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Categoria: Commenti e repliche Pagina 7 di 16

L’insostenibile leggerezza dell’università

Il ruolo dell’università

Senato più semplice? Una spiegazione semplicistica

Più che una semplificazione, una Babele

Nel loro articolo “Meno potere alle lobby con la riforma del Senato”, Giovanni Facchini e Cecilia Testa argomentano che la semplificazione del procedimento legislativo renderà le lobby meno efficaci nel perseguire i propri obiettivi a svantaggio dell’interesse pubblico, suggerendo così, nemmeno troppo velatamente, che la riforma costituzionale oggetto del referendum autunnale potrebbe portare in dono agli italiani un antidoto rispetto a fenomeni in senso ampio corruttivi.
L’articolo si fonda su un presupposto: che effettivamente il procedimento legislativo sarà più semplice perché più rapido, a differenza di quello attualmente in vigore, che sconterebbe invece il continuo rimpallo tra i due rami del Parlamento e dunque una più ampia possibilità di intervento per le lobby.
Tuttavia, il presupposto è altamente contestabile sia se guardiamo a quel che accadrebbe con la conferma della riforma, sia se consideriamo la storia della legislazione italiana fuori dalle vulgate di comodo.
La riforma prevede infatti una (irrazionale) moltiplicazione dei procedimenti legislativi.
Per oltre venti materie resta il bicameralismo perfetto, così com’è oggi. Si tratta di materie molto importanti: leggi costituzionali e di revisione costituzionale, leggi ordinarie elettorali, sui referendum, sulla partecipazione dell’Italia all’Ue, sulla ratifica dei trattati internazionali, sugli enti locali e altro ancora.
Per le altre materie, la legge viene votata dalla Camera e il Senato potrà solo proporre modifiche, su cui la Camera deciderà poi in via definitiva. Occorre, però, guardare alla materia su cui verterà la legge, perché in alcuni casi il Senato ha il dovere, in altri la facoltà di intervenire. In alcuni casi l’intervento deve avvenire entro 30 giorni, in altri entro 15, in altri ancora entro 10; in alcuni casi l’aula dovrà esprimersi a maggioranza assoluta, in altri a maggioranza semplice; in alcuni casi la Camera potrà non tener conto del parere del Senato a maggioranza assoluta, in altri a maggioranza semplice.
Vi è poi l’ipotesi in cui sia il Senato a segnalare alla Camera la necessità di approvare una legge, obbligandola a intervenire entro un dato termine. Le leggi elettorali potranno essere impugnate in via preventiva innanzi alla Corte costituzionale. Le leggi di conversione dei decreti legge seguiranno un ulteriore specifico iter. Ancora diverso e peculiare sarà quello per le leggi di iniziativa popolare. Le leggi dichiarate «urgenti» seguiranno tempistiche dimezzate.
Insomma, una Babele. E giova ricordare che nella nostra esperienza parlamentare le leggi non vertono quasi mai su una sola materia, ma su una pluralità: quale procedura seguire in tali casi? La nuova Costituzione prevede che decideranno i presidenti delle Camere di comune accordo. E se non si accordano? L’organo che si riterrà leso nelle proprie prerogative farà ricorso alla Corte costituzionale. Sarebbe questa la “semplificazione” del Senato?

Lentezze e rimpalli

Se poi andiamo a vedere i dati degli uffici parlamentari sull’attività legislativa, emerge ancor più nettamente l’insostenibilità della tesi sulla “lentezza” del Senato. Il “rimpallo” da una Camera all’altra (cosiddette navette) interessa il 20-25 per cento delle leggi approvate e per molte di queste l’intesa viene raggiunta alla terza votazione: molto spesso ciò serve a correggere errori non rilevati in sede di prima votazione. Ciò fa sì che per approvare la maggior parte delle leggi siano necessari in media 100-150 giorni, un tempo in linea con l’attività legislativa di Francia, Germania, Regno Unito e Spagna.
In sintesi, dunque, la lentezza del procedimento legislativo attuale è una tesi falsa e la rapidità di quello futuro può essere al massimo un auspicio, della cui realizzabilità è tuttavia lecito dubitare (e noi appunto ne dubitiamo). Ci pare importante ribadire questi punti quando vengono utilizzati come premesse del ragionamento: altrimenti si continueranno ad alimentare nell’opinione pubblica convinzioni che non hanno alcun fondamento nella realtà. Non certo un buon modo per decidere razionalmente il prossimo ottobre.

La risposta degli autori

La risposta degli autori a due articoli di commento (1 e 2).

Ringraziamo gli autori per i commenti. Ci teniamo a precisare che il dato che abbiamo citato nell’articolo su Lavoce.info fa riferimento ad uno studio epidemiologico pubblicato  dall’Università Tor Vergata. Nell’articolo abbiamo riportato il termine “malati” ma concordiamo sul fatto che il termine “infettati” sarebbe stato probabilmente più corretto.
Il nostro articolo non ha l’ambizione né di stimare l’efficacia del farmaco e neppure i differenziali di aspettative di vita tra trattati e non. Il riferimento alla fine dell’articolo ai farmaci innovativi che potrebbero contribuire a salvare vite umane o migliorare lo stato di salute dei pazienti rientra chiaramente nel dibattito più generale legato al trade-off tra protezione brevettuale e accesso ai farmaci innovativi.
Per quanto riguarda, infine, il terzo punto sollevato dagli autori, vogliamo ribadire che l’articolo evidenzia le problematiche relative all’accesso al farmaco dovute agli elevati costi della terapia. Tali costi impongono evidentemente delle liste d’attesa. Sulla possibilità che l’attesa possa essere o meno giustificata o auspicabile (in alcuni casi)  non ci siamo espressi poiché una valutazione di questo genere non è di nostra competenza.

Cinzia Di Novi e Vincenzo Carrieri

Epatite C: perché no a screening di massa*

Prevenire il cancro epatico

In un precedente commento si è parlato di fattori di rischio per Hcv e progressione delle complicanze, poco noti alla popolazione e trascurati dai sanitari. Completiamo l’informazione su fattori protettivi e screening.

Frazione di cancro epatico prevenibile nella popolazione associata a fattori protettivi

Caffè: circa -34 per cento, se tutti ne bevessero come il gruppo che gli studi classificano come maggior bevitore (e l’effetto-dose è stato stimato a circa -25 per cento per tazza). La protezione vale anche per altre epatopatie in vari stadi di gravità, secondo una revisione sistematica e metanalisi

– Fibra alimentare: -31 per cento se tutti ne consumassero come il quarto di popolazione che ne consuma di più, con -30 per cento di rischio per ogni 10 grammi di fibra al dì consumati

– Pesce: -24 per cento se tutti ne consumassero come il quarto di popolazione che ne consuma di più. Ogni 20 g/die in più di pesce si associano a -20 per cento del rischio di cancro epatico; un -14 per cento si osserva anche con la sostituzione di 20 g di pesce a 20 g di carne al dì. I risultati sono simili anche negli infetti con Hbv o Hcv

– Attività fisica: -19/-27 per cento (revisione).

Anche in questo caso potremmo proseguire a lungo, ma ci fermiamo, perché la somma già supera il 100 per cento. Ciò ovviamente non significa che l’adozione di questi comportamenti protettivi e l’evitare quelli a rischio azzeri le possibilità evolutive in tutti gli infetti da Hcv, ma certo queste si riducono in maniera sostanziale.

Purché la sanità investa per informarne la popolazione e dare il necessario supporto per applicare queste misure, a partire da malati e infetti.

Screening dei soggetti asintomatici?

La proposta è corollario della “offerta dei nuovi farmaci a tutti gli infetti” con “obiettivo eradicazione”. Restiamo ai fatti per l’Italia:

con le risorse attuali il Ssn ha assicurato le cure a 49mila pazienti, cioè circa 40mila pazienti/anno, e potrebbe in circa 4 anni trattare tutti i 160-180mila casi stimati da EpaC (tra cui si concentrano i casi gravi);

uno screening di popolazione potrebbe far emergere la parte sommersa dell’iceberg, secondo EpaC circa 10 volte più numerosa, di soggetti in prevalenza asintomatici, molti destinati però a restare tali nel resto della vita;

una volta consapevoli di essere portatori di Hcv e allarmati da informazioni non bilanciate sulla storia naturale dell’infezione e sul peso relativo di comportamenti protettivi o dannosi, molti pretenderebbero l’accesso ai “nuovi farmaci”, aggiungendo la loro pressione a quella dei pazienti noti, e non è chiaro come il Ssn potrebbe oggi farvi fronte. Se lo facesse nei confronti di questi nuovi casi (ai prezzi attuali dei farmaci) stornerebbe ingenti risorse finanziarie da altri programmi, di verosimile maggior rendimento in salute. Se non lo facesse, crescerebbero tensioni e disaffezione per un sistema sanitario nazionale che a parole tutti dicono di voler difendere…

C’è anche la possibilità teorica di imporre ai produttori prezzi di rimborso molto inferiori; ma ammesso che i governi siano in grado di farlo, l’ordine logico dovrebbe essere: prima si ottengono prezzi sostenibili, poi si considera lo screening, non viceversa;

per non parlare dei rischi (piccoli o grandi) cui si esporrebbero molti portatori senza certezza di avere davvero bisogno di tali farmaci.

I principi da considerare

Fatta salva la garanzia dei nuovi farmaci (ma anche di informazione/prescrizione e supporto competente all’attuazione dei comportamenti protettivi) per tutti i casi già inclusi nei criteri di priorità, non ci sembra irrazionale non affrettare le cure per chi non è in condizione evolutiva verso F3, specie se asintomatico (con alcune ragionevoli eccezioni), in base:

al principio di precauzione, finché non sia chiaro anche per loro dove si situa il miglior bilanciamento rischi/benefici attesi;

al principio di solidarietà verso tanti altri assistiti, oggi privi di cure efficaci e possibili per altri problemi, perché le risorse che la società ha assegnato al Ssn non lo consentono (un esempio tra cento, che interessa anche tanti infetti da Hcv, è il fumo, oggi responsabile del 25 per cento  circa dei cancri epatici, oltre che di tante malattie con nesso causale certo: 12 tipi di cancro, 6 categorie di malattie cardiovascolari, diabete, Bpco, polmonite, influenza; e inoltre associato a eccesso di mortalità da insufficienza renale, malattia cardiaca ipertensiva, infezioni, cancro prostatico e mammario. Smettere di fumare ha effetti sulla mortalità totale maggiori di quelli da complicanze dell’Hcv, anche nell’insieme dei soggetti cronicamente infetti e fumatori. Ma chi voglia intraprendere un percorso di cessazione (un’indagine Doxa conferma che molti lo vorrebbero) spesso non può contare su supporti competenti di facile accesso, e deve pagarsi farmaci di provata efficacia: Tsn, vareniclina, bupropione);

al principio di tutela della sostenibilità del nostro Ssn che, da quando è stato istituito, corre oggi i rischi più gravi di deriva privatistico-assicurativa, poiché potenti forze economiche fanno credere che risolverebbe l’accesso a prestazioni oggi razionate in tanti campi.

Siamo infine convinti che il punto di vista di generalisti di sanità pubblica possa ampliare l’orizzonte di specialisti delle discipline implicate e pazienti, in genere molto focalizzati sul loro specifico ambito disciplinare e sui comprensibili timori per la loro specifica condizione. Anche esperti di economia pubblica dovrebbero tenerne conto.

* L’articolo è firmato anche da Alberto Aronica, Franco Berrino, Antonio Bonaldi, Vittorio Caimi, Gianfranco Domenighetti, Giuseppe Fattori, Paolo Longoni, Giulio Mariani, Luca Mascitelli, Ernesto Mola, Alessandro Nobili, Alberto Nova, Gianfranco Porcile, Luisa Ronchi.

 

Epatite C: nuovi farmaci a tutti? Ragioniamo in base ai dati*

L’articolo “Epatite C: se il farmaco costa troppo per essere utilizzato” lamenta il costo esagerato dei nuovi farmaci anti Hcv, ma alcune affermazioni vanno discusse (Per una più ampia disamina dell’argomento e riferimenti bibliografici si vedano: http://bit.ly/1TVvdxM; http://bit.ly/1VMhRse; http://bit.ly/1Uf4j7C; http://bit.ly/1Xagogr).

1) Il costo impedisce di somministrare i nuovi farmaci al milione di malati?

I malati di epatite da Hcv o complicanze, cioè pazienti con sintomi che stanno compromettendo salute e qualità di vita, in Italia non sono un milione. Quelli citati da una ricerca di EpaC sono 160-180mila.
Altro è parlare di infettati da Hcv: sul sito di EpaC se ne stimano due milioni e qualcuno dice circa il 3 per cento degli italiani. Ma la maggior parte di loro ignora di essere infettata da Hcv e molti vivranno normalmente e moriranno di vecchiaia senza mai saperlo.
Una ricerca di coorte con lungo follow-up mostra che pazienti con cirrosi compensata che hanno ottenuto risposta virologica sostenuta/Svr con regimi a base di interferone (per i quali anche studi clinici randomizzati hanno già dimostrato efficacia su esiti finali di salute) hanno speranza di vita sovrapponibile alla popolazione generale. Questi pazienti hanno già oggi accesso ai nuovi farmaci (Aifa: criterio 1), come pure chi non ha cirrosi ma epatite cronica e fibrosi F3: per questi l’accesso ai nuovi farmaci non è in discussione.
Si considerano già eleggibili anche sottogruppi di pazienti F2 a maggior rischio personale o di trasmissione, e si valutano prossimi ampliamenti.

2) Si negano farmaci salvavita?

No, sia

  • per quanto richiamato al punto 1): a oggi non sembra che pazienti con F3 o anche cirrosi compensata che ottengono un’Svr abbiano aspettativa di vita ridotta;
  • perché non vi è ancora prova che, per soggetti stabili e asintomatici, 8-12 settimane di farmaci innovativi comportino vantaggi netti a lungo termine. La prova manca a maggior ragione per asintomatici che scoprirebbero l’infezione solo a seguito di screening.

Simili scoperte possono dare contraccolpi psicologici, oltre a stigma/discriminazione, in parte anche per l’equivoco che l’infettato sia infettante. Per fortuna non è così, a meno che non scambi strumenti taglienti/sangue; o, nel 2-8 per cento dei casi, da madre a figlio in gravidanza (più spesso in coinfezioni con Hiv).
La trasmissione sessuale tra partner eterosessuali che si dichiarano monogami è rarissima (su 500 coppie con media di 15 anni/cadauno di rapporti sessuali, solo tre casi certi di trasmissione: 1 su 190mila rapporti sessuali). La trasmissione è maggiore in rapporti omosessuali tra maschi (benché assai minore rispetto ad altre infezioni a trasmissione sessuale), ma in questo caso il 25 per cento di maschi Hiv+ con Svr da Hcv si reinfetta con Hcv entro 2 anni se continuano i comportamenti a rischio: ciò richiede di trattarli anche per evitare circolazione dell’Hcv, e insieme forti investimenti educativi per l’adozione di pratiche sessuali sicure.
Anche sulla sicurezza a lungo termine delle nuove terapie va espressa cautela. Per farmaci antivirali preoccupa una ricerca in Hong Kong su 45.300 pazienti con epatite B cronica. Rispetto ai non trattati pesati con propensity score, nei trattati con lamivudina ed entecavir, per alcuni tenofovir, l’insieme di tutti i cancri non si è ridotto (aHR 1,01). In particolare il cancro al fegato ha teso a diminuire, l’insieme degli altri ha teso ad aumentare (aHR 1,17), e i cancri colorettali (aHR 2,17) e cervicali (aHR 4,41) sono aumentati in modo significativo. Preoccupa ancor più che la mortalità totale sia stata 5,1 per cento tra i trattati e 3,3 per cento tra i non trattati, con un RR di 1,55, altamente significativo, e un morto in eccesso ogni 55 trattati. Certo, i virus B sono diversi, le probabilità di eradicare l’Hcv dal sangue con terapie di 12 settimane (presto di 8) sono molto buone, non così per l’Hbv. Ma i rischi dei trattamenti (compresi rischi a lungo termine, spesso ignoti) sono meno giustificati se estesi a pazienti in condizioni via via meno serie, in cui il bilancio rischi-benefici attesi e costi-opportunità va ponderato con molta attenzione.

3) Uniche alternative attendere un peggioramento o pagare in proprio?

È un messaggio sbagliato, disinformazione da contrastare. Fa l’interesse degli oligopoli farmaceutici e ne rafforza il potere contrattuale, creando fortissime pressioni sui decisori per distorcere valutazioni più razionali di costo-opportunità. E crea una massa di persone allarmate o disperate (non stiamo parlando di F3 o F4, ma di tanti con epatopatie lievi o semplici infettati in condizione non evolutiva), polarizzate su uno solo degli strumenti disponibili, che scaricano la frustrazione con grave disaffezione verso il sistema sanitario nazionale, a favore di sbocchi assicurativi, presentati come (illusorie) soluzioni.
Per la drammatica ma non frequente complicanza del cancro epatico, è grave errore pensare che “poiché il 60 per cento dei morti per tumori al fegato è Hcv-associato, l’Hcv causa ogni anno più di 6mila cancri al fegato in Italia”.

Frazione di cancri epatici attribuibile a livello di popolazione a diversi fattori di rischio

Ecco le associazioni riscontrate in letteratura, molte riferite alla ricerca prospettica Epic, su circa 500mila europei, che include coorti italiane:

Fumo di sigaretta: 25 per cento

– Diabete e obesità: 19-23 per cento. Per la sua diffusione, negli Usa il diabete sarebbe ormai la prima causa in assoluto di cancro epatico. Una revisione sistematica e metanalisi segnala anche il probabile rischio da insulina e protezione da metformina

– Alcol: 33 per cento negli uomini, 18 per cento nelle donne

– Carico totale di zuccheri: circa 33 per cento

– Alto consumo di latte e formaggi: circa 25 per cento (forse per aflatossine, o per effetti sull’IGF-I)

– Alto consumo di carne rossa: circa 10 per cento (aumento non significativo, ma indirettamente legato a fattori di rischio per cancro epatico come aumento di peso e diabete: revisione delle metanalisi pubblicate).

Potremmo proseguire, ma ci fermiamo perché la somma è già sopra al 130 per cento, senza aver ancora computato il contributo di Hbv e Hcv. Certo anche l’Hcv ha un ruolo importante, ma non indipendente da altri fattori di rischio, né per fortuna da importanti fattori protettivi. Di questi e dello screening diremo in un altro articolo.

* L’articolo è firmato anche da Alberto Aronica, Franco Berrino, Antonio Bonaldi, Vittorio Caimi, Gianfranco Domenighetti, Giuseppe Fattori, Paolo Longoni, Giulio Mariani, Luca Mascitelli, Ernesto Mola, Alessandro Nobili, Alberto Nova, Gianfranco Porcile, Luisa Ronchi.

Ma piccolo può essere ancora bello

Quando l’addetto è solo uno

Perché questo Ttip non mi piace

Tre tesi controverse

Ma il Ttip non è un Moloch

Grazie a tutti i lettori che ci hanno inviato le loro osservazioni al nostro articolo. Dai commenti si capisce quanto sia radicata in tanti la visione del Ttip come un Moloch che incombe sopra tutti noi. È proprio per andare contro questa convinzione che abbiamo scritto il nostro pezzo. Noi crediamo nelle opportunità di estendere l’integrazione economica (ma non solo) tra simili come Usa e Ue. L’economia e l’esperienza storica suggeriscono che l’integrazione tra paesi simili generi meno costi sociali rispetto all’integrazione con paesi diversi.
Detto questo, non acquistiamo a scatola chiusa tutti i contenuti del futuro Ttip, ma siamo interessati a discutere, a capire e a esplorare con chi vorrà farlo i contenuti di un accordo che estenda la collaborazione tra i due lati dell’Atlantico a cui sono legate le possibilità di crescita dell’Occidente.
Molti lettori chiedono chiarimenti sul meccanismo Isds, il meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitore straniero e stato ospite contenuto nella maggior parte degli accordi commerciali e che forse sarà contenuto anche in questo. Tale meccanismo è lontano dall’essere perfetto, ma ha permesso la promozione di un diritto internazionale degli investimenti globalmente riconosciuto. Ancora non si sa se la clausola Isds sarà effettivamente inserita nel testo, quello che si sa è che la Commissione europea ha proposto un meccanismo diverso per la risoluzione delle controversie, che si presti a un maggior controllo democratico di ambo le parti e che sia meno soggetto a eventuali abusi. È una questione spinosa ancora tutta da negoziare. Siamo lieti di confrontarci con le opinioni di chi volesse trattare in modo comprensibile a tutti un tema così tecnico sul nostro sito per fare luce su un argomento tanto discusso quanto incompreso. Perché è proprio a causa dell’incomprensione e dell’equivoco che questo accordo è largamente impopolare nell’opinione pubblica.
Non condividiamo l’opinione di chi vede complotti multinazionali dietro ogni angolo. Le multinazionali esistono a prescindere dal Ttip. Così come a prescindere dal Ttip esiste la contraffazione e l’Italian sounding che sottraggono miliardi di fatturato alle aziende italiane. Questi problemi vanno però ben al di là del Ttip e non è rifiutando il Ttip che ci si potrà chiudere dentro la fortezza dell’Europa per difendere il Made in Italy. Il quale Made in Italy per sopravvivere e prosperare ha bisogno di qualità, d’innovazione, di apertura e non di chiusura. Ha bisogno di abbattere i muri e non di alzare i muri, per beni e servizi come per le persone.

Garanzia giovani, solo uno su mille ce la fa

 

Non voglio certo passare per un “manicheo”, tuttavia è difficile non constatare il fallimento della più importante misura di politica del lavoro a favore dei giovani degli ultimi decenni.

Fondazioni bancarie troppo spesso “infallibili” sulle questioni sociali

Il dibattito che non c’è stato

A Tiziano Vecchiato [Nella lotta alla povertà un ruolo per le fondazioni bancarie] va riconosciuto il merito di avere attirato l’attenzione sulle fondazioni di origine bancaria al di fuori di questioni di nomine e di partecipazioni azionarie nelle banche. Sull’(in)opportunità di nomine e partecipazioni si è discusso ampiamente e ritornarvi toglierebbe solo spazio al tentativo di avviare un dibattito su una diversa questione: sulla base di cosa, attivando quali meccanismi e giudicando quali esiti, le fondazioni decidono di spendere le risorse loro affidate.
Il problema sociale sollevato da Vecchiato riguarda la possibilità di “attivare” gli adulti abili al lavoro e beneficiari di un futuro reddito minimo; ci troviamo in accordo con il fatto che questo sia un elemento essenziale nel disegno di una misura universale di contrasto alla povertà. Siamo meno d’accordo con l’altra tesi avanzata da Vecchiato, ossia che le fondazioni di origine bancaria siano adatte e pronte per un ruolo di leadership nell’innovazione sociale.
La questione di cosa le fondazioni fanno non è stata finora oggetto di grandi dibattiti pubblici, ma la situazione potrebbe cambiare rapidamente. Potrebbero trovarsi presto a svolgere anche ruoli molto delicati – una sorta di Wolf Foundation – per provare soluzioni nuove ad alcuni dei più difficili da risolvere problemi sociali. Ad esempio, il recupero educativo dei minori inseriti nel circuito penale (per i quali la legge di stabilità 2016 prevede iniziative finanziate da un fondo alimentato dalle fondazioni). Oppure l’attivazione al lavoro degli adulti beneficiari di reddito minimo, un’idea abbracciata con entusiasmo da Vecchiato quando afferma che “(…) dove altri non sono riusciti, possono farcela le fondazioni di origine bancaria, perché in questi anni si sono misurate con l’innovazione, mettendo in relazione gli investimenti con i risultati, impegnandosi a valutare gli esiti e l’impatto sociale”.
Pur avendo stima per molto del lavoro svolto dalle fondazioni bancarie negli anni, temiamo che questo tipo di investitura in bianco, in un paese sempre alla ricerca di un qualche deus-ex-machina, possa trasformarsi in un boomerang. Soprattutto se si tiene presente che spesso si trascura un’importante considerazione sull’idoneità delle erogazioni delle fondazioni a incidere sui problemi sociali: un tipo particolare di avversione al rischio, che nel caso delle Fob si manifesta come ritrosia ad ammettere di aver finanziato progetti che si sono rivelati un insuccesso. Nei bilanci sociali o di missione delle fondazioni è difficile, se non impossibile, trovare riferimenti a “programmi che non hanno funzionato”, a “soluzioni promettenti poi rivelatesi inefficaci”. Sembra quasi che le fondazioni siano infallibili.
Peraltro, una forte avversione al rischio pare esistere nelle organizzazioni filantropiche un po’ dovunque, se dobbiamo credere alla netta presa di posizione di un gruppo internazionale di esperti riuniti nel 2011 dalla Rockfeller Foundation per discutere di Risk and Philanthropy. Dalle conclusioni del rapporto apprendiamo che: “I partecipanti all’incontro hanno insistito sul fatto che, per innovare, le organizzazioni filantropiche devono imparare ad accettare l’insuccesso e riconoscere che per ottenere un cambiamento su larga scala una parte delle risorse vadano sprecate. L’occasionale insuccesso deve essere considerato un costo ammissibile dell’innovazione”.
Il problema dell’avversione ad ammettere l’insuccesso è grave: è diffuso, trasversale a ogni tentativo di innovazione, sia scientifica sia sociale, e finisce per distorcere i comportamenti degli attori coinvolti. Gli uni pubblicano solo gli studi riguardanti interventi per i quali si hanno risultati positivi; gli altri spendono le risorse sui soggetti che danno maggiori garanzie di adottare un certo comportamento, anche al prezzo di mirare l’intervento dove c’è meno bisogno.

Il dibattito che dovrebbe esserci

Detto più semplicemente, non ci si può aspettare che le fondazioni sacrifichino tanto volentieri l’abitudine a fare sempre bella figura, in cambio di una sequela di probabili insuccessi. Riteniamo sia urgente un serio dibattito su se e come organizzazioni private con una forte vocazione pubblica, e con un ormai consolidato modus operandi, possano dare risposte rapide ed efficaci ai più difficili problemi sociali del paese. Se questo dibattito si avviasse, le fondazioni potrebbero anche tentare di perdere l’abitudine di documentare solamente quanto spendono per un certo problema o quanti sono i beneficiari, e provare invece a stimare per quanti beneficiari l’erogazione ha fatto la differenza e quanto è costata. Almeno provarci.

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