L’imposizione sull’abitazione di residenza è la norma negli altri paesi. Il valore dell’immobile di residenza è un ottimo indicatore di capacità contributiva, fortemente correlato con reddito e ricchezza.
L’esenzione da imposte sulla “prima casa” determina dunque iniquità orizzontale. Tale esenzione non si giustifica con il fatto che si tratta di un bene primario: molti altri beni primari (il cibo, il vestiario) sono tassati.
D’altra parte, l’imposizione sulla casa di residenza non esclude la possibilità di applicare deduzioni o detrazioni in grado di modulare l’onere impositivo tra le diverse famiglie (molto meglio che distinguere soltanto tra abitazioni di lusso e non di lusso).
Va anche detto che l’investimento immobiliare ha nel nostro sistema un trattamento di favore, visto che la rendita catastale sottostima fortemente la redditività effettiva dell’immobile. Ciò discrimina rispetto a investimenti alternativi ad esempio in attività produttive.
Non si dimentichi inoltre che l’imposta sugli immobili rappresenta uno dei pochi esempi di tributo effettivamente locale, in quanto caratterizzata da una base imponibile sufficientemente uniforme e stabile sul territorio nazionale e che ben si collega ai benefici che i cittadini ricevono dall’attività pubblica. Anche da questo punto di vista, è chiaro che l’esenzione delle abitazioni principali non consente di ottenere un federalismo pienamente responsabile. Il punto sollevato nell’articolo riguardava proprio questo aspetto: chi prende le decisioni deve essere anche chi sopporta i costi di queste decisioni; dunque non si possono escludere i residenti nel disegno dell’autonomia tributaria.
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Il lavoro di Marcuzzo e Zacchia, e il dibattito conseguente, aiutano a verificare la tenuta dei criteri adottati e a individuare possibili linee di affinamento.
UN CONTRIBUTO AL CONTORNO
La definizione dei criteri per ciascuna delle 14 aree CUN è del dicembre 2008, in risposta ad una richiesta della Ministro.
La linea seguita dal Comitato Area 13 è stata quella di una soluzione di equilibrio dinamico fra:
– la specificità dei contenuti e metodi dell’Area, la quale è la più differenziata fra le 14 Aree CUN, si pensi alla distanza fra econometria, statistica e matematica e l’economia, l’economia aziendale, la storia economica, la storia del pensiero economico, l’organizzazione, la merceologia;
– l’articolazione delle proposte provenienti dalle altre Aree CUN per il necessario coordinamento di sistema;
– e il clima di urgenza istituzionale all’epoca incalzante perché si percepiva alto il rischio che altri soggetti-enti avrebbero potuto essere invitati a provvedere; ad es., a gennaio 2009, il Parlamento ha redatto e approvato in diretta l’art. 4 della Legge n.1 in cui si dice che chi non ha pubblicazioni scientifiche non accede agli incrementi salariali, poi peraltro rimossi dalla manovra Tremonti, e non accede a Commissario di prove concorsuali.
Il Comitato ha quindi:
– lavorato in modo coordinato assieme a 14 Accademie e Società scientifiche dell’Area 13 con molteplici incontri su documenti scritti;
– inserito i criteri entro logiche differenziate di reclutamento dei ricercatori e di promozione ad associato e ordinario puntando, in una logica di supporto, ad alzare l’asticella complessiva lasciando spazio alle autonomie disciplinari o di sede;
– per questa via ha proposto un framework ragionato cercando di evitare nei criteri estremismi di automatismo e/o di approssimazione e mettendo a disposizione uno strumento per le policy locali.
DUE DETTAGLI DA SOTTOLINEARE
In primo luogo, il dibattito sui criteri per i ricercatori ci ha visti spesso isolati entro il CUN. In molte altre aree CUN per i ricercatori si prevede un numero elevato di pubblicazioni, con implicita correlazione molte pubblicazioni = alta anzianità. Noi abbiano sostenuto logiche di policy di reclutamento concorrenziali sul piano internazionale lasciando spazio al giudizio sul potenziale dei candidati, da reclutare da giovani (da ciò il requisito su una sola pubblicazione), e sollecitando un risveglio istituzionale sull’efficace utilizzo dell’istituto della conferma in ruolo.
Questa linea è stata condivisa con le Accademie e Società scientifiche dell’Area e con la Conferenza dei Presidi di Economia e di Scienze Statistiche, anche se poi i risultati dei giudizi di conferma in ruolo 2008-09 per i ricercatori nei 19 SSD dell’Area hanno mostrato risultati assai differenziati per SSD e, in particolare, in solo due SSD (SECS-P/01 e SECS-P/07) si è riscontrato un tasso di rinvio ad una seconda scadenza di circa il 10%.
Il secondo punto da sottolineare riguarda il ruolo delle Accademie e Società scientifiche come interlocutori esperti fra il quadro di riferimento disponibile e le soluzioni analitiche da adottare nel tempo (anche a seconda degli stadi evolutivi delle discipline). Questa soluzione organizzativa ha rappresentato anche la chiave operativa adottata dal CUN per la precisazione dei criteri identificanti il carattere scientifico delle pubblicazioni nella costituenda anagrafe nazionale dei docenti, premessa tecnica necessaria per implementare l’art. 4 della L. n.1/2009 (si vedano i pareri nel sito CUN). In futuro, in sostanza, le Accademie e Società scientifiche saranno chiamate a farsi carico di contribuire ai processi di valutazione con liste di riviste scientifiche nazionali e internazionali (in proposito un esempio interessante per lo stadio avanzato della discussione al suo interno è quello dell’AIDEA) e con liste di editori accreditabili.
UN PERCORSO A OSTACOLI
E’ un percorso particolarmente faticoso quello in cui versa la valutazione della ricerca in Italia, sempre sospeso tra fiammate comunicative di principio e di richiamo e prassi di implementazione lente, spesso contraddittorie e non sempre trasparenti, specie quando il processo decisionale si avvicina ai livelli della Politica. Qualche esempio: i criteri 2008 sono ancora una base di moral suasion e non un Decreto attuativo, pur citato nella L. n.1/2009; il Bando VQR 2004-08 del CIVR (che poteva consolidare il discorso evolutivo dei criteri) è fermo da mesi (forse in attesa del Consiglio Direttivo dell’ANVUR che però avrà bisogno di molti, troppi, mesi per essere operativo); il PRIN langue: i fondi 2008 sono arrivati solo recentemente e i Garanti 2009 ad oggi devono ancora essere scelti nell’ambito delle terne fornite da CUN, CRUI e CEPR ad aprile; il Decreto di distribuzione del Fondo di Finanziamento Ordinario 2010, col Fondo premiale che recupera i criteri sulla ricerca, a fine agosto 2010 non è ancora disponibile e così via.
Il CUN, organo istituzionale, cerca, anche col contributo dell’Area 13, di tenere una linea di responsabilità consapevole, ma spesso mancano interlocutori davvero interessati a farsi carico con sistematicità e continuità dei problemi del Sistema Universitario.
Francesco Favotto, Alessandra Petrucci, Ezio Ritrovato
* Gli autori sono membri del Comitato Area 13 del CUN
Funzionerà il nuovo Codice della strada? Per capirlo, guardiamo cosa è accaduto con la patente a punti. I numeri della polizia e dell’Istat dicono che dopo la sua introduzione incidenti stradali e vittime sono notevolmente diminuiti. Un risultato confermato dall’analisi econometrica, che permette di escludere l’influenza di altri fattori. E dai dati emerge anche una significativa riduzione nel numero di infrazioni accertate. Cali più consistenti quanto più forte è stato l’inasprimento delle sanzioni.
Gli investimenti nel fotovoltaico, fiorenti grazie agli incentivi introdotti nel 2007, rappresentano un perdita secca per la collettività. Non riescono ad ammortizzarsi nemmeno in parte. Probabilmente si raggiungerà una potenza installata vicina ai duemila megawatt e l’onere annuale per il Gse salirà così ben oltre il miliardo. Fuorviante definirla una energia “rinnovabile”: finito il sussidio non resterà nulla, mentre si dovranno smaltire milioni di pannelli obsoleti.
Il fotovoltaico è uscito dalla fase di sperimentazione e affronta quella dell’industrializzazione, con innovazioni tecniche continue e riduzione di costo inimmaginabili solo pochi anni fa. Lo si deve soprattutto alla determinazione con cui alcuni paesi hanno sostenuto le imprese del settore, riconoscendone le prospettive di lungo periodo. Anche in Italia ha dato un importante impulso alla ricerca e fatto nascere centinaia di aziende. Ma il meccanismo di incentivo ha limiti chiari e dovrebbe essere migliorato.
Questa scheda si propone di documentare l’andamento della quota salari in Italia e in alcune economie avanzate negli ultimi quattro decenni. (1) La quota salari rappresenta la parte del reddito nazionale assegnata al fattore lavoro nell’ottica della distribuzione funzionale del reddito fra i fattori di produzione, quali capitale, lavoro e terra. Rappresenta perciò una delle componenti più importanti della distribuzione del reddito a livello aggregato e non individuale. In altri termini, non si sta guardando alla distribuzione personale dei redditi da lavoro e quindi ai salari medi individuali, ma piuttosto alla quota assegnata all’insieme dei lavoratori dipendenti.
Più ombre che luci nella riforma della fiscalità comunale. Nascono dubbi sul fatto che possa garantire la certezza di risorse alla base di ogni seria prospettiva di responsabilizzazione degli enti territoriali. Nella seconda fase, l’Imup si profila come una super-patrimoniale sulle seconde case.
La seconda fase della riforma della fiscalità comunale scatterà dal 2014. A partire da quell’anno, i comuni che decideranno di farlo potranno istituire una nuova imposta, denominata Imposta municipale propria (d’ora in poi Imup), regolata dalla normativa statale ma con il riconoscimento ai comuni di margini di autonomia. Se istituita, l’Imup cancellerà le imposte statali immobiliari devolute nella prima fase (con l’eccezione della cedolare secca sulle locazioni) e l’Ici.
DUE COMPONENTI PER UN’IMPOSTA
Dell’Imup, il decreto fissa alcuni elementi fondamentali ma su altri rimanda la decisione al futuro. Sarà un’imposta doppia, con due differenti componenti: la prima basata sul possesso dell’immobile, come l’Ici attuale, la seconda sul suo trasferimento, come oggi l’imposta di registro e quella ipo-catastale. E sarà un’imposta patrimoniale, visto che la base imponibile resta il valore catastale, gravante prevalentemente sulle seconde case (a disposizione e locate) e sugli immobili non residenziali, con netta conferma dell’esenzione totale dell’abitazione principale per la componente possesso. Le aliquote base saranno fissate dallo Stato, ma si riconosce ai comuni la possibilità di manovrarle in aumento o in diminuzione entro limiti prefissati, addirittura fino al 3 per mille sulla componente possesso. Sulla stessa componente è poi previsto un regime fortemente agevolativo, addirittura metà dell’imposta ordinaria, nel caso di immobili locati e in quello di immobili utilizzati nell’esercizio dell’attività di impresa, arti e professioni ovvero posseduti da enti non commerciali.
La nuova Imup sarà in realtà un tributo composito, basato su presupposti differenti (il possesso, il trasferimento di immobili), una collezione di tributi oggi esistenti che, sotto una etichetta unica, manterranno in gran parte i loro caratteri distintivi. Insomma, una forzatura dettata dall’obiettivo di attribuire tutta la tassazione immobiliare ai comuni (con margini differenziati di manovrabilità) e di semplificare a tutti i costi, senza però cambiare nulla in sostanza, senza cogliere l’occasione per mettere mano a una riforma concreta della tassazione immobiliare.
UNA SUPER-PATRIMONIALE SULLE SECONDE CASE
Valutare l’Imup è esercizio arduo in quanto il decreto manca di fissare un elemento fondamentale del nuovo tributo: l’aliquota base della sua componente principale, quella collegata al possesso dell’immobile. Qualche considerazione di larga massima è comunque possibile.
Sotto il vincolo della neutralità finanziaria, data la riconferma della piena esenzione della prima abitazione, data la necessità di recuperare la perdita di gettito derivante dalla cedolare secca al 20 per cento rispetto all’Irpef attuale e dati infine i regimi fortemente agevolativi previsti nella nuova imposta, il risultato non può che essere un pesante spostamento del prelievo fiscale a danno, in particolare, delle seconde case.
Le prime simulazioni indicano che per garantire parità di gettito, l’aliquota base dovrebbe essere fissata nell’intervallo tra l’11 e il 14 per mille, ossia circa il doppio dell’aliquota Ici attuale. Il risultato sarebbe pertanto una super-patrimoniale sulle seconde case. Questa prospettiva avrebbe qualche vantaggio in termini redistributivi, ma penalizzerebbe fortemente l’investimento immobiliare diverso da quello finalizzato all’acquisizione della prima abitazione. La possibilità di fissare l’aliquota base a un livello un po’ più basso dipende criticamente dall’effettivo recupero di evasione nella tassazione sugli immobili che dovrebbe derivare dagli incentivi all’emersione generati dall’abbattimento dell’aliquota previsto con la cedolare secca e dal maggiore coinvolgimento dei comuni nell’attività di accertamento. Ma su entrambi i fronti, i margini di incertezza sono forti.
Anche per la seconda fase rimangono i problemi evidenziati sul piano perequativo, in quanto la nuova Imup concorre al finanziamento del fondo di perequazione. Un punto di ambiguità che permane nel testo del decreto è poi quello che riguarda il carattere facoltativo del passaggio dalla prima alla seconda fase. La Relazione sul federalismo fiscale del 30 giugno affidava l’istituzione dell’Imup a una verifica di consenso popolare su iniziativa dei singoli comuni. Si tratta di una previsione alquanto singolare poiché nel caso in cui solo alcuni comuni decidano di passare alla nuova imposta, si avrebbero seri problemi di funzionalità per il sistema perequativo municipale. E ciò perché il meccanismo perequativo dipende dalla determinazione della capacità fiscale, la quale deve necessariamente riferirsi a tributi di applicazione generale in tutti i comuni. Il testo del decreto sembra allontanare questo scenario, ma non risolve tutte le ambiguità.
Da ultimo, la riforma va valutata sul piano dell’obiettivo della semplificazione della tassazione immobiliare rispetto al quadro attuale. Il combinato dei differenti trattamenti differenziali previsti per le diverse tipologie di proprietari e di immobili porta a un sistema di tassazione di redditi e patrimoni immobiliari (vedi tabella 1) che sembra francamente coraggioso definire più semplice e più neutrale rispetto a quello attuale.
Ringraziamo i lettori per gli utili commenti, che ci consentono di precisare alcuni aspetti del nostro pensiero che per motivi di spazio erano rimasti fra i tasti.
Anche se abbiamo affrontato una questione specifica, relativa a una categoria di lavoratori, e anche se il nostro punto di vista dà particolare attenzione alle professioni intellettuali e liberali, c’è alla base un problema generale di grande importanza, civile ed economico: l’età del pensionamento. Pochi ormai hanno dubbi che tale età debba essere aumentata e resa più flessibile. Il rischio di “gerontocrazia” c’è solo se prendiamo l’accezione generico-populistica del termine. Se intendiamo il fatto (empirico e non ideologico) che la percentuale di “anziani” in servizio è molto alta, in sé questo non è né un bene né un male. L’esempio (solo un esempio, non un confronto sistematico) che abbiamo fatto menzionando Harvard intendeva sottolineare che una università di assoluta eccellenza non sembra aver timore di avere docenti anziani: una volta tanto potrebbe essere bello seguire un esempio di questo genere (non pensiamo valga la pena imitare università di basso livello, abbiano o non abbiano molti anziani nei loro ranghi). Se però si desidera riequilibrare l’età media dei professori, il rimedio efficiente ed equo è assumerne di nuovi, giovani e bravi, procedura che sia nei fatti che nella logica è del tutto indipendente da quella di eliminare i vecchi. Sembra invece che alcuni non abbiano il timore, che a noi sembra molto fondato, che si possa decidere di mandare in pensione gli ultrasessacinquenni e non assumere nessuno al loro posto. Il timore è forte, perché, come notano anche Brugiavini e Weber nella loro risposta ai commenti ricevuti, il costo dei professori pensionati continuerà ad essere sostenuto dai contribuenti: le pensioni sono pagate dall’Inpdap, gli stipendi dall’Università, ma si tratta sempre del bilancio dello Stato e le due somme, in virtù della natura retributiva del sistema pensionistico, sono più o meno dello stesso importo (come si sa, non esiste un pasto gratis). Né potrà essere d’aiuto la parte della proposta PD, cui si accenna nei commenti, dove si menziona la possibilità che ai pensionati forzati vengano conferiti (perché poi dal CdA?) contratti per la didattica; in questo modo, oltretutto, i soggetti in questione verrebbero pagati due volte, dall’Inpdap e dall’Università (come, assurdamente, avviene già in parte anche oggi), e ci sarebbero meno spazio e meno risorse per i giovani!
Infine, sembra anche poco noto all’opinione pubblica che il ricambio generazionale è comunque imminente nei fatti. Il CUN stima una fuoriuscita di circa 1500 docenti l’anno, con conseguente pensionamento, entro il 2018, del 50% degli ordinari e del 25% degli associati attuali. Il pensionamento a sessantacinque anni indurrebbe invece un deflusso di circa 3000 persone l’anno, aprendo una voragine non solo a livello scientifico-culturale ma anche sul piano didattico-organizzativo. Noi ci spereremmo tanto, ma qualcuno crede veramente che sia possibile assumere 3000 nuovi docenti l’anno per i prossimi anni? Se ce la facessimo ad averne almeno 1500, scelti con criteri seri, noi saremmo contenti.
L’ora dell’auto elettrica, annunciata da normative sulle emissioni sempre più stringenti, sembra finalmente arrivata. Ma quante se ne venderanno? Quali gli impatti sul sistema elettrico? Una penetrazione dell’1 per cento corrisponderebbe allo 0,3 per cento dei consumi finali, circa 250 milioni di euro l’anno ai prezzi attuali. Con un nuovo ruolo per i distributori di energia elettrica che grazie alle prossime reti intelligenti, gestiranno una nuova capacità di riserva contribuendo a un miglior sfruttamento del potenziale delle fonti rinnovabili.