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Categoria: Stato e istituzioni Pagina 76 di 86

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Il pezzo ha suscitato qualche reazione, soprattutto da parte di esperti nel campo. Curiosamente, le reazioni sono di segno opposto, dagli amici “federalisti” (Alessandro Petretto) che mi accusano di aver ceduto sul principio della capacità fiscale; alla risposta piccata, per la ragione contraria, del presidente della Svimez, che ringrazio comunque per l’attenzione. Ma resto della mia opinione. Per le seguenti ragioni.
Primo, non esiste Paese, federale o meno, in cui l’offerta di servizi attinenti diritti fondamentali di cittadinanza –sanità, istruzione, certe componenti del welfare, etc.- siano delegati per intero alla sovranità i governi sub-centrali. Ovunque, il governo federale interviene in qualche misura, o con l’introduzione di standard nazionali o con il potere della borsa o con tutti e due. Fissare gli standard significa anche garantirne il finanziamento; e in un Paese duale, con bisogni differenziati, ci pone il principio del fabbisogno o della “spesa necessaria”. Certo, dipende anche da dove è collocata l’asticella. Se gli standard fossero veramente minimi, allora forse anche il principio della capacità fiscale potrebbe essere sufficiente. Ma non sono sicuro si tratti di una soluzione praticabile o auspicabile per il Paese. La soluzione di Bruno De Leo (spesa storica oggi, perequazione domani al Pil), mentre interessante sul piano pratico, rimanda solo il problema, perché capacità fiscale e Pil sono strettamente correlati.
Secondo, esiste una tensione inevitabile tra fissazione degli standard al centro e autonomia dei governi locali. Si può cerrcare di mitigarla, ma resta. So anch’io che in teoria regioni e enti locali possono esercitare la propria autonomia in aggiunta e a latere della spesa necessaria; ma visto l’abitudine inveterata dello Stato italiano di fissare gli standard in termini di input, piuttosto che di output, temo assai le conseguenze per l’autonomia territoriale di un’ interpretazione universale del principio per fabbisogni. Meglio limitarlo ai servizi davvero essenziali. Per gli altri, la spesa “necessaria” è semplicemente la capacità potenziale di spesa garantita dalle risorse proprie e dalla perequazione per capacità fiscale. Questo, naturalmente, non significa che lo Stato centrale non debba al contrario concentrare i propri sforzi, anche sul piano finanziario, a vantaggio dei territori dove minore è la presenza dei beni pubblici fondamentali che lo Stato stesso deve garantire: principalmente, sicurezza e infrastrutture di base. Terzo, i potenziali vantaggi del federalismo stanno tutti nella differenziazione: la possibilità di diversificare i servizi sul territorio sulla base di esigenze locali, finanziandoli al margine con tributi propri allo scopo di rendere responsabili i politici nei confronti dei propri elettori (pago, controllo, esigo). Se invece si vuole l’uniformità dei servizi, meglio centralizzare. Dire che la nostra Costituzione implica “il principio dell’uguaglianza dei cittadini dovunque risiedano”, e interpretare questo principio come riferito, non solo ai servizi fondamentali, su cui ovviamente concordo, ma alla totalità dei servizi offerti dagli enti territoriali di governo, come fa il presidente della Svimez, significa negare a priori la possibilità del federalismo. Dubito molto che questa fosse l’intenzione dei legislatori costituenti del 2001 e della maggioranza dei cittadini italiani che hanno votato a favore di questa proposta di revisione costituzionale.

LA RISPOSTA DI NINO NOVACCO, PRESIDENTE SVIMEZ

Il prof. Massimo Bordignon, rispondendo ad una nota della SVIMEZ, definisce l’interpretazione data al comma 4 dell’art. 119 come perniciosa per gli enti territoriali di qualunque latitudine, in quanto renderebbe di fatto impossibile il federalismo fiscale, ed incostituzionale ogni autonomia attribuita agli enti locali.

NON BASTANO DUE “COMMI” PER COSTRUIRE UN FEDERALISMO SOSTENIBILE

E’ evidente che dell’art. 119 si possono dare diverse interpretazioni, dal momento che il testo, come ammette il prof. Bordignon, cerca di contemperare due esigenze contraddittorie nella realtà italiana: dare autonomia effettiva agli enti territoriali e, nel contempo, evitare che il meccanismo di finanziamento comporti l’incapacità di alcuni enti di fornire – in un Paese economicamente dualista – i servizi che essi devono assicurare alle popolazioni. A questa contraddizione Bordignon risponde ritenendo fondamentale il comma 3, che viene prima del 4, e che si limita ad attribuire risorse compensative ai territori con minore capacità fiscale, e proponendo, come nel disegno di legge delega del precedente Governo, un’applicazione parziale del finanziamento integrale delle funzioni previsto nel comma 4, introducendo una distinzione – che è del tutto assente nel testo costituzionale – tra funzioni che riguardano diritti fondamentali di cittadinanza, ed altre funzioni.
Il problema viene affrontato in sostanza con la sola lettura di tale articolo, e viene visto come prevalenza dell’uno o dell’altro comma, quando è invece l’intero articolo che deve essere letto nel contesto complessivo in cui si colloca, che è e resta la Costituzione Italiana. Ed è questo il rilievo della SVIMEZ: l’interpretazione dell’art.119 che si vuole far prevalere – e non solo nelle più accese sedi leghiste – lede gli articoli 2, 3 e 53 della nostra Costituzione, in quanto va ad intaccare il principio dell’uguaglianza dei cittadini dovunque risiedano, che è elemento fondante della nostra convivenza civile.
Quanto agli spazi di autonomia degli enti, poi, essi non risulterebbero certo sacrificati dall’interpretazione della SVIMEZ. Tutti gli enti potrebbero infatti esercitarla al di fuori e in aggiunta alle funzioni finanziate integralmente, ricorrendo alla propria leva fiscale, escludendo comunque meccanismi di piè di lista, e quindi stimando il fabbisogno sulla base dei costi standard ed avendo a riferimento le capacità fiscali degli enti. E’ piuttosto la posizione di Bordignon, riflessa nel disegno di legge delega del precedente Governo, e ancor più in quella espressa nella proposta del Consiglio regionale della Lombardia, a rendere impossibile l’esercizio dell’autonomia, ma solo da parte degli enti del Mezzogiorno. Soltanto essi sono infatti costretti ad utilizzare tutti gli spazi a loro disposizione per coprire spese e fornire servizi importanti che altrove sono finanziati con livelli di pressione fiscale più bassi, che si applicano a basi imponibili più elevate. Per contro, non si hanno spazi di autonomia quando non vi sono sufficienti entrate e non si possono chiedere sacrifici a popolazioni a basso livello di reddito, come è generalmente il caso del Mezzogiorno.
Questi, ad avviso della SVIMEZ, i motivi reali e gravi del contendere.

COMUNI IN FUGA

Sempre di più i comuni che cercano di staccarsi da una Regione a statuto ordinario. Ovviamente per beneficiare del più favorevole regime finanziario di quelle a statuto speciale. Perché resiste una incomprensibile e anacronistica disparità di trattamento fra le une e le altre. Un problema che dovrà essere affrontato dal nuovo governo. E se il progetto della Lombardia prevede di applicare a tutte un meccanismo di finanziamento simile a quello delle Regioni speciali, sarebbe sbagliato discuterne senza porre la questione della riforma del regime finanziario di queste ultime.

DUE COMMI PER IL FEDERALISMO

Una particolare interpretazione dell’articolo 119 della Costituzione, fondata sul comma 4, renderebbe di fatto non solo impossibile il federalismo fiscale, ma incostituzionale ogni autonomia di qualunque tipo attribuita agli enti locali. E’ un’interpretazione di parte e non tiene conto del comma 3 che definisce caratteristiche e finalità della perequazione territoriale delle risorse. Altrettanto pericolosa per gli enti territoriali, di qualunque latitudine, delle derive leghiste o secessioniste. Serve una lettura ragionevole della norma costituzionale.

IN MORTE DELL’ICI

L’abolizione dell’Ici è una vittoria dell’apparenza sulla sostanza. Proprio perché l’imposta riguarda l’80 per cento degli italiani, dovrebbe essere chiaro che gli stessi beneficiari dovranno pagare in altre forme quello che è presentato come un regalo. Il minor gettito dei comuni sarà compensato con trasferimenti dal centro. Ma mentre l’Ici si autoregola, un sussidio per definizione genera una domanda unanime di incremento. Tutto fa pensare che nella manovra su imposte nazionali per sostituirne una locale non ci sia alcun guadagno né di efficienza né di equità.

LO STRANO CASO DEI FEDERALISTI ANTI-ICI

L’Ici garantisce quasi il 60 per cento delle entrate tributarie dei comuni. Eppure, il nuovo governo si accinge ad azzerarla, almeno sulla prima casa. Certo, trasferire il carico fiscale dalla proprietà alle attività produttive può procurare un vantaggio elettorale, ma rivela una notevole dose di miopia, dei governi e degli stessi elettori. L’abolizione dell’imposta è contraria ai principi di base del federalismo, renderà i comuni meno virtuosi, avvantaggia soprattutto i contribuenti più ricchi e sarà un ulteriore freno alla modernizzazione del paese.

SOGNANDO CATALOGNA

Il successo elettorale della Lega ha riportato il tema del federalismo fiscale al centro del dibattito politico. Le proposte avanzate nei programmi elettorali sono insostenibili se applicate a tutte le regioni. Ma un federalismo differenziato potrebbe funzionare. Introdurrebbe anche in Italia il principio della sperimentazione: attribuire risorse e funzioni alle Regioni che abbiano dimostrato capacità gestionali e verificare se effettivamente sono in grado di offrire i relativi servizi in modo più efficiente dello Stato. Per riportarli nell’alveo nazionale in caso contrario. Il rischio è che invece si proceda in ordine sparso, assegnando prima le risorse e poi, forse, le funzioni. Così come è avvenuto in passato con le Regioni a statuto speciale.

TRE SFIDE PER LA NUOVA MAGGIORANZA

C’è un netto vincitore in queste elezioni. Ha saputo, meglio di altri, interpretare ansie diffuse sul territorio, soprattutto al di fuori dei grandi centri urbani. Per rispondere alle aspettative dei propri elettori dovrà per forza di cose rimuovere i vincoli che da ormai vent’anni rallentano la crescita del nostro paese. Auguriamoci tutti che ci riesca, completando anche l’opera di risanamento dei conti pubblici, indispensabile perché la turbolenza nei mercati finanziari non ci penalizzi. Ci vogliono circa due punti in meno nel rapporto fra spesa pubblica e Pil. Federalismo fiscale, legge elettorale e recupero dell’evasione fiscale sono le tre sfide più impegnative del primo anno.

IDENTIKIT DEL DEPUTATO

Qual è il profilo degli eletti della XVI legislatura? Alla Camera ci sono più donne: il 22 per cento contro il 17 per cento della precedente. Nel Pd arrivano al 30 per cento. L’età media scende a 50 anni, cresce in particolare la quota degli under 40, grazie soprattutto agli eletti della Lega. Relativamente stabile la composizione della Camera per titolo di studio grazie ad un effetto di composizione dei nuovi entranti.

IL PAESE DEI MICRO-COMUNI

Siamo i soli in Europa ad aumentare organismi comunali e provinciali anziché ridurli di numero, e di costo. Le province, accusate da decenni di pratica inutilità, sono balzate da una novantina a oltre cento. I comuni, che nel 1951 erano 7.810, mezzo secolo più tardi risultano 8.101. Ma la riorganizzazione della rete comunale è un compito storico, sul quale le nostre Regioni dovrebbero cominciare a lavorare con la solerte attenzione, per esempio, dei Laender tedeschi. Ma chi avrà il coraggio di affrontare il radicatissimo municipalismo italiano?

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