Il nuovo accordo di Basilea sui requisiti patrimoniali delle banche avrebbe dovuto entrare in vigore quest’anno, ma è stato rinviato al 2025, proprio perché prevede un netto cambiamento d’indirizzo. Molti i nodi da sciogliere per le autorità europee.

La riforma del Comitato di Basilea

Quando nel dicembre 2017 il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria raggiunse un accordo per cambiare (nuovamente) i requisiti patrimoniali delle banche, fu subito chiaro che le modifiche concordate sarebbero state particolarmente impegnative. Non si trattava infatti di una ricalibrazione, ma di un radicale ripensamento, tra l’altro, dell’approccio dettato alle banche per misurare e coprire il rischio di credito, cioè il Voldemort dei bilanci bancari.

Nel 2004 le autorità avevano dato fiducia agli istituti di credito, consentendo loro di sviluppare internamente gli algoritmi per stimare le possibili perdite future. Tredici anni (e una grande crisi finanziaria) dopo, era prevalso un approccio assai più cauto. I modelli interni non venivano aboliti, ma infilati in una camicia di forza, limitando l’autonomia delle banche nel misurare il rischio dei propri prestiti e i conseguenti benefici in termini di minori requisiti di capitale.

Non che la diffidenza dei supervisori fosse immotivata: molti grandi istituti avevano modelli scarsamente comparabili tra loro e basati su ipotesi difficili da verificare. Ciò era vero, in particolare, per le stime relative alle perdite conseguenti al default di grandi imprese e banche, eventi troppo rari per consentire la costruzione di campioni statistici adeguatamente numerosi. Un’alternativa alla camicia di forza, per la verità, esisteva: un paziente e capillare lavoro di vigilanza per rendere maggiormente trasparenti e omogenei i sistemi adottati dalle banche; nonostante fosse stata indicata (e percorsa, non senza successo) da Eba e Bce, si decise di non affidarsi esclusivamente alla buona volontà dei supervisori, ma di incidere nuovi criteri, meno permissivi, nel bronzo delle regole sancite dai legislatori.

Vien da sorridere pensando che il Comitato di Basilea rifiutò di chiamarla “Basilea 4” (per non ammettere di dover rimettere mano alla riforma di sei anni prima, nota come Basilea 3) e preferì affidarsi a etichette un po’ gesuitiche, come “Basilea 3.5”, “Basilea 3.1” o l’inquietante “completamento di Basilea 3” (che equivaleva ad ammettere di aver a suo tempo immesso sul mercato un prodotto privo di qualche pezzo). Non si trattava però di un innocuo restyling, ma di un cambiamento d’indirizzo netto e ricco di implicazioni (tanto più che toccava anche il rischio operativo e, in parallelo, il Comitato stava radicalmente ripensando anche il proprio approccio al rischio di mercato); non stupisce dunque che i principali sistemi bancari occidentali abbiano proceduto a metterlo in opera assai lentamente.

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La discussione in Europa

La riforma avrebbe dovuto entrare in vigore quest’anno, ma Stati Uniti, Regno Unito e Unione europea hanno optato, al momento, per un rinvio al 2025. Gli americani, dopo aver spinto per limitare in modo più incisivo il “risparmio” di patrimonio reso possibile dai modelli interni, ora nicchiano e fanno sapere che la riforma a loro non serve più di tanto; un po’ perché le regole nazionali prevedono già vincoli analoghi (il “Collins Floor”, che impedisce ai requisiti di capitale di scendere sotto una certa soglia) e un po’ perché a utilizzare sistemi proprietari per misurare il rischio di credito sono solo poche grandi banche, i cui risultati vengono passati al setaccio dalla Fed attraverso capillari esercizi periodici di stress testing.

Il Consiglio europeo ha trovato un accordo politico tre mesi fa, ma senza troppo coinvolgere il Parlamento: vi è dunque il rischio che quest’ultimo introduca varianti al testo proposto, a sua volta non perfettamente coerente con quanto deciso a Basilea. Uno dei nodi da sciogliere riguarda il ruolo delle segmentazioni nazionali: i nuovi requisiti varranno solo a livello consolidato o andranno rispettati anche dalle singole società di un gruppo? Al momento si vorrebbe lasciare facoltà ai singoli paesi di optare per la seconda ipotesi, a riprova di quanto sia difficile il percorso verso un sistema bancario europeo autenticamente integrato.

Il cammino della nuova normativa è reso ulteriormente insidioso dal fatto che le autorità europee hanno provato ad aggiungere qualche vagone supplementare al “treno” legislativo partito per attuare le riforme decise a Basilea. Le ulteriori regole in discussione riguardano tra l’altro il regime delle banche extracomunitarie che offrono servizi nella Ue (il pensiero non corre al Senegal, ma al Regno Unito), nonché i requisiti di capacità e onorabilità richiesti agli esponenti bancari, attualmente normati da un pantano di regole nazionali che rende meno incisiva l’azione della Bce (e proprio per questo annovera numerosi sostenitori in diversi paesi dell’Unione): due temi su cui la Commissione aveva fatto proposte coraggiose, ma il Consiglio si è orientato verso un compromesso al ribasso.

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Su questo e altro si giocherà la partita parlamentare nei prossimi mesi, con la speranza che le regole possano vedere la luce con adeguato anticipo sulla data di entrata in vigore. Perché, di tutti gli oneri che le banche sopportano per adeguarsi alla normativa di vigilanza, il costo dell’improvvisazione è certamente il peggiore.

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