La regolamentazione del finanziamento dei partiti presenta diverse criticità . Per esempio, nel 2005 i rimborsi per le elezioni regionali, nazionali, europee hanno riguardato ottantuno formazioni politiche, per un totale di 196 milioni di euro. Una possibile revisione della normativa passa per una maggiore coerenza tra soglie di sbarramento della legge elettorale e diritto al rimborso; criteri più rigorosi di trasparenza; maggiore concorso di “piccole contribuzioni” di privati; terzietà dei controlli anche sulla fissazione dei limiti di spesa.
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In Italia il fenomeno della costituzione di società controllate dalle Regioni e dagli enti locali si è allargato a macchia d’olio, con il rischio di creare nicchie protette dalla concorrenza. Il fenomeno dell’affidamento in house va invece circoscritto entro stretti limiti, seguendo i criteri già indicati dalla Corte di giustizia europea. Non a caso il diritto comunitario lo caratterizza come una modalità eccezionale di acquisizione di forniture, servizi e lavori da parte delle amministrazioni, in deroga alle regole generali di trasparenza e concorrenza.
Nel pubblico dibattito, in Italia come altrove, molto spesso viene dato per scontato che i contributi previdenziali scoraggino lÂ’offerta di lavoro e quindi lÂ’occupazione. LÂ’implicazione è che uno dei modi di aumentare lÂ’occupazione sia di ridimensionare la previdenza sociale. Il ragionamento sottostante è molto semplice. I contributi previdenziali, siano essi a carico del lavoratore o del datore di lavoro, sono una tassa e contribuiscono quindi ad allargare il cuneo dÂ’imposta sul lavoro. In altre parole, riducono il beneficio monetario netto che una persona ricava dal lavorare unÂ’ora, una giornata o un anno in più e di conseguenza lÂ’incentivo a erogare quella quantità aggiuntiva di lavoro (ovviamente a parità di retribuzione unitaria). Anche su questo sito, Maria Cecilia Guerra e Silvia Giannini includevano i contributi previdenziali nel computo del cuneo. Ma è giusto considerare i contributi previdenziali alla stregua di unÂ’imposta? Beveridge o Bismarck? La risposta è diversa a seconda che si stia parlando di un paese anglosassone come Stati Uniti o Gran Bretagna, oppure di un paese europeo continentale come Francia, Germania o Italia. Quando c’è il cuneo In una recente nota dimostro formalmente che, in un sistema alla Beveridge, i contributi previdenziali danno necessariamente luogo a un cuneo dÂ’imposta sul lavoro, o allargano quello creato dallÂ’imposizione sul reddito. (1) Viceversa, in un sistema alla Bismarck, i contributi possono dar luogo a un cuneo e pertanto costituire un disincentivo al lavoro soltanto a certe condizioni. In talune circostanze, il sistema previdenziale può addirittura essere un incentivo a lavorare. Vediamo perché. I livelli di occupazione Come si spiega allora che i paesi anglosassoni tendono ad avere un livello di occupazione maggiore rispetto a quelli continentali? Una spiegazione è che lÂ’occupazione non dipende solo dalla politica pensionistica. UnÂ’altra è che i sistemi anglosassoni sono più “leggeri” di quelli continentali. Pur restando vero che la stessa aliquota contributiva disincentiva il lavoro di più in un sistema alla Beveridge che in uno alla Bismarck, lÂ’occupazione potrebbe infatti essere più alta nei paesi anglosassoni semplicemente perché lÂ’aliquota è più bassa. (1) Cigno, A., “Is There a Social Security Tax Wedge?” IZA DP n. 1967, February 2006. (3) Disney, R., “Are Contributions to Public Pension Programmes a Tax on Employment?” Economic Policy, July 2004, pp. 267-311
I primi hanno sistemi pensionistici pubblici alla Beveridge, dove le prestazioni possono variare da una persona all’altra sulla base di certe caratteristiche personali, ma non in base ai contributi eventualmente versati. In tali paesi la quantità di lavoro erogato e i contributi versati da una persona non hanno alcun effetto sul trattamento pensionistico della persona stessa. I contributi previdenziali sono pertanto un’imposta a tutti gli effetti (la social security tax).
Il secondo gruppo di paesi si è invece dato un sistema pensionistico alla Bismarck, dove le prestazioni aumentano per la stragrande maggioranza dei cittadini con i contributi pagati. Fanno eccezione soltanto coloro i quali otterrebbero così una pensione inferiore a un certo minimo o superiore a un certo massimo politicamente determinato. Per queste minoranze di molto poveri o molto ricchi, i contributi pensionistici costituiscono un’imposta. Per tutti gli altri, i contributi sono invece una forma di risparmio, ancorché forzoso.
Poniamo che il rendimento implicito dei contributi previdenziali sia diverso da quello che una certa persona potrebbe ottenere, a parità di rischio, investendo liberamente sul mercato. Se è minore, il contribuente sta in effetti pagando un’imposta implicita. Se è maggiore, sta ricevendo un sussidio implicito. (2) Qualora l’imposta aumentasse o il sussidio si riducesse all’aumentare del reddito sarebbe allora vero che, a parità di altre condizioni, il beneficio monetario netto di lavorare un’ora, una giornata o un anno in più è inferiore al salario orario, giornaliero o annuale. Altrimenti non sarebbe vero e non ci sarebbe cuneo. Si noti che quest’ultima proposizione è vera sia che si tratti di un’imposta o di un sussidio. Non è quindi vero che un’imposta disincentiverebbe e un sussidio incentiverebbe a lavorare. Ciò che conta è come varia l’imposta o il sussidio al variare del reddito e quindi della quantità di tempo lavorata.
Cosa succede se il contributo pagato da un lavoratore è più alto dell’ammontare che egli avrebbe volontariamente risparmiato? Se il lavoratore è in grado di eliminare l’eccesso prendendo a prestito a un tasso d’interesse pari al tasso di rendimento del contributo, la sua offerta di lavoro e il suo benessere rimarranno inalterati. Altrimenti, il suo benessere si ridurrà e la sua offerta di lavoro tenderà ad aumentare per cercare di riportare il consumo presente al livello desiderato. In presenza di un’imposta implicita crescente o sussidio implicito decrescente al crescere del reddito la distorsione derivante dal razionamento del credito tenderà quindi a compensare quella di segno contrario derivante dal cuneo d’imposta. Se dovesse predominare la prima, il risultato netto sarebbe non una riduzione, ma un aumento dell’offerta di lavoro (anche se a costo di una riduzione del benessere). In ogni caso, il disincentivo a lavorare sarà minore, a parità di aliquota contributiva, se il sistema pensionistico è di stile continentale invece che di stile anglosassone.
In un suo articolo, Richard Disney mette in relazione il tasso di partecipazione maschile e femminile in un certo numero di paesi dapprima con lÂ’aliquota contributiva e poi con le componenti “imposta” e “risparmio” della stessa. (3) La partecipazione maschile risulta essere insensibile sia allÂ’aliquota che alle sue componenti. Per contro, la partecipazione femminile risulta negativamente correlata sia con lÂ’aliquota che con la sua componente imposta, ma positivamente correlata con la componente risparmio. Tutto questo è coerente con il ragionamento teorico che abbiamo fatto.
La procedura seguita da Disney può essere criticata perché è basata su dati aggregati e perché calcola l’aliquota contributiva come quella quota dei salari che dovrebbe essere versata nelle casse del fondo pensioni per mantenerlo in equilibrio nel lungo andare. Sappiamo invece che l’aliquota effettiva non è sempre stata quella d’equilibrio. Sappiamo inoltre che in alcuni paesi, in particolare l’Italia prima delle riforme Amato e Dini (e ancora adesso finché l’ultima riforma non va a regime), vi sono state disparità di trattamento previdenziale. Per un test convincente della teoria bisogna quindi aspettare analisi basate su dati individuali.
Alla luce della corsa al pensionamento anticipato da parte di alcuni, e a costosi “riscatti” e “ricongiungimenti” da parte di altri, verificatisi in Italia dopo lÂ’annunzio dellÂ’ultima riforma previdenziale, mi sembra però di poter escludere sin da ora lÂ’ipotesi che il cittadino non si renda conto del legame fra contributi e trattamento previdenziale, o che non agisca di conseguenza. Non assumiamo quindi che i contributi previdenziali siano una tassa sul lavoro e non lasciamoci convincere troppo facilmente a smantellare la previdenza sociale.
(2) Questo si può verificare nelle fasi iniziali di uno schema pensionistico a ripartizione, quando i primi pensionati ricevono una pensione pur non avendo pagato contributi per gran parte della propria vita attiva, nel qual caso il prezzo del regalo sarà pagato dalle generazioni successive, oppure in periodi di rapida crescita, quando il tasso di rendimento sostenibile è superiore al tasso d’interesse. In Italia hanno ricevuto sussidi impliciti le coorti nate fra il 1940 ed il 1945.
I differenziali di reddito e occupazione fra le regioni dell’Unione Europea si attestano su livelli assai elevati. Tuttavia, la mobilità geografica resta bassissima. Né si riesce ad agire sui salari, spesso contrattati a livello nazionale, senza tener conto delle condizioni locali del mercato del lavoro. E la disoccupazione nel Sud Italia è tre volte quella del Nord. La politica economica deve fare una scelta chiara, in favore di una maggiore mobilità del lavoro o di una maggiore flessibilità regionale dei salari. Altrimenti, i divari tra regioni continueranno a essere pronunciati.
Il 18 gennaio, su “la Repubblica”, Eugenio Scalfari ha mosso alcune critiche radicali alla proposta contenuta nel libro “A che cosa serve il sindacato” (Mondadori) di Pietro Ichino, il quale ha risposto a quelle critiche il 20 gennaio con un editoriale sul “Corriere della Sera”, ponendo a sua volta a Scalfari alcune domande non retoriche. Il dialogo è proseguito nel corso di un incontro svoltosi a Roma il 14 febbraio scorso, di cui qui riportiamo i contenuti essenziali. La trascrizione è stata rivista e approvata da entrambi gli autori.
Le imprese italiane versano oggi un contributo obbligatorio per il sostegno delle politiche di formazione dei lavoratori. Le risorse si riversano in fondi destinati a co-finanziare gli interventi formativi. Peraltro, poco utilizzati dalle aziende. Si tratta dunque un sistema efficiente? Una valutazione complessiva del suo impatto sulle performance economiche delle imprese, in particolare di quelle medio-piccole, e sulle opportunità di carriera dei lavoratori, è indispensabile. Soprattutto alla luce della richiesta di riduzione del costo del lavoro.
L’analisi comparata dei dati macroeconomici regionali mostra che l’andamento delle economie del Mezzogiorno e del Centro-Nord è stato negli ultimi anni meno differenziato che in passato. Il rallentamento della produttività è stato marcato al Centro-Nord come al Sud. E il boom dell’occupazione è stato presente in tutte e due le aree geografiche. Ciò segnala che i problemi e le opportunità riguardano l’economia italiana nel suo complesso. E forse se l’Italia tornerà a crescere finiremo per dare meno importanza alla persistenza del divario tra Centro-Nord e Sud.
L’esperienza della Nuova programmazione ha finora conseguito risultati deludenti in termini di crescita del Pil e dell’occupazione, nonché di riduzione dei divari infrastrutturali tra il Mezzogiorno e il resto del paese. Si tratta ora di accertare le cause di quel fallimento e di individuare, anche in vista della nuova legislatura e dellÂ’avvio di un nuovo ciclo di programmazione, le correzioni necessarie da apportare alla politica di sviluppo territoriale sia sotto il profilo procedurale che sotto quello sostanziale.
A pochi giorni dal primo anniversario della entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, il negoziato sui cambiamenti climatici fa un passo avanti e uno indietro. Il giudizio degli osservatori ricorda la storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Intanto, si moltiplicano gli allarmi e si considerano le possibili soluzioni. D’altra parte, non è facile trovare un’intesa sulle emissioni nocive. I costi di una loro riduzione sono vicini e certi, i benefici sono lontani e incerti. La spaccatura verte essenzialmente sul dilemma “vincoli sì-vincoli no”.
In Italia la regolamentazione consente di chiamare “sondaggi” anche indagini che utilizzano metodologie non fondate scientificamente o non sufficientemente documentate. Perché gli standard sono più blandi di quelli previsti per esempio negli Stati Uniti. Senza infrangere le regole si possono perciò ottenere risultati che tendano a rispondere alle “aspettative” dei committenti. La vittima principale della guerra dei sondaggi potrebbe però essere quello straordinario elemento della democrazia partecipativa che è l’informazione statistica.