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L’avanzo commerciale della Germania non è verso l’Eurozona

La bilancia commerciale tedesca ha segnato un nuovo record positivo nel 2016 toccando quota 253 miliardi di euro e posizionando il paese in cima alla classifica degli esportatori netti.
L’avanzo della Germania viene usato da alcuni governi ed esponenti politici dell’Eurozona come argomento per ribattere ai presunti diktat tedeschi riguardanti le finanze pubbliche. C’è chi ha squilibri di finanza pubblica e chi ha squilibri nei conti con l’estero, si dice.
A ben vedere, però, l’Eurozona rappresenta solamente il 5 per cento dell’intero surplus tedesco: 13 miliardi, un’inezia sia in valore assoluto sia rispetto ai 63 miliardi di euro di avanzo verso i paesi europei fuori dalla moneta unica e ai 178 miliardi di avanzo nei confronti del resto del mondo.
Come si può osservare nel grafico sottostante, il surplus tedesco non ha smesso di crescere dall’indomani dello scoppio della crisi. Tuttavia, la quasi totalità della crescita è imputabile a paesi terzi, mentre Eurozona e Ue hanno assorbito in parte la loro posizione negativa tra il 2008 e il 2014.

Fonte: Eurostat, [ext_st_28msbec]

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Il Punto

Le 60 pagine della sentenza della Consulta sull’Italicum disegnano una legge elettorale coerente con la Costituzione e immediatamente applicabile. Ma non vietano un nuovo intervento del Parlamento, troppo esposto ai veti incrociati di chi guarda solo al proprio orticello. Ci aspetta un futuro di grandi coalizioni, i “caminetti” che Matteo Renzi ha contestato alla direzione nazionale del Pd. Intanto il 2016 finisce con un Pil che va meglio del previsto.
Iniziamo in anticipo a festeggiare, a modo nostro, i 60 anni di una Ue in piena crisi di popolarità. Pesano la Brexit e il rischio di una guerra economica transatlantica. Ma anche l’eccesso di regole comunitarie e i balbettii europei su migrazione, sicurezza e difesa. Per il futuro si ragiona su un’Europa a più velocità che preservi almeno un’unione a cerchi concentrici per chi ci sta. E che consenta l’attuazione – paese per paese – delle riforme più adatte a far ripartire la crescita. L’Europa può ritrovare la sua identità e continuare a educare i suoi cittadini alla diversità sociale e culturale se fa tesoro di successi come il progetto Erasmus, che nel 2015 ha fatto viaggiare quasi 680 mila studenti.
Nel frattempo, dall’altra parte dell’Atlantico, Donald Trump smonta i risultati di Obama a colpi di ordini esecutivi. Tra cui quello che vuole far ripartire la costruzione dell’oleodotto Keystone XL che collegherebbe il Canada al Messico. Con alti rischi ambientali e dubbi vantaggi economici.
Sullo sfondo degli eventi politici di questi mesi c’è il persistere delle disuguaglianze tra ricchi e poveri. Che, rivelano nuovi studi, dal 1300 a oggi non hanno smesso di crescere. Con qualche eccezione: dopo la Peste nera del 1348 e tra le due Guerre mondiali. Cerchiamo di combatterle con strumenti meno cruenti!

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La ripresa si consolida all’1 per cento

pil giusto

L’Istat comunica che anche nel quarto trimestre 2016 è proseguita la crescita del prodotto interno lordo italiano. L’anno si è chiuso con un +0,2 per cento rispetto al terzo trimestre 2016 e un +1,1 per cento rispetto al quarto trimestre del 2015.
Sono numeri che rivelano una crescita finalmente in consolidamento verso l’uno per cento, seppure ancora inferiore a quanto si osserva nell’eurozona (il cui prodotto interno lordo nel quarto trimestre 2016 è salito dello 0,5 per cento sul trimestre precedente e dell’ 1,8 per cento rispetto a un anno prima). Guardando indietro nel tempo, il Pil (al netto dell’inflazione) ha toccato un punto di massimo nel primo trimestre 2008 (pari a 100 nel nostro grafico). Dopo le due recessioni del 2008-09 e del 2011-12, il Pil dell’Italia ha toccato il minimo nella prima metà del 2013 (-9,4 per cento in meno rispetto al primo trimestre 2008). La – graduale – ripresa vera e propria è cominciata nel primo trimestre 2015. Ad oggi, dopo otto trimestri di ripresa, mancano ancora 7,5 punti percentuali rispetto ai massimi di inizio 2008.

Senza le riforme non si esce dalla crisi

“I sette luoghi comuni sull’economia” esaminati nel libro di Andrea Boitani (Editori Laterza) sono presentati come assiomi e ripetuti come mantra. Sono nelle parole dei politici, dei giornalisti, degli economisti. Ma sono (spesso) sbagliati o (in parte) fuorvianti. Un estratto dal sesto capitolo.

Il Punto

Mentre lo spread torna a 200 punti, il ministro Padoan si compiace del record di 19 miliardi di euro recuperati dal contrasto all’evasione fiscale nel 2016. È il risultato della voluntary disclosure, evento eccezionale per le casse dello stato e schiaffo per i cittadini in regola. Per il futuro meglio potenziare gli strumenti tradizionali di accertamento dell’Agenzia delle entrate. Con la legge di bilancio 2017 si è anche riaperta l’idea di sforbiciare la giungla di detrazioni e deduzioni chiamate “spese fiscali”. Un gruppo di tecnici scriverà una relazione. Ma, forse per non disturbare il manovratore, solo dopo che il governo avrà presentato i suoi programmi nel Documento di economia e finanza.
Un’altra novità di quest’anno è l’estensione del congedo di paternità. Due giorni pienamente retribuiti nel 2017 e quattro nel 2018 (media Ocse: 8 settimane). Rimane uno strumento importante per promuovere la cultura della condivisione nella cura dei figli. E per ridurre la disuguaglianza.
Va bene sancire per legge il diritto all’educazione come servizio pubblico nazionale come ha fatto un recente decreto legislativo sui nidi e le scuole per l’infanzia. Ma bisogna anche fissare criteri per la ripartizione delle (scarse) risorse predisposte. Tenendo in conto le disparità di copertura e le dinamiche demografiche.
Ogni volta che Draghi menziona l’irreversibilità dell’euro, si torna a discutere di un eventuale ritorno alla lira. Esistono però le clausole di azione collettiva, che potrebbero complicare parecchio la riconversione del debito pubblico in una neo-valuta nazionale. Anche se, in caso di uscita dall’euro, i cavilli legali sarebbero l’ultimo dei problemi.

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Perché lo spread è tornato a salire

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Si torna a parlare di spread. I tassi dei titoli di stato di Italia, Spagna e Francia aumentano rispetto a quelli della Germania – che anzi si riducono – in un clima politico che si fa sempre più rovente con l’avvicinarsi di importanti appuntamenti elettorali. In particolare, le dichiarazioni di Marine Le Pen in occasione dell’apertura della sua corsa alla presidenza hanno dato uno scossone ai mercati dei titoli sovrani. Che non sembrano aver particolarmente apprezzato le ipotesi di uscita della Francia dall’Unione Europea – e quindi dall’euro – e dalla Nato prospettate dalla candidata del Front National. Lo spread francese è sostanzialmente raddoppiato rispetto ai valori registrati nello scorso autunno.
E l’Italia paga il fatto di essere considerato l’anello debole. Il differenziale Btp-Bund ha toccato la quota dei 200 punti base, livello che non si registrava da circa tre anni. Rimaniamo osservati speciali, dunque, in un contesto che si conferma di incertezza per i conti pubblici, oggetto di continue trattative tra il governo e la Commissione europea.
Anche la Spagna ha accusato un rialzo dei tassi nelle ultime settimane, praticamente parallelo a quello italiano. Il paese, però, non sembrerebbe essere su un trend negativo, forse aiutato dai dati sulla crescita economica sopra la media europea. Si noti che è da metà giugno – ossia dal mese della Brexit e delle elezioni in Spagna – che lo spread italiano è più elevato di quello spagnolo.
In conclusione, i mercati scontano un clima di incertezza politica non indifferente, che spinge gli operatori a rifugiarsi in posizioni più sicure, come i Bund tedeschi, e ad alleggerirsi di attività più rischiose. Il risultato è il ritorno dello spread in salita.

Il Punto

Mancano tre mesi alle elezioni presidenziali in Francia. A sinistra due candidati poco testati come Benoît Hamon, un Bernie Sanders transalpino, e l’ex ministro Emmanuel Macron, in ascesa nei sondaggi. A destra declina la stella dell’ex favorito François Fillon. Mentre Marine Le Pen promette devastanti cose concrete, come l’uscita dall’euro e dall’Europa. Nel frattempo, la Ue e l’Italia puntano a un accordo con la Libia per arginare l’arrivo di rifugiati. Cioè si nega il diritto all’accoglienza per l’impossibilità politica di ottenere maggiore equità nella divisione dei profughi. Di questo si deve parlare nel discutere di Europa a più velocità con la signora Merkel.
Nebbia fitta sulle modalità con cui il ministro Padoan intende formulare la manovra correttiva richiesta da Bruxelles. Le misure anti-evasione sembrano il terreno ideale per trovare un compromesso con la Commissione. Ma le misure a cui si pensa potrebbero non essere praticabili o opportune.
Secondo l’antitrust l’Automobile Club è uno strano pezzo di pubblica amministrazione. Per “soli” 248 milioni di euro accerta la proprietà dei veicoli tramite il Pra (Pubblico registro degli autoveicoli), regolando l’accesso al suo archivio. Mentre lascia che il ministero delle Infrastrutture autorizzi la loro circolazione. Un servizio da razionalizzare. Entro il 28 febbraio, se no scade la delega al governo.
Al via la sperimentazione dell’Assegno di ricollocazione (Adr) su un campione di 30 mila disoccupati. Può essere utilizzato, con lo scopo di trovare lavoro, presso un centro per l’impiego o un soggetto accreditato. Questi enti monetizzeranno l’assegno in base al risultato raggiunto. Con regole anti-furbetti.

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Il Punto

Il ministro Poletti difende la sostenibilità delle nuove misure sulle pensioni. Che non convincono, però, l’Inps, preoccupato dalla creazione di “debito implicito”: provvedimenti come questi, con costi limitati nel breve termine, possono domani far aumentare fortemente gli oneri sulle generazioni future.
Dai dati sul lavoro di dicembre 2016 si vede che il Jobs act – con 242 mila nuovi posti di lavoro rispetto ai 12 mesi precedenti (+1 per cento) – ha in effetti creato occupazione. Ma tutta la crescita ha riguardato gli over 50 e non i giovani che delle nuove opportunità avrebbero dovuto beneficiare in modo particolare.
In attesa del 7 febbraio, prima giornata contro il bullismo, ricordiamo che in quinta elementare 4 ragazzi su 5 lamentano di esserne bersaglio proprio a scuola. Il fenomeno è in crescita, più diffuso tra maschi e tra studenti provenienti da un contesto sociale debole, specie se d’immigrazione. Il decreto sui nidi, i “servizi educativi integrati alla scuola per l’infanzia”, riconosce l’importanza di iniziare al più presto il percorso educativo. Ma i 229 milioni annui stanziati sono una goccia nel mare dei bisogni territoriali. C’è chi non è abbastanza povero per godere di accesso gratuito e non abbastanza ricco per pagarlo a cuor leggero.
Per combattere il riciclaggio di denaro e l’evasione fiscale, il Nobel Joseph Stiglitz e l’esperto di anti-corruzione Mark Pieth hanno stilato una serie di suggerimenti per le autorità di tutti i paesi. Dalla lotta ai prestanome alla protezione dei “whistle-blower”, dallo scambio di dati fiscali ai limiti sull’uso di contante.

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Il peso della disoccupazione sul voto

Confronto tra 2016 e 2013

È opinione comune che il “no” al referendum costituzionale sia stato non tanto un voto sul merito della riforma costituzionale quanto un voto contro il governo in carica. Ciò che non viene sottolineato è che i motivi della protesta – elevata disoccupazione, paura dell’immigrazione, alto livello della tassazione – avevano già influito sui risultati elettorali delle politiche del 2013, che l’esito del referendum ha sostanzialmente confermato. Il grafico 1 evidenzia, a livello di regioni, la relazione fra la percentuale di voti per il “no” nel 2016 e la percentuale di voti presi nelle elezioni politiche del 2013 dalle forze che nel 2016 erano per il “no”.
Il “no” ha ottenuto meno consensi di quelli presi nel 2013 dai partiti che lo sostenevano nel Nord-Ovest (Piemonte, Liguria, Lombardia), in Emilia Romagna e nelle regioni dell’Italia centrale, con l’eccezione del Lazio. Tuttavia, solo in Emilia e Romagna e Toscana ha prevalso il “sì”. Invece nel Nord-Est il “no” ha ricevuto più voti di quelli presi nel 2013 dai partiti a suo favore. Il Mezzogiorno ha un andamento analogo a quello del Nord-Est. Il “no” ha avuto una percentuale di voti maggiore rispetto alla quella registrata nel 2013 dalle forze che lo sostenevano. Le uniche eccezioni sono gli Abruzzi e il Molise.
La difformità di voto tra 2016 e 2013 può essere stata determinata dalla variazione del tasso di disoccupazione (tabella 1). Infatti, la gran parte delle regioni dove il “no” ha preso meno voti di quelli conseguiti nel 2013 dai partiti che lo sostenevano hanno registrato un miglioramento del dato (tabella 1). Il contrario è avvenuto nelle regioni, come quelle meridionali, che hanno visto un peggioramento del tasso di disoccupazione.

Elettorato stabile

L’esito del voto referendario evidenzia una notevole stabilità dell’elettorato, anche se all’interno di ciascun partito vi sono state defezioni rispetto alla posizione ufficiale. Secondo il sondaggio di Demos apparso su La Repubblica del 22 dicembre 2016, l’84 per cento degli elettori del Pd, se si dovesse rivotare per il referendum, confermerebbe il “sì”; l’83 per cento di quelli del Movimento 5 Stelle confermerebbe il “no”, così come il 73 per cento di chi vota Lega Nord e il 68 per cento di chi sceglie Forza Italia. In base allo stesso sondaggio, le forze politiche a favore del “sì” avrebbero il 34,7 per cento dei voti e quelle per il “no” il 65,3 per cento.
Ora, tenendo conto dei voti dei partiti e di quanti in ciascun partito si sono espressi per il “no”, il “sì” avrebbe dovuto prendere l’8,25 per cento in più del voto a favore delle forze per il “sì” nel 2013, e cioè il 42,95 per cento, mentre il “no” avrebbe dovuto prendere il 57,05 per cento. I risultati effettivi – 40,89 per cento al “sì” e 59,11 per cento al “no” – sono del tutto coerenti con questi dati e mostrano che la sconfitta del “sì” è stata meno drammatica di quanto si sia detto. In ogni caso, era prevedibile in base ai risultati delle politiche del 2013.
Il disagio sociale, che in qualche modo è approssimato dal tasso di disoccupazione, era già stato allora l’elemento cruciale che aveva determinato l’esplosione di voti per il M5S e l’affermazione del tripolarismo. Il governo Renzi, utilizzando la strategia di un mix di riforme e di stile personalistico del presidente del Consiglio, ha tentato di contrastare questa tendenza. Il risultato delle Europee, con un forte ridimensionamento del M5S ha illuso Renzi e, se da un lato lo ha incoraggiato sulla via delle riforme, dall’altro lo ha spinto a ricercare un successo popolare personale con il referendum costituzionale. L’obiettivo è fallito perché, nonostante un lieve miglioramento nella situazione sociale, non si sono realizzate le aspettative create dal governo Renzi. Giacché è presumibile che le modifiche nei tassi di disoccupazione saranno minime nel breve termine, appare difficile che nelle prossime elezioni si registrino grandi cambiamenti nei rapporti di forza fra i vari schieramenti politici.

Tabella 1

Fonte: Elaborazioni Istituto Cattaneo su dati del ministero degli Interni per i dati elettorali; Istat per i tassi disoccupazione

Fonte: Elaborazioni Istituto Cattaneo su dati del ministero degli Interni per i dati elettorali; Istat per i tassi disoccupazione

Grafico 1

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I numeri del carovita

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Più soldi e meno potere d’acquisto a Natale. Nell’ultimo mese del 2016 le retribuzioni contrattuali sono cresciute meno dei prezzi: +0,4 per cento la crescita degli stipendi contro un +0,5 dei prezzi, rispetto a dicembre 2015. I lavoratori italiani hanno quindi guadagnato di più rispetto all’anno prima, ma hanno potuto acquistare meno beni. Per ora si tratta di una piccola differenza, ma si tratta di un avvenimento che non si verificava da 43 mesi.
Da marzo 2013 il potere d’acquisto degli stipendi era sempre aumentato rispetto all’anno precedente: +0,2 per cento la media del 2013, +1 per cento nel 2014 e nel 2015. Nel 2016 +0,6 contro un -0,1 per cento dei prezzi. Una dinamica importante, che nei bilanci familiari ha fatto da contrappeso al crollo dell’occupazione.
Preoccupante quindi che il 2016 si sia chiuso con una forbice prezzi-salari ribaltata. Per il 2017 è probabile che l’inflazione cresca verso l’uno per cento (spinta dal petrolio che è cresciuto del 20 per cento da novembre 2016 dopo l’accordo tra i paesi produttori), mentre non sono in vista ragioni di inversione della tendenza al ribasso nella dinamica dei salari.

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