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LE RAGIONI DEL DIVARIO PRODUZIONE INDUSTRIALE-FATTURATO

Il problema di divergenze sistematiche tra andamento della produzione industriale e quello del fatturato del medesimo settore, opportunamente depurato dell’effetto della dinamica dei prezzi (cioè deflazionato), si pone da ormai qualche anno e, in particolare, da quando l’Istat ha completato la copertura degli indici dei prezzi alla produzione, includendo anche quelli relativi al mercato estero. Questa disponibilità di più informazioni e punti di vista sul medesimo fenomeno ha arricchito l’informazione, ma ha esposto l’Istituto alle critiche da parte di chi preferirebbe un quadro univoco, del tipo di quello che sembra prevalere (ma la lettura superficiale inganna) nel panorama tedesco.

UN CONFRONTO EUROPEO

Va messo subito in chiaro che la situazione italiana non è atipica, ma simile a quella di altri importanti paesi europei in cui i due indicatori sono misurati in maniera indipendente, come dimostra il seguente esercizio sui dati aggregati del fatturato del settore manifatturiero, deflazionato con gli indici dei prezzi alla produzione totali, per i quattro maggiori paesi europei e per l’aggregato dell’area euro (Uem). (1)

Tra i quattro paesi, quello con la maggiore coerenza è la Germania, dove i due indicatori sono calcolati sulla base di una stessa indagine. Ciò che colpisce è, semmai, che anche utilizzando un metodo così “internamente coerente” le divergenze non si evitano: nel 2010 la crescita annua della produzione supera quella del fatturato deflazionato di oltre un punto percentuale e, nel confronto tendenziale relativo ai primi quattro mesi del 2011, il divario si amplia a circa 2,5 punti percentuali. Il fatto che il differenziale sia a favore della produzione industriale non rassicura, in quanto conferma una tendenza comune a tutto il periodo: in questo paese, cioè, la produzione fornisce sempre un segnale più favorevole (distorto verso l’alto?).

Nel caso della Spagna le differenze sono ampie ma non sistematiche, alternandosi spesso di segno; riguardo al periodo recente risalta il fatto che la ripresa del 2010 sia quantificata in maniera molto diversa dai due indicatori: +2,1 per cento il fatturato deflazionato, +0,6 per cento la produzione.  

Infine, la situazione francese e quella del nostro paese sono per molti versi simili: il fatturato mostra una performance sistematicamente migliore e in alcuni anni il divario è molto ampio; in assoluto, le differenze sono significativamente maggiori per la Francia, con un massimo di quasi 7 punti percentuali nel 2009 (anno che segna il massimo anche per l’Italia con 4,6 punti).

Per l’area Uem si ripete il consueto (per gli statistici) “miracolo dell’aggregazione”: sommando paesi con differenze tra i due indicatori di ampiezze difformi e segni opposti, si giunge a un segnale complessivo che in termini di media annua è molto coerente.

IL CASO ITALIANO

Sgomberato il campo dalla tesi della “anomalia italiana”, è comunque necessario capire meglio se ci sia un problema e come affrontarlo. Per verificarlo è necessario operare un confronto il più accurato possibile: per questo la deflazione del fatturato va operata al livello di massima disaggregazione (3 cifre della Ateco, disponibili a tutti gli utilizzatori) ed escludendo le componenti (circa il 10 per cento) per le quali non esiste una sovrapposizione nei due indici. (2) L’esercizio conferma la crescita più rapida del fatturato (figura 1), anche se fino al 2008 le differenze nei tassi di variazione sono piuttosto contenute (0,7 decimi di punto nel 2007, 0,9 nel 2008). Nel 2009, invece, l’impatto della crisi viene misurato in maniera diversa: in media d’anno la produzione cala del 19 per cento mentre il fatturato reale del 15 per cento. Sebbene ciò non metta in alcun modo in dubbio l’ampiezza della recessione, la differenza è significativa ed è probabilmente da attribuire a due fattori: un marcato calo ciclico delle scorte e il fatto che alcune componenti del fatturato (quelle più connesse alle attività terziarie incorporate nel settore industriale) ne hanno attenuato la caduta. Per converso, nella prima fase della ripresa, misurata dalla variazione media del 2010, produzione e fatturato reale segnano crescite assolutamente allineate (6,9 per cento per entrambi). La forbice si riapre nella parte finale del 2010, portando a un marcato divario. In tale fase la differenza tra i due indicatori è spiegabile in parte dal ciclo delle scorte, che, riducendosi, avrebbero alimentato la crescita maggiore del fatturato rispetto alla produzione.

QUALCHE CONCLUSIONE

Come abbiamo visto la divergenza tra i due indicatori esiste (in Italia come in altri paesi), ma è tornata significativa solo nei dati più recenti (ultimi 6-8 mesi). Se questa differenza sarà circoscritta nel tempo, con un effetto analogo a quello di altri episodi specifici che si individuano sia negli indicatori italiani, sia in quelli degli altri paesi (ad esempio, la differenza di segno opposto, registrata nei dati tedeschi dell’ultimo anno) resteremmo nella fisiologia del confronto tra strumenti di misurazione differenti. Se invece persistesse una dinamica differenziale si aprirebbe un problema più serio ed è per questo che l’Istat sta, preventivamente, approfondendo l’analisi a livello settoriale fine e a livello di dati di impresa.

Ad esempio, l’Istat sa bene che unrinnovo annuale del campione di prodotti e imprese (innovazione recentemente apportata per gli indici dei prezzi industriali) potrebbe aiutare a superare alcune rigidità dei

metodi basati su basi fisse quinquennali, quale quello applicato alla produzione industriale, ma prima di cambiare metodologia occorre esplorare con attenzione tutti i pro e i contro di una tale soluzione, coscienti che gli utilizzatori sarebbero i primi a criticare qualsiasi discontinuità non pienamente motivata e verificata. D’altra parte, se è vero che l’indice di produzione può risentire di un’eccessiva rigidità dovuta alla definizione quinquennale del campione di prodotti da seguire, va considerato che il fatturato tende ad incorporare componenti di attività di servizio, e in particolare di attività commerciali, che non possono (correttamente) essere riflesse nella produzione industriale. D’altra parte, nel caso di imprese multinazionali italiane, il fatturato può risentire di vendite contabilizzate dalla “casa madre” collocata in Italia per produzioni realizzate all’estero: data l’espansione dell’attività delle multinazionali italiane documentata dalle rilevazioni dell’Istat questo fenomeno potrebbe contribuire a spiegare una divergenza sistematica e crescente nel periodo più recente tra i due indicatori, inducendo a privilegiare, per l’analisi congiunturale dell’industria, l’indicatore della produzione e non quello del fatturato.

In conclusione, la molteplicità dell’informazione determina certamente minore coerenza immediata ma arricchisce il quadro e, tramite l’integrazione, conduce a una misurazione più completa. In questa ottica, la produzione industriale e il fatturato deflazionato debbono essere considerate delle proxy dell’evoluzione dell’attività produttiva che vanno poi integrate dalle statistiche strutturali per trovare, infine, coerenza nei conti nazionali. Ad esempio, dall’analisi integrata di tutti questi indicatori emergono fenomeni di “spiazzamento” della produzione nazionale sul mercato interno: in altri termini, come documentato nel Rapporto annuale (pag. 22-23), proprio i settori nei quali la produzione industriale è ancora oggi su livelli prossimi a quelli, minimi, del 2009, hanno visto un fortissimo aumento delle importazioni. Sembra quindi utile non solo cercare spiegazioni “statistiche” alla scarsa performance dell’industria manifatturiera, ma approfondirne anche le motivazioni “economiche”, magari per identificare politiche industriali più adeguate ai casi dove le imprese italiane incontrano maggiori difficoltà.  

(1) Operare la deflazione a livello del totale invece che a livello disaggregato costituisce ovviamente un’approssimazione, ma il confronto con il secondo metodo, presentato più avanti per i dati italiani, indica che i risultati sono molto vicini.

(2) Più precisamente, sono comprese nell’indagine del fatturato, ma non in quella sulla produzione industriale, le classi: 051, 061, 082, 089, 091, 142, 182, 237, 266, 267 e 304. Viceversa, fanno parte del campo di osservazione dell’indice della produzione industriale, ma non del fatturato, le classi 351 e 352.

LA RISPOSTA DELL’AUTORE

L’INTERPRETAZIONE DEL GAP

Ringrazio Gian Paolo Oneto per il commento che arricchisce la discussione fornendo una più precisa evidenza dello iato produzione/fatturato (con un confronto omogeneo) e informando che all’Istat si è all’erta sulla questione e che si considera la possibilità, se il differenziale col fatturato reale non dovesse rientrare, del rinnovo annuale, anziché quinquennale, del campione della produzione industriale (come già fatto per i prezzi alla produzione). Segnalo che questo problema è stato affrontato anche nel recente Rapporto del Centro Studi Confindustria (Scenari economici, giugno 2011).
Nel mio articolo non ho intenti critici, ma cerco di sfruttare a fini interpretativi il gap apertosi tra le due variabili per ricavare indicazioni su fenomeni di grande interesse, ma difficili da osservare: le modifiche di composizione di prodotti/imprese indotte, tra operatori eterogenei, dalle spinte selettive della recessione. Da questo punto di vista, il fatto di avere due indicatori diversi, come in Italia, fornisce maggiori possibilità di lettura della distruzione creativa rispetto al caso tedesco in cui si hanno due indicatori simili. Proprio per tale motivo, se l’Istat dovesse passare a un indice di produzione a base mobile sarebbe da suggerire di conservare comunque quello a base fissa. 
Due considerazioni su altrettanti rilievi avanzati da Oneto. La prima riguarda l’esclusione che si fa nel suo commento di andamenti atipici italiani rispetto a quelli europei, anche a prescindere dal caso tedesco. Osservando le dinamiche congiunturali nella fase di ripresa, su cui si focalizza l’attenzione del mio articolo, mi sembra che vi sia invece una disomogeneità (v. figure 1-4).

La seconda attiene all’interpretazione. Nell’articolo attribuisco la causa del divario a mutamenti del mix. Se così fosse c’è da attendersi che quando si aggiornerà la struttura di pesi/imprese/prodotti dall’anno 2005 al 2010 la produzione tornerà ad avvicinarsi al fatturato. Ne conseguirebbe un maggiore allineamento del ciclo industriale dell’Italia agli andamenti europei. Il che, tra l’altro, significa: nulla di miracoloso, solo normalità. Nel commento questa interpretazione viene ritenuta poco probabile e declassata al rango di spiegazione statistica, mentre si richiama l’influenza di altri fattori: terziarizzazione, ruolo delle multinazionali, spiazzamento a opera dell’import. Questi fenomeni sono tutti rilevanti, ma non mi convincono. Erano peraltro nella lista dei sospetti anche in occasione della precedente esperienza (2005-2008) di apertura del gap tra le due variabili, poi sostanzialmente eliminato dal semplice cambio di base della produzione. Ma stiamo all’oggi. La terziarizzazione della manifattura è un fenomeno importante da tenere d’occhio (come ricordato da Fabiano Schivardi al recente convegno annuale de lavoce.info ed è certamente causa di differenze tra produzione e fatturato, ma non mi pare che si abbiano evidenze di una sua intensificazione nell’ultimo periodo tale da dare luogo al divario osservato; se così fosse dovremmo peraltro rallegrarcene, visto che la differenziazione di prodotto, cui porta la terziarizzazione, è la strada per il successo competitivo a disposizione delle imprese italiane. Analogamente, si è bensì verificata una crescita delle attività dei gruppi multinazionali italiani nel 2010, ma è stato un fenomeno comunque limitato nel panorama delle imprese industriali nazionali (ha riguardato il 38 per cento delle multinazionali che a loro volta sono il 16 per cento delle imprese residenti e coprono il 15 per cento del fatturato). Infine, lo spiazzamento a opera di prodotti importati dovrebbe avere influito ugualmente su produzione e fatturato, a meno che non si sia trattato di un aumento di acquisti dall’estero di beni poi rivenduti senza subire alcuna trasformazione, ma anche per tale fenomeno non mi sembra vi siano chiare evidenze nei dati disponibili. Per questi motivi propendo per la tesi del rimescolamento produttivo causato dalla recessione (forse più intenso in Italia rispetto a quanto si è verificato in Francia e Spagna, visti gli andamenti dei due indicatori congiunturali).

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Tra gli interessanti commenti dei lettori scegliamo di rispondere a quelli che ci permettono di fare un passo avanti nella nostra riflessione sui temi della politica economica europea e della gestione delle crisi in un’unione monetaria.
Rino scrive che “il lavoratore tedesco avrà pur il diritto di non volere pagare le tasse per gli altri”. Ecco, è proprio questo proclamato diritto uno dei motivi per cui gli interventi europei per il salvataggio della Grecia sono stati incerti, ritardati, insufficienti e assurdamente costosi sia per il “salvato” che per i “salvatori”. Senza dire poi che salvando la Grecia si salvano anche le banche tedesche e (soprattutto) francesi, i cui portafogli sono da anni ampiamente gravati da titoli del debito pubblico greco.
Ma c’è di più: l’egoismo fiscale nazionale è la principale mina per la stabilità dell’unione monetaria europea. Come ci ha ricordato da ultimo il premio Nobel Amartya Sen (Repubblica del 3 luglio 2011), gli stati che fanno parte di un’unione monetaria senza politica fiscale federale sono sempre sotto la spada di Damocle dei mercati. Anzi, lo sono molto di più di quanto lo siano paesi che abbiano la facoltà di manovrare il tasso di cambio e, quindi, di svalutare il proprio debito pubblico e il proprio debito estero (denominato in valuta nazionale), riducendo il costo del default: si veda come diversamente vanno le cose in Spagna e in Gran Bretagna, nonostante che il rapporto tra debito pubblico e Pil britannico (89%) sia più alto di quello spagnolo (72%) (De Grauwe, 2011). Solo una politica fiscale federale, in un’unione monetaria, può realisticamente correggere temporanei squilibri prima che si trasformino in crisi debitorie conclamate e difficilmente gestibili.
Ma una politica fiscale federale, ovviamente, richiede una vera Europa politica, perché giustamente vari lettori osservano che non è possibile affidare tutta la politica economica ad organismi tecnici, privi di rappresentanza e di responsabilità di fronte agli elettori. Crediamo però che gli elettori debbano essere quelli europei e non quelli nazionali (tedeschi, francesi, olandesi, italiani, ecc.). Una vera federazione Europea potrebbe prevedere una consistente cessione di sovranità dai singoli stati alla federazione e quindi permetterebbe la messa a punto di strumenti di monitoraggio e di punizione dei comportamenti devianti dei vari paesi molto più efficaci di quelli attuali, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo Patto di stabilità e crescita. In breve, la permanenza e la stabilità dell’unione monetaria richiede il definitivo superamento dell’ “Europa delle patrie”, tanto cara a Charles De Gaulle, e l’approdo agli Stati Uniti d’Europa di Altiero Spinelli.
La proposta di affidare la governance dell’Efsf e del futuro Esm a un organismo tecnico europeo, va nella direzione di costituire un embrione di politica fiscale federale, sottratta ai veti dei singoli stati. È chiaro che gli interventi di salvataggio non esauriscono la politica fiscale federale e, anzi, ne rappresentano solo il lato emergenziale, da ultima o penultima spiaggia. Ma oggi c’è solo questo e da qui si deve cominciare.
Il fatto che l’organismo di governance dell’Efsf e del futuro Esm non debba richiedere l’autorizzazione unanime degli stati per ogni singolo atto di intervento non significa, però, che non possa avere direttive politiche e che non debba rispondere a nessuno del suo operato. Ma le direttive dovrebbero venire dal Parlamento Europeo e a designare i componenti del board di questo organismo dovrebbe ancora essere il Parlamento Europeo e non gli stati membri (come suggerisce Giovanni nel suo commento). Per evitare che parlamentari di paesi non aderenti all’euro e non facenti parte dell’Efsf o dell’Esm contribuiscano a scelte che non li riguardano, si potrebbe prevedere che essi non possano partecipare alla valutazione su tali scelte. Naturalmente, questa è soltanto una delle possibili idee, per di più pensata da chi non ha competenze costituzionali adeguate. Altre idee sono benvenute, purché sia chiaro che l’obiettivo è avviare fin da subito la costruzione di una nuova sovranità europea, anche per salvare l’unione monetaria.

De Grauwe P. (2011) «The governance of a fragile Eurozone», mimeo, University of Leuven

SE IL BOLLO-AUTO FOSSE DAVVERO EQUO

Il superbollo sulle auto di elevata potenza previsto dalla riforma tributaria è solo un’operazione cosmetica. E un’occasione persa per ripensare seriamente la tassa di circolazione. Che dovrebbe basarsi su quattro fattori: il valore del veicolo, il suo potere inquinante, l’uso di spazio pubblico e l’impatto usurante sul manto stradale. Sarebbe un incentivo alla costruzione di auto che comportano minori costi sociali. E se anche si continuassero a produrre veicoli inquinanti, il prelievo tra gli automobilisti sarebbe ridistribuito in modo socialmente più corretto.

IL DESOLANTE COPIA-INCOLLA DELLA DELEGA FISCALE

Il Governo ha approvato una bozza di legge delega per la riforma fiscale. Un documento costruito molto in fretta, con pochi ingredienti, dagli esiti distributivi e di gettito assolutamente incerti. Per rimpolparlo si è allora ricorsi al più classico “copia e incolla” dalla legge delega presentata da Tremonti nel 2001, approvata dal Parlamento nel 2003 e poi largamente non esercitata. Come se nulla, nel frattempo, fosse cambiato nel sistema fiscale erariale, regionale e locale. Il tema del fisco è delicato. Di improvvisazione e pressappochismo non c’è proprio bisogno.

CONSOB: INDIPENDENZA È CREDIBILITÀ

Ieri la Consob ha convocato i rappresentanti dell’agenzia di rating Standard & Poor’s Italia per chiedere delucidazioni su un report diffuso dall’agenzia lo scorso primo luglio sulla manovra correttiva varata dal governo. Il report sosteneva essenzialmente, l’inefficacia della manovra ai fini della riduzione del rischio sul debito. Due erano i punti sollevati dalla Consob, che ha il potere di vigilanza sulle agenzie di rating, insieme all’Autorità per i mercati e le borse europee (Esma). Il primo era quello relativo alla tempistica del comunicato di S&P, arrivato a mercati aperti. Il secondo riguardava l’affidabilità del report, dato che il testo della manovra non era ancora ufficiale al momento della diffusione del report. Non è ovvio che la prima obiezione sia corretta. I titoli di Stato italiani sono trattati su tutti i mercati mondiali e pertanto è difficile che tutti i mercati in cui essi sono trattati siano chiusi. Più fondata sembra la questione dell’affidabilità delle informazioni su cui S&P ha basato il suo report. Questo episodio si aggiunge alla lunga lista di critiche che le agenzie di rating hanno ricevuto in questi anni. Giudizi su società rimasti positivi fino a pochi giorni prima di insolvenze o scoperta di gravi irregolarità, conflitti di interesse e, come denunciava ieri il Corriere Economia, scarsa trasparenza sulla struttura interna.
Ma, al di là della fondatezza delle obiezioni sollevate,  la decisione della Consob lascia spazio a interpretazioni meno che nobili sulla sua reale motivazione. È difficile resistere alla tentazione di pensare che l’ex sottosegretario all’Economia, Giuseppe Vegas, adesso Presidente della Consob, abbia voluto spezzare una lancia a favore del ministro Tremonti e della sua manovra correttiva. Ed è anche difficile non ricordare come l’ultimo gesto di Vegas prima di diventare Presidente sia stato quello di votare la fiducia al governo Berlusconi. Insomma, un’azione che potrebbe avere una interpretazione perfettamente plausibile può essere vista in una luce meno favorevole a causa del passato di chi compie tale scelta. Sarebbe bene tenere in mente questa considerazione anche nella scelta del futuro Governatore della Banca d’Italia.

L’EUROPA E LA PAURA DEL CONTAGIO

È la paura del contagio ad altri paesi che spinge a rifiutare l’ipotesi di una ristrutturazione del debito della Grecia. Eppure l’evidenza empirica sull’andamento degli spread dei Cds suggerisce che una ristrutturazione ordinata del debito greco ha oggi meno probabilità rispetto al passato di produrre una dirompente fuga dall’Europa. Dunque, il destino degli altri paesi problematici riposa ora più che mai nelle loro mani e nella credibilità delle politiche di risanamento che intendono attuare. Vale naturalmente anche per l’Italia.

UN PRESTITO CON MOLTI VANTAGGI

Lo schema proposto nel primo intervento trasforma il prestito allo studente in un’attività finanziaria ibrida, che ha alcune delle caratteristiche di una “partecipazione azionaria” al suo reddito futuro. Fornisce quindi una (parziale) assicurazione allo studente contro il rischio associato al suo investimento in istruzione, rendendolo più accessibile.

INVESTIMENTO A ELEVATO RENDIMENTO

Qualcuno obietterà che il reddito atteso dei neolaureati è troppo basso per coprire il rimborso. Con questo schema, però, il rimborso è basso proprio quando il reddito è basso, e calcoli preliminari mostrano che, sulla base della distribuzione oggi osservata per i redditi futuri dei neolaureati, assumendo che sia di 15mila euro il reddito al di sotto del quale non si rimborsa, la gran parte sarebbe in grado nel tempo di rimborsare per intero il debito contratto, sia pure in periodi molto lunghi. Soprattutto, se lo schema funziona e mette in moto, attraverso il meccanismo concorrenziale, un miglioramento qualitativo dell’università, ci si può attendere che anche il “rendimento dell’istruzione” aumenterà, rendendo più semplice rimborsare il debito. E d’altra parte il sistema di prestiti potrebbe essere introdotto con gradualità, iniziando proprio da quegli atenei che, più di altri, sembrano garantire ai propri laureati prospettive lavorative migliori e più remunerative.
Il prestito, di fatto, è erogato dallo Stato allo studente, come avviene in molti dei sistemi in vigore negli altri paesi. Per evitare la creazione di una burocrazia dedicata a tale funzione (e i costi a essa collegati) si può utilizzare il sistema bancario e la sua rete distributiva, o le Poste, che verrebbero così a svolgere la funzione di “agente di pagamento” (per l’istituzione erogante l’operazione ha il vantaggio di fornire un primo contatto con nuovi giovani clienti; questo vantaggio dovrebbe contenere le eventuali commissioni per lo svolgimento del servizio). Nella fase di rimborso del credito, invece, si sfrutta la capacità impositiva dello Stato, al posto di più costosi sistemi di recupero crediti.
Da un punto di vista contabile, i prestiti sarebbero per lo Stato un’attività, finanziata attraverso l’emissione di debito lordo; si tratterebbe di un’operazione finanziaria che non avrebbe effetti sul disavanzo monitorato dalla Commissione europea. Sarebbe un caso esemplare di utilizzo del debito per il finanziamento di un investimento con un elevato rendimento sia privato sia sociale, quello in istruzione superiore. Ma se vincoli finanziari precludessero questa strada, si potrebbero elaborare alternative che prevedano un ruolo a soggetti con una forte partecipazione pubblica, ma di natura privatistica: è un aspetto che andrà approfondito.
Con lo schema proposto la possibilità che ci sia evasione fiscale nei redditi dichiarati è scarsa: a parte il caso estremo di evasione totale e permanente, l’ex-studente che dovesse dichiarare un reddito inferiore all’effettivo, avrebbe come unica conseguenza quella di allungare il periodo di rimborso e di aumentare per la componente degli interessi la cifra da rimborsare, senza nessun guadagno in termini di valore attualizzato del rimborso.
È facile introdurre in questo meccanismo, per rafforzare gli incentivi all’istruzione universitaria, elementi di sussidio a carico della finanza pubblica, così da finanziare in tutto o in parte la quota di debito che risultasse non recuperabile e ridurre il tasso di interesse con cui i prestiti sono capitalizzati e i rimborsi vengono scontati.
Se poi, come sembra opportuno, si sfruttasse la disponibilità di prestiti agli studenti per liberalizzare le tasse universitarie (almeno in parte e selettivamente) e aumentare così la copertura dei costi universitari da parte dei privati, si potrebbe prevedere che il risparmio per il bilancio pubblico così ottenuto venga, in tutto o in larga parte, utilizzato per sussidiare i prestiti concessi.

DIFFERENZE CON LA PROPOSTA DEL GOVERNO

Il governo in carica, attraverso il ministro della Gioventù, ha costituito, meno di un anno fa, il fondo “Diamogli Futuro” (con dotazione di 19 milioni di euro), riprendendo e ampliando una simile iniziativa del Governo precedente, per favorire lo sviluppo di prestiti universitari (a dire il vero, anche per la frequenza di corsi di dottorato e di corsi di lingua). Vincoli di spazio impediscono di entrare nel merito di quell’iniziativa, salvo chiarire la principale differenza con la proposta qui avanzata. Nello schema del governo, il fondo è a garanzia (parziale, in caso di mancato rimborso) di prestiti erogati da banche: si tratta di prestiti standard, in cui il rimborso è fisso e indipendente dal reddito. Ciò comporta per il giovane neo-laureato un rischio notevolmente superiore a quello che qui gli si chiede di sopportare. Per avere un’idea della differenza, supponiamo che il tasso di interesse richiesto dalla banca sia del 3 per cento reale (l’esperienza con l’iniziativa del precedente governo suggerisce che il tasso potrebbe essere anche del 4 o 5 per cento), che il prestito sia il massimo consentito dallo schema del governo (5mila euro l’anno, per cinque anni: capitalizzato al 3 per cento, genera un debito totale da rimborsare di circa 27mila euro), e che il periodo di rimborso sia anch’esso pari al massimo consentito (quindici anni); la rata di rimborso costante risulterebbe di circa 2.100 euro l’anno, ben sette volte superiore a quella che lo schema qui proposto richiederebbe inizialmente a un ex-studente il cui reddito sia pari al primo quartile della distribuzione dei redditi dei laureati, quasi due volte e mezzo quella inizialmente richiesta a un ex-studente con il reddito medio (tassi di interesse più elevati o un periodo di rimborso più breve renderebbero il confronto ancora più sfavorevole). Non stupisce che studenti e famiglie, a ragione avversi al rischio, in passato si siano in larga misura tenuti alla larga da schemi di questo tipo. Azzardo la previsione che lo stesso succederà con lo schema recentemente introdotto dal ministero della Gioventù.

PENSIONI ALLA SVEDESE

Il governo pensa di congelare l’indicizzazione delle pensioni al di sopra di un certo importo. Sarebbe più equo indicizzare quelle pensioni alla crescita economica, così come avviene in Svezia. Un intervento che permetterebbe di ottenere risparmi sostanziali sulla spesa pensionistica. Ma ancor più importante determinerebbe una compartecipazione dei pensionati alle perdite o ai guadagni dell’economia. Perché sin quando le pensioni saranno una variabile indipendente, la crescente popolazione dei pensionati non avrà alcun interesse a sostenere politiche per la crescita.

CRISI DELL’EURO TRA POLITICA E MERCATO

Le relazioni tra mondo della politica e della finanza sono da sempre difficili. Ma nella crisi dell’euro si aggiunge un altro elemento, quello delle attuali istituzioni europee. In materia finanziaria è sempre più l’Unione Europea a indicare le politiche, le scelte sono però condizionate dalla politica interna dei singoli paesi. Della Germania in particolare, che però dopo la seconda guerra mondiale non è mai stata toccata da una crisi finanziaria e non ha l’esperienza per fronteggiarla. Non è semplice risolvere una crisi istituzionale, oltre che finanziaria e fiscale.

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