La politica migratoria italiana sembra procedere su due binari paralleli: da un lato i tentativi di fermare gli sbarchi, dall’altro, le richieste di manodopera delle imprese. Una visione unitaria sarebbe utile anche per abbandonare la logica emergenziale.
Perché continuano gli sbarchi
Dal punto di vista della politica migratoria italiana, il 2023 è stato caratterizzato da due direttrici apparentemente contrapposte: da un lato, i tentativi di limitare gli sbarchi e di gestire l’accoglienza dei richiedenti asilo sul territorio nazionale; dall’altro, la necessità di far fronte alla carenza di manodopera esplosa prepotentemente dopo la pandemia.
Sul fronte degli sbarchi, proprio nel decimo anniversario del naufragio di Lampedusa (3 ottobre 2013), si è toccata la cifra simbolica di un milione di arrivi in dieci anni.
Gli annunci fatti in campagna elettorale dalle attuali forze di governo si scontrano con alcuni ostacoli di lunga data, molto difficili da affrontare:
- la difficile collaborazione con i paesi di transito (in questo momento soprattutto la Tunisia) per frenare le partenze;
- la scarsa volontà dei paesi Ue di rendere effettivamente di competenza europea la gestione dell’asilo e dell’accoglienza, superando definitivamente quelle che il presidente Mattarella ha più volte definito “regole preistoriche”;
- la scarsa efficacia del sistema di rimpatrio di coloro ai quali viene rifiutata la richiesta di protezione, anche in questo caso a causa (soprattutto) della difficile collaborazione con i paesi d’origine.
Dietro queste difficoltà, rimangono i “fattori di spinta” delle migrazioni dall’Africa, che portano il fenomeno a crescere costantemente: popolazione in forte aumento, prevalentemente giovane e desiderosa di migliorare le proprie condizioni di vita, ma anche instabilità politiche, conflitti e disastri naturali. La situazione non può essere certamente risolta in pochi anni, ma occorre cominciare ad affrontarla in modo unitario e a livello internazionale.
Gli ingressi legali
Parallelamente, però, il 2023 è caratterizzato anche da un importante piano di ingressi legali per lavoro: sono già pianificati, infatti, 574 mila ingressi per lavoro in quattro anni (122 mila previsti dal decreto flussi 2022 e 452 mila dal decreto 2023-2025). Pur considerando che circa il 60 per cento di questi arrivi è rappresentato da lavoratori stagionali, si tratta di una svolta rispetto alla politica migratoria degli ultimi dieci anni.
Nell’intenzione del governo, l’apertura dei canali di ingresso legali avrebbe un duplice obiettivo.
Innanzitutto, risponde a una chiara esigenza del mondo economico: secondo le previsioni Unioncamere – Excelsior, nei prossimi quattro anni serviranno almeno 3,4 milioni di lavoratori, in parte dovuti al pensionamento degli occupati attuali e in parte dovuti alla crescita economica (compresa quella trainata dagli investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza). Gli ingressi previsti sono inferiori rispetto al fabbisogno complessivo, ma rappresentano uno sforzo consistente e crescente.
Gli ingressi per lavoro dovrebbero rappresentare però anche un’alternativa agli sbarchi, siano essi spontanei o gestiti dai trafficanti.
È la sfida più difficile, perché non è automatico che chi attraversa il Mediterraneo affidandosi ai trafficanti possa “scegliere” di viaggiare comodamente in aereo, soprattutto perché per farlo deve avere già un contratto di lavoro con un datore italiano. Però è verosimile che questo canale possa rappresentare un’alternativa almeno per chi proviene da paesi relativamente stabili politicamente. Avrebbe anche l’effetto secondario, ma comunque positivo, di alleggerire il carico del sistema di accoglienza e asilo, perennemente in sovraccarico.
Dopo anni di dibattito sul tema, almeno su un punto sembra che tutte le forze politiche si siano messe d’accordo: l’Italia non può più fare a meno della manodopera straniera. Al di là degli slogan, è evidente che si tratta di una componente imprescindibile per l’economia italiana, sia nel presente ma ancor di più nel prossimo futuro, vista la crisi demografica in corso.
Come riportato nel XIII Rapporto della Fondazione Leone Moressa sull’economia dell’immigrazione, che verrà presentato il 19 ottobre 2023, i 5 milioni di immigrati residenti oggi in Italia rappresentano più un beneficio che un costo per lo stato.
Mettendo infatti sul piatto della bilancia, da un lato, tasse e contributi versati dagli immigrati e, dall’altro, spesa pubblica destinata ai cittadini stranieri, il saldo è costantemente in attivo.
Gli ultimi dati disponibili, relativi all’anno d’imposta 2021, mostrano un totale di 29,2 miliardi di euro di entrate per le casse dello stato (Irpef, Iva, tasse varie, contributi previdenziali e sociali) contro 27,4 miliardi di uscite per servizi di welfare dedicati alla popolazione straniera (scuola, sanità, pensioni e altro).
Il saldo (+1,8 miliardi) è positivo nonostante gli immigrati si collochino prevalentemente in classi di reddito medio-basse, coprendo soprattutto mansioni manuali e poco remunerate. Quindi, mentre la popolazione italiana invecchia rapidamente, la componente immigrata offre un contributo positivo a livello demografico, produttivo e fiscale.
Tuttavia, questo contributo non è sufficiente ad arginare le tendenze in corso nel nostro paese: gli scenari demografici portano alla lunga alla parità numerica tra lavoratori e pensionati, evidentemente insostenibile per il sistema odierno. L’immigrazione, dunque, è condizione necessaria, ma non sufficiente per affrontare l’inverno demografico in corso.
L’aumento degli ingressi per lavoro è certamente una notizia positiva, in primo luogo per le imprese che ne hanno fatto richiesta. Rimane però la sensazione che la politica migratoria italiana viaggi su due binari paralleli, a volte persino in contrasto tra loro. La sfida più grande, probabilmente, sarà quella di riuscire a trovare una visione unitaria, utile anche ad abbandonare la logica emergenziale.
Ad esempio, si potrebbe cominciare col valutare seriamente le competenze dei migranti inseriti nei centri di accoglienza, in modo da pensare percorsi formativi e di inserimento specifici. In questo modo, almeno parte della manodopera richiesta potrebbe essere reperita già in Italia, senza dover ricorrere alla lunga procedura del decreto flussi. Ciò non significa non affrontare una per una le specifiche questioni, ma avere un orizzonte d’azione più ampio alla base delle singole politiche.
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Savino
Il fenomeno epocale va integrato, anche alla luce della denatalità, con una politica statale dell’accoglienza e dell’integrazione, finanziata dalla UE, non lasciando i veri disperati in balia di modalità abborracciate di accoglienza, fornite, anche con profitto, da Comuni, ONG, o parrocchie. La clandestinità illegale, di converso, continua a sussistere perchè fa parte di tutte le illegalità non affrontate e non colpite, troppo lassismo e zero controlli veri, che disorientano il cittadino per lo scarsissimo peso dello Stato. E’ inaccettabile il calo di peso dello Stato e il fatto che lo Stato abbia così poca forza. I cpr vanno aboliti così come sono. Occorre agevolare i veri rimpatri e la vera accoglienza, senza limbi pseudo detentivi inutili.
Pietro Della Casa
La valutazione della Fondazione Leone Moressa, periodicamente riproposta, è che vi sia tuttora un saldo positivo per le casse pubbliche legato all’immigrazione, il che è ragionevole se consideriamo che si tratta in larga misura di persone in età lavorativa ed anche intenzionate a lavorare. Il tutto naturalmente in media e senza distinguere i diversi tipi di immigrazione, cosa che invece ritengo sarebbe estrememente istruttiva. In ogni caso, è evidente che l’inevitabile invecchiamento della popolazione immigrata non potrà che portare a maggiori esborsi in termini di servizi sanitari e pensioni, esattamente come nel caso degli autoctoni. Estrapolando tra il serio ed il faceto, si può immaginare una spirale demografica crescente in cui bisognerà importare sempre più immigrati giovani per sostenere i costi di una massa sempre crescente di immigrati anziani e non più produttivi… Aggiungo poi che nel caso si decidesse di investire crescenti risorse in varie forme di assistenza e “redditi di presenza” (ossia estesi ai cittadini stranieri) sull’esempio tedesco, è ragionevole aspettarsi che la composizione dell’immigrazione cambi drasticamente, con una sensibile riduzione della sua componente produttiva. Del resto la scarsa generosità dell’Italia verso le persone ufficialmente disoccupate (peraltro motivata più che altro da cronica mancanza di fondi) è la ragione per la quale molti immigrati preferiscono i freddi paesi del nord europa alle attrattive ineguagliabili del “bel paese”.