelli volontari ed anche di un maggior peso del TFR che non rappresenta un costo immediato per le imprese, piuttosto un’utile riserva di liquidità, e che consente di separare il momento del ritiro dal lavoro da quello in cui scatta il pensionamento. La riforma della previdenza deve integrarsi con quella della struttura del costo del lavoro e del fisco.

  2. Luca F.

    Il punto è un altro. Finché si mantiene il collegamento stretto tra previdenza ed assistenza, inutile fare acrobazie contabili: 185000 pensionati andati in pensione con 20 anni di contributi soltanto, dopo 40 anni ancora pesano per quasi 3 miliardi di euro annui. Al posto delle acrobazie contabili, basterebbe trovare una forma giuridica che la Cassazione possa confermare per spostare questa – ed altre – forma pensionistica alla voce assistenza, lasciando nella voce previdenza solo ed esclusivamente coloro – almeno il 60% della platea dei pensionati attuali e il 90% di quelli futuri – che hanno avuto un effettivo percorso contributivo secondo la regola standard. Non si creda siano spiccioli che si risparmiano: ad esempio, considerando che nel corso degli anni è stato possibile tagliare sensibilmente la reversibilità, si potrebbe pensare a tagliarla ulteriormente – se non eliminarla del tutto – per chi finirà in assistenza, mentre chi è in previdenza avrà ancora diritto alla reversibilità. Così pure per aggiornamenti all’inflazione, integrazioni al minimo, detrazioni fiscali, etc: ritengo che questi meccanismi possano essere più efficaci, visto che l’Italia è l’unico Paese al mondo nel quale, presentandosi all’INPS con la carta d’identità attestante la raggiunta età pensionabile, viene erogata la pensione senza che ti venga richiesto altro.

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