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EURO: ULTIMA CHIAMATA

I capi politici della UE stanno discutendo da troppo tempo su quali siano gli strumenti per uscire crisi dell’’Unione monetaria europea. Nel confronto su questi aspetti, sembra assente lo snodo cruciale della vicenda europea: la necessità di riavviare il processo di unificazione politica. “Euro: ultima chiamata” è il titolo di un libro pubblicato da Francesco Brioschi editore. Carlomagno è un “autore collettivo”, che comprende Angelo Baglioni, Andrea Boitani, Massimo Bordignon, Stefano Fantacone, Rony Hamaui e Marco Lossani. Qui di seguito, ampi stralci dell’introduzione.

 

EUROBOND? MEGLIO L’UNIONE BANCARIA

Dopo più di due anni di tentativi e vertici di emergenza, la crisi dell’Eurozona non mostra alcun segno di miglioramento. La soluzione passa attraverso una politica che separi la crisi bancaria da quella del debito sovrano. È necessario perciò creare una Autorità di risoluzione europea, con il compito di identificare le banche che hanno subito gravi perdite, risanarle o liquidarle. L’Autorità dovrebbe disporre di garanzie fiscali fornite dall’Esm. E con una reale unione bancaria, potrebbe svanire il bisogno di ricorrere agli Eurobond.

 

COME DIFENDERSI DAL CONTAGIO

La fiducia sui titoli sovrani e bancari in tutti i paesi periferici dell’Europa continua a scendere. Cosa possono fare i paesi a rischio, e l’Italia in particolare, per evitare il contagio? L’evidenza empirica mostra che nella crisi sono divenuti più importanti tre fattori: il livello del debito pubblico, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. E allora è forse utile accelerare privatizzazioni e dismissioni; diluire nel tempo il consolidamento fiscale; e sul mercato del lavoro puntare su forme di flessibilità salariale che riducano il rischio di licenziamenti.

GRECIA, UN’OCCASIONE DA NON SPRECARE

Il popolo greco si è dimostrato più lungimirante della Troika. Non ha ceduto alla tentazione di premiare con il voto il partito (Syriza) che prometteva di stracciare il tristemente famoso Memorandum, che ha imposto pesanti condizioni alla Grecia in cambio degli aiuti finanziari dei partner europei. La campagna elettorale di quel partito ha finito per trasformare le elezioni del 17 giugno in un referendum sulla permanenza nell’euro, e i Greci hanno responsabilmente scelto di restare nell’area euro, facendo così prevalere un obiettivo di lungo periodo sui sacrifici immediati necessari per raggiungerlo. Al contrario, la gestione delle trattative da parte della Troika è stata finora caratterizzata dall’imposizione di target di bilancio impegnativi e con scadenze molto ravvicinate. Più volte abbiamo sottolineato che questo modo di gestire la crisi greca è stato miope e ha esposto i paesi dell’area euro al rischio di un evento traumatico quale l’uscita di un paese membro dalla moneta unica. Se ciò avvenisse, l’unione monetaria sarebbe declassata ad un accordo di cambio, nel quale gli attacchi speculativi potrebbero rendere insostenibile il costo del debito pubblico per altri paesi, costringendoli ad uscire dall’area euro. La crisi di un piccolo paese si trasformerebbe così nella crisi della moneta unica nel suo insieme.
Ora si apre una finestra di opportunità. Il peggio potrà essere evitato solo se l’Europa sarà veramente disponibile a rivedere la sua impostazione, trattando con il nuovo governo una revisione degli accordi che conceda alla Grecia il tempo per fare le riforme strutturali di cui ha bisogno: revisione del meccanismo di riscossione delle imposte, snellimento della pubblica amministrazione, privatizzazioni. Paradossalmente, la Troika si troverà costretta a trattare con il maggiore responsabile di questa situazione: Samaras, leader del partito (Nuova Democrazia) che, quando era al governo nel 2009, comunicò dati falsi sul bilancio pubblico. Questo è il risultato di avere messo alle corde il governo socialista di Papandreou, costringendolo di fatto alle dimissioni, e di non avere fatto nulla per agevolare il governo tecnico di Papademos. I margini di trattativa sono ristretti, data la scarsa flessibilità della Troika. Prepariamoci al rito delle estenuanti negoziazioni, sotto la minaccia di non erogare le prossima tranche di finanziamenti europei, senza la quale il governo di Atene sarà insolvente tra un mese.  

LA FAVOLA DEL DELEVERAGING

Negli ultimi 10 anni, il sistema economico e finanziario si è sbilanciato inesorabilmente verso il debito a scapito del capitale di rischio. Questa crisi è anche il segno di un’economia bisognosa di diversificazione nell’approvvigionamento di capitale. Un processo più o meno lungo di cancellazione graduale del debito e riallineamento sui fondamentali con più equity è inevitabile. Le istituzioni finanziarie internazionali sostengono che il processo sia iniziato, finora però le banche si sono limitate ad aumentare la loro capitalizzazione, senza alcun vero deleveraging.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

La risposta ai commenti dei lettori mi permette di toccare argomenti che, per motivi di sintesi, non avevo potuto sviluppare nell’articolo.
In primo luogo l’indicatore di competitività considerato, il tasso di cambio effettivo reale aggiustato per il costo del lavoro per unità di prodotto, oltre a essere influenzato dalle diverse quote di mercato verso i paesi che non adottano l’euro e per cui una svalutazione/rivalutazione dei rapporti di cambio determina vantaggi/svantaggi competitivi, è condizionato da altri due fondamentali fattori:

  1. il costo del lavoro. Come sottolineato da alcuni commenti, l’aggiustamento della competitività tra paesi europei potrebbe passare attraverso una variazione del costo del lavoro. Evidentemente pesanti riduzioni dei salari nei paesi in difficoltà avrebbero effetti recessivi. Andrebbero quindi favoriti incrementi salariali nei paesi dell’Europa del Nord, come sottolineato anche dal commento del prof. Aquino,  nei quali la dinamica delle retribuzioni nell’ultimo decennio è stata particolarmente contenuta. Il vantaggio di tale soluzione sarebbe anche quello di aumentare i consumi e le importazioni nelle aree più ricche. In parte questo processo sta già avvenendo in Germania, dove i salari stanno progressivamente spostandosi su livelli più elevati. La velocità di aggiustamento, però, è troppo lenta – stante anche le rigidità salariali che i neokeynesiani tendono a sottolineare (si veda al riguardo il Grafico 1 presentato da Paul Krugman in cui si osserva come i salari nominali, in un paese caratterizzato da un alto dinamismo come gli Stati Uniti, varino con una bassa probabilità) – e non può verosimilmente garantire un riequilibrio competitivo tra i paesi europei;

     Grafico 1

Fonte: Paul Krugman su dati Current Population Survey

  1. la produttività. Un recupero di produttività nei paesi in ritardo di competitività avrebbe notevoli vantaggi. Produrre più beni e servizi, a parità di costi, aiuterebbe la crescita economica, soprattutto nel lungo termine. Il problema è che per raggiungere questo obiettivo vi è la necessità di effettuare notevoli investimenti, su un profilo temporale di diversi anni, sia materiali sia immateriali.
    a. Per quanto riguarda gli investimenti materiali, i paesi dell’Europa del Sud, tenuto conto della situazione dei rispettivi conti pubblici, non possono che fare affidamento sui paesi con la “salute migliore”. A mio avviso, però, l’obiettivo non dovrebbe essere semplicemente quello di inondare di soldi pubblici le economie in difficoltà, così come avvenuto in passato nel caso italiano con la Cassa del Mezzogiorno. Andrebbero, invece, individuati quei “colli di bottiglia” infrastrutturali che bloccano lo sviluppo (un esempio, per il caso italiano, potrebbe essere la Salerno-Reggio Calabria) e su quelli bisognerebbe agire, evitando di disperdere risorse che oggigiorno sono particolarmente scarse. Come ben sottolineato da Alesina e Giavazzi (1), ricoprire di asfalto e di rotaie i nostri territori non aiuterebbe di certo a sostenere la crescita nel lungo termine.
    Investimenti nella ricerca e nello sviluppo, e in particolare nella Green Economy, avrebbero invece maggiori effetti positivi. L’Unione Europea, infatti, dipende fortemente dagli approvvigionamenti energetici effettuati all’estero, quindi trovare fonti di energia alternative e migliorare l’efficienza dei consumi correnti dovrebbe essere un obiettivo che accomuni gran parte del continente europeo.
    b. Ancor più importanti sono gli investimenti immateriali. Migliorare il funzionamento delle macchine burocratiche, della giustizia, semplificare le norme e gli iter parlamentari attraverso cui queste vengono prodotte, sia a livello nazionale che europeo, produrrebbe dei benefici notevoli in termini di produttività. Si pensi solo al tempo che potrebbe risparmiare un imprenditore italiano in una controversia legale, che oggi necessita mediamente di ben 1.300 giorni per concludersi, se l’efficienza della giustizia civile nel nostro paese si adeguasse a quella delle migliori esperienze europee (in Lussemburgo, ad esempio, i tempi medi della giustizia sono poco superiori ai 300 giorni).

I singoli Stati europei attualmente in crisi, non sono però attrezzati, sia sul piano economico sia, soprattutto, politico, per ottenere risultati importanti e duraturi in termini di produttività. Solo un’Unione politica, in cui i paesi dell’Europa del Nord esportino, senza ostacoli legali a miopi nazionalismi, le loro capacità nel gestire e amministrare la cosa pubblica, potrebbe raggiungere nel medio-lungo termine questo obiettivo.  
Alcuni però potrebbero obiettare, usando le parole di Keynes, che nel lungo termine saremo tutti morti posto che la speculazione nel frattempo avrà spazzato via Stati europei, banche e l’euro stesso. In realtà se ci fosse la volontà politica di andare effettivamente verso l’Unione tra gli Stati europei la speculazione potrebbe essere facilmente sconfitta. Nel brevissimo termine, infatti, alla Bce potrebbe essere dato il mandato di salvare l’euro costi quel che costi, anche in termini di inflazione, acquistando sul mercato secondario, senza limiti di importo, i titoli di Stato di paesi aderenti all’Area euro oggetto della speculazione finanziaria. Già questo semplice mandato costituirebbe un fortissimo deterrente per gli speculatori che vedrebbero l’Area euro, nel suo complesso, come un pesce troppo grosso da poter essere mangiato.
Passata questa fase emergenziale l’emissione di Eurobond permetterebbe alla Bce di tornare a svolgere il suo ruolo di controllore attento dell’inflazione. La condivisione dei debiti pubblici tra tutti i paesi dell’Unione, così come avviene in ogni singola nazione tra aree avvantaggiate e quelle depresse, permetterebbe di rendere sostenibili i debiti pubblici accumulati in questi anni.
Per concludere con un’altra metafora marinaresca, allo stato attuale è come se stessimo facendo il viaggio di Cristoforo Colombo a ritroso: due delle caravelle sono pressoché affondate, ne rimane solo l’ultima e la speranza di poter finalmente vedere all’orizzonte gli Stati Uniti d’Europa.

(1) Alesina A. e F. Giavazzi, La direzione è sbagliata, Corriere della Sera del 6 giugno 2012

CHI APRE IL PORTAFOGLIO PER LA SPAGNA

E’ vero che l’Italia deve sborsare dei miliardi per il salvataggio della Spagna?

No, è il Fondo europeo di Stabilità a dare i soldi alla Spagna, attraverso titoli emessi dal fondo di stabilità stesso. L’Italia fornisce, come gli altri paesi, solo una garanzia e nell’immediato non avrà uscite di cassa. Sia che i fondi siano forniti dall’Efsf sia che l’operazione sia condotta dall’Esm, non è l’Italia a dover ricorrere ai mercati, ma il fondo stesso, che può indebitarsi a tassi nettamente più favorevoli di quelli attualmente pagati dal governo italiano, grazie alla garanzia  di tutti gli Stati partecipanti, compresi quelli con tripla A di rating (Germania in testa). Il solo esborso  da parte dell’Italia riguarderà il conferimento di capitale dell’ESM, che per quest’anno è previsto nella misura di 32 miliardi, di cui all’Italia spetta  una quota del 17,9 per cento: 5,7 miliardi. Di fatto è un meccanismo non lontano da quello previsto per gli Eurobond.

Il debito creato in questo modo entra nel debito pubblico ed è rilevante per il fiscal compact?

Dipende se l’operazione sarà condotta dal fondo attualmente operativo (Efsf) o dal suo successore (Esm). Questo perché Eurostat non ha riconosciuto all’Efsf un’esistenza autonoma rispetto agli Stati che ne fanno parte. Nel caso dell’Efsf, il debito che questo contrae sui mercati per intervenire a favore degli Stati che richiedono assistenza è classificato dalle autorità statistiche come debito pubblico nazionale degli Stati che partecipano al fondo. Diverso è il caso dell’Esm, che sarà operativo dal 1 luglio ed è riconosciuto da Eurostat come un’istituzione internazionale, alla stregua della Comunità europea, e il cui debito sarà conseguentemente distinto da quello degli Stati . C’è dunque una differenza dal punto di vista dell’impatto sul debito rilevante per i parametri di Maastricht. Tuttavia, per il Patto di stabilità la distinzione è poco rilevante, poiché lo stesso patto prevede che l’impatto di queste operazioni debba essere considerato a parte dalla Commissione, quando questa sia chiamata ad applicare la procedura per disavanzo eccessivo.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Lo scopo dichiarato dell’articolo era di correggere alcune affermazioni dell’ex-capo del governo e di alcuni commentatori e cronisti sul tema dell’emissione di moneta da parte delle banche centrali.  Devo perciò una precisazione a proposito di quegli aspetti che l’articolo non è riuscito del tutto a chiarire.  Non rispondo invece ai commenti, più o meno ironici, sulle intenzioni della proposta dell’ex Presidente del Consiglio.

Chiarisco tre concetti:

1. Due lettori affermano che, a differenza della BCE, la Federal Reserve e la Banca d’Inghilterra possono “monetizzare” il debito pubblico acquistando titoli all’emissione, ma non è così.  ‘E bene ricordare che la Banca d’Inghilterra è vincolata dalle regole del Trattato sull’Unione Europea e quindi non fa eccezione. La Fed si attiene al principio di non acquistare titoli del Tesoro all’emissione dagli anni ‘50.  L’Italia si adeguò allo stesso principio con il cosiddetto “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, che una lettrice indica come la causa di tutti i mali. Il fatto è che, pur nelle differenze istituzionali, è caratteristica comune delle banche centrali quella di non partecipare alle aste dei titoli di stato fissando prezzi e rendimenti. I motivi sono operativi (anche quando mascherati da ragioni di “indipendenza”) e non compromettono la solvibilità dello stato sovrano. Gli stati dell’euro sovrani non sono, e per assicurarne la solvibilità la BCE potrebbe, come ho scritto qui, annunciare una fascia massima di variazione dei prezzi e dei rendimenti dei titoli di stato sul mercato secondario, senza venir meno alla proibizione sul mercato primario.

2. Quanto alla questione dell’emissione di contante da parte della Banca d’Italia: devo segnalare a un lettore che non è vero che “è solo da un anno e mezzo che le banche centrali nazionali possono emetterne quanto necessario” (non so a quale evento di un anno e mezzo fa si riferisca il lettore). Che le banche centrali immettano banconote in circolazione in una quantità non prefissata, e che dipende esclusivamente dalla domanda delle banche (per conto dei clienti) è un dato di fatto delle economie monetarie moderne, sempre che la moneta non sia garantita dall’oro o da una valuta estera (currency board).

3. Due commenti alludono infine all’irrilevanza delle banconote nella circolazione monetaria e sostengono che, se non può controllare la quantità di banconote, la BCE controlla un aggregato ben più rilevante, e cioè la massa monetaria; e che se le banche centrali nazionali non sono soggette a limiti per la stampa di banconote esse sono tuttavia soggette a limiti per quanto riguarda la base monetaria.  Entrambe le affermazioni sono inesatte.  In nessuna economia monetaria moderna la banca centrale è in grado di fissare la massa monetaria come variabile strumentale.   Quel che ogni banca centrale può fare, in quanto monopolista della moneta, è (come spiega la BCE qui) fissare unilateralmente il tasso d’interesse.

SE I DEBITI SI RIPAGANO IN DRACME

Se la Grecia uscisse dall’euro e adottasse una nuova valuta nazionale, cosa accadrebbe ai contratti? Quelli soggetti alle legge greca, si ridenominerebbero semplicemente nella dracma, al tasso di cambio fissato dal governo greco. In tutti gli altri casi, la situazione si rivelerebbe assai complicata. Per esempio, se il debitore fosse greco e il creditore straniero è facile prevedere che ne nascerebbe un contenzioso, con ricorso a un giudice o a un arbitro per decidere in quale moneta debba essere ripagato il debito. In tutta Europa, sorriderebbero solo gli avvocati delle parti.

QUANTA INCERTEZZA SULL’EURO

Al fischio di inizio la quattordicesima edizione degli Europei, di calcio con la Spagna campione in carica. Vincerà anche quest’anno? Secondo i bookmaker, sì. E alcuni statistici austriaci confermano, assegnandole le maggiori probabilità di vittoria, con il 25,8 per cento. Segue la Germania con il 22,2 per cento. Sarebbe la prima nazione ad aggiudicarsi tre edizioni consecutive di Mondiali ed Europei. Ma questa è una competizione tradizionalmente aperta alle sorprese. Lasciando così qualche residua speranza anche all’Italia.

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