La Grecia è ufficialmente uscita dal terzo programma di salvataggio. Anche se restano dubbi restano sulla capacità di rispettare gli impegni presi con la Troika, è un segnale positivo per tutta l’Europa. Ma nuovi rischi aleggiano all’orizzonte.
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Superate alcune difficoltà, è stato trovato l’ennesimo accordo tra governo greco e creditori internazionali. Di nuovo rinviata invece la discussione sulla ristrutturazione del debito. Un peccato, perché il risultato era probabilmente a portata di mano.
Tsipras sostiene che le risorse del primo salvataggio sono andate alle banche di Francia e Germania. Ma i numeri raccontano una storia diversa. Tra 2010 e 2013 banche e governo greci hanno ricevuto un flusso positivo di risorse dall’estero. Un accordo con i creditori l’avrebbe fatto continuare.
La crisi del debito insegna che è più facile realizzare le riforme strutturali quando la permanenza nell’Eurozona è messa in discussione. Ed è la disponibilità a farle che il governo greco deve dimostrare, mentre torna a chiedere con forza la riduzione del debito dopo la vittoria del “no”.
I greci hanno detto “no” al programma della Troika, ma in vista di un nuovo accordo che garantisca gli aiuti necessari al paese. L’intesa dovrebbe partire dai rimborsi a Fmi e Bce, con l’intervento dell’Esm. Impegni per un programma pluriennale di modernizzazione dell’economia.
Per affrontare la crisi greca si dovrebbe guardare a quanto accaduto in America Latina negli anni Ottanta. Lì la storia ci ha insegnato che la soluzione passa attraverso una riduzione del debito. Che alla fine potrebbe essere vantaggiosa anche per i creditori. Decennio perduto per tutta l’Eurozona?
La decisione del governo greco di indire un referendum sul piano di salvataggio è stata avventata e forse irresponsabile. Tuttavia, apre una questione di legittimità politica della governance economica europea. E può essere l’occasione per far risorgere l’Europa. O per affondarla definitivamente.
Alle prese con il devastante tira-e-molla con la Grecia, i politici europei e il Fmi dimenticano la lezione del decennio perduto dell’America Latina negli anni ’80. A paesi in default fu inizialmente imposta un’austerità troppo dura. Ma poi arrivò il Piano Brady con il quale banche creditrici e stati sovrani si accordarono sulla riduzione del debito richiesta per ripartire. Impossibile però – come ci racconta una lettera da Atene – una svolta prima dello svolgimento del referendum indetto da Tsipras con una mossa spregiudicata e avventata. Rimane un cruciale problema di democrazia in Europa, dove i ministri delle finanze dell’area euro decidono la sorte di un intero popolo con una legittimità molto dubbia. Che ci voglia una riforma della governance della Ue lo dice anche il rapporto dei “cinque presidenti”. Ma – irrisolto il problema greco – non si può riformare un bel niente, a partire dall’Unione monetaria.
Con l’annunciata fusione tra Linate-Malpensa (controllati dalla Sea) e Orio al Serio nascerà una posizione dominante negli aeroporti lombardi. Con benefici per la redditività degli enti pubblici azionisti di maggioranza e forse a discapito dei cittadini. Per privatizzare i quattro aeroporti di Londra si scelse una strada diversa. Da cui si potrebbe imparare.
È alle battute finali la riforma del catasto. Con una grossa contraddizione: vuole ristabilire l’equità del prelievo fiscale sugli immobili e allo stesso tempo impone l’invarianza di gettito a livello locale. Creando iniquità tra comuni. Ci sarebbe più redistribuzione se l’invarianza di gettito fosse stabilita a livello nazionale.
Al via una nuova architettura delle politiche attive per il lavoro, che finora non hanno dato prova di grande efficienza. Sarà la volta buona con l’Agenzia che accentra competenze prima disperse sul territorio? Potremo misurarne il successo guardando a come funzionerà l’assegno di ricollocazione per la categoria di disoccupati che cercano lavoro da sei mesi.
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Come in ogni tragedia greca che si rispetti, c’è qualcosa di inevitabile negli eventi degli ultimi giorni. Un giovane presuntuoso e i suoi collaboratori, ubriachi dal trionfo, si comportano con arroganza in patria e all’estero, insistendo che tutti devono piegarsi alla loro volontà, perché il loro mandato vale più di quello altrui. Cinque mesi dopo, il nuovo governo greco si ritrova con le spalle al muro. Nel frattempo è riuscito ad alienarsi le simpatie di chi sperava che il suo arrivo in scena avrebbe allentato i vincoli di austerità, facilitando un ripensamento della politica economica a livello europeo. Invece no: l’unico risultato sostanziale delle buffonate di Yanis Varoufakis e dei suoi colleghi è stato quello di ricompattare la fragile unità europea, ma nel senso “sbagliato”: rafforzando la linea ordoliberale di chi come Wolfgang Schäuble vedrebbe di buon occhio un’Europa senza la Grecia. Per il resto, grande amicizia con la Russia di Putin (con tanto di inchino del ministro dell’Energia greco al dirigente di Gazprom in diretta televisiva), continuità assoluta con le peggiori tradizioni corrotte e clientelari (dalle ondate di assunzioni di cugini, nipoti, amici e amanti, ai primi grossolani conflitti d’interesse) e svolta autoritaria (con inasprimento della retorica forcaiola e uso disinvolto delle istituzioni statali a fini strettamente di parte). Per quanto riguarda la politica sociale, le tanto attese misure contro la “crisi umanitaria” si sono presto rivelate meno generose di quelle palesemente inadeguate dei governi precedenti. Sul fatto che solo uno su dieci disoccupati percepisce qualsiasi prestazione sociale di sostegno al reddito (nel paese campione europeo della disoccupazione) regna il silenzio assoluto. Il reddito minimo, promosso dalla Commissione europea, viene bollato dal ministro responsabile come “roba africana voluta dall’Fmi”. Allo stesso tempo, secondo gli ultimi dati ufficiali, tra chi è andato in pensione a maggio 2015, uno su quattro ha un’età inferiore a 55 anni (addirittura, è uno su tre nel settore pubblico). Ma “le pensioni non si toccano”, e visto che quelle basse non le vuole comunque toccare nessuno, vengono difese a spada tratta soprattutto quelle baby e d’oro. Dopo cinque anni di austerità e sette anni di depressione, l’economia greca era tornata a crescere nel 2014. Si trattava di una ripresa timida e pallida: +1 per cento. Ma intanto la disoccupazione cominciava a scendere, seppure di poco. Ora non più: nei primi mesi del 2015 la Grecia è ancora una volta in recessione e la disoccupazione sta di nuovo crescendo. Alexis Tsipras è arrivato al potere promettendo agli elettori una medicina miracolosa e indolore: “Stracceremo gli accordi con la Troika, aboliremo l’austerità con un atto parlamentare”. A chi chiedeva “Se è così facile, come mai nessun governo l’aveva pensato prima?” rispondeva “Perché chi era al governo prima era servo dei creditori. Al contrario di loro, noi nelle trattative saremo duri”. “E se i creditori non cedono?” “La probabilità che succeda qualcosa del genere è meno di una su un milione” aveva dichiarato Tsipras in una ormai famosa intervista televisiva pochi giorni prima delle elezioni di gennaio scorso. Adesso è successo quello che non sarebbe mai dovuto accadere. Il governo che avrebbe messo fine all’austerità ha offerto ai creditori un programma di 8 miliardi di euro (cioè poco meno di quello proposto dai creditori stessi), ma molto meno credibile, composto al 93 per cento di improbabili aumenti di tasse. A questo punto, invece di sporcarsi le mani con un nuovo accordo, Tsipras e Varoufakis hanno preferito passare la patata bollente agli elettori, anche a rischio di Grexit, lasciando scadere il programma attuale (martedì 30 giugno) e dando la colpa all’Europa “lontana dalle radici democratiche”. Grazie alla decisione di Mario Draghi di non peggiorare la situazione, la Banca centrale europea non ha staccato la spina al sistema bancario (come presumibilmente imporrebbe il suo statuto), ma non ha neanche aumentato l’iniezione di liquidità (come un po’ incoerentemente chiedeva il governo greco). Risultato: capital controls, limite di prelevamento a 60 euro al giorno, code di pensionati e casalinghe. E sgomento, rabbia, paura. La scommessa di Tsipras è che, con un richiamo da manuale al ferito orgoglio nazionale, la vittoria al referendum sarebbe assicurata. E puntualmente, lo schieramento a favore del “no”, oltre ai nazionalisti di Panos Kammenos, ministro alla Difesa, si è allargato a comprendere i nazionalsocialisti di Alba Dorata. Cosa mai potrebbe andare storto per il governo?
Certo, il Consiglio di Europa, che non si occupava della Grecia dai tempi dei colonnelli, ha espresso il suo allarme per le (tante) irregolarità di questo referendum e per la mancata imparzialità delle istituzioni dello Stato. Ma (come hanno subito spiegato gli opinionisti del regime) tanto si sapeva già che l’Europa non sopporta più il governo greco. Quello che invece non hanno potuto prevedere Tsipras e i suoi, era il risveglio della Grecia europeista – quasi del tutto priva di rappresentanza politica, ma decisa lo stesso a difendere le conquiste più nobili degli ultimi quaranta anni: democrazia avanzata, orientamento europeo e (nonostante tutto) prosperità e coesione sociale. Le masse di cittadini che hanno riempito Piazza Costituzione, non per insultare il governo, né tantomeno per rompere vetrine o bruciare macchine, ma semplicemente per dichiarare pacatamente la loro appartenenza greca e europea (“Restiamo in Europa!”), complicano i calcoli del governo.
E fanno sperare che un’altra Grecia sia possibile.
Nonostante le speranze di molti, neanche il referendum metterà la parola fine alla crisi greca. E finché i problemi della Grecia restano irrisolti, non si può pensare di riformare l’architettura dell’Unione monetaria, come promesso nel Rapporto dei cinque presidenti. Tra realismo ed equilibrismo.