Tra il 2022 e il 2024, con l’inflazione alta, il drenaggio fiscale è arrivato a 25 miliardi. Ne beneficiano le casse dello stato, ma a spese di lavoratori dipendenti e pensionati, perché gli autonomi hanno la flat tax. Cosa cambia dopo la riforma fiscale.

Come agisce il fiscal drag

In Italia, come d’altronde in altri paesi europei, il sistema di imposta progressivo non è indicizzato all’inflazione, ciò implica che se il mio reddito nominale rimane identico, nonostante l’inflazione (ovvero non ho avuto alcun adeguamento contrattuale), continuo a pagare sempre la stessa quota di reddito, anche se in realtà sono diventato più povero. Nel raro caso in cui abbia invece un contratto che consente il pieno recupero dell’inflazione, ovvero lascia il mio reddito reale inalterato, sarò sottoposto a un’aliquota media maggiore poiché per il fisco ciò che conta è il valore del reddito nominale, non quello reale. Dunque, la mia imposta non aumenterà di una misura pari al tasso di inflazione, come sarebbe giusto, ma di una misura superiore al tasso di inflazione. La differenza di imposta tra il secondo e il primo caso va appunto sotto il nome di drenaggio fiscale.

Un toccasana per le finanze pubbliche

In Italia tra il 2022 e il 2024 si è cumulato un drenaggio fiscale di proporzioni molto rilevanti. Per pensionati e lavoratori dipendenti è risultato pari a 25 miliardi.

Il punto da sottolineare è che i contribuenti che hanno subito in questi tre anni un’inflazione del 17 per cento pagano nel 2024 25 miliardi in più di quanto dovrebbero e continueranno a pagare questa cifra in più fintanto che il governo non deciderà di adeguare all’inflazione i limiti degli scaglioni Irpef e delle detrazioni.

Si potrebbe rispondere che per le classi meno abbienti il governo lo ha già fatto. Vero, ma allora la riforma fiscale non ha affatto aumentato il potere di acquisto dei contribuenti bisognosi, ma ha semplicemente restituito ciò che lo stato si sarebbe preso con il fiscal drag, facendo di fatto pagare l’operazione alla classe media a cui il fiscal drag non è stato restituito.

Ciò ha consentito al governo (probabilmente non solo al nostro) di risanare le finanze pubbliche e addirittura di anticipare l’obiettivo deficit/Pil sotto il 3 per cento al 2026, con tanto di plauso da parte della Comunità europea, che nell’ultima Raccomandazione del Consiglio certifica il percorso virtuoso dell’Italia, di cui sicuramente non possiamo che essere contenti.

È comunque importante sapere a chi è dovuto il risultato: a un aumento della pressione fiscale su lavoratori dipendenti e pensionati. Al risultato hanno contribuito anche le addizionali Irpef comunali e regionali, perché comuni e regioni le hanno alzate per far fronte al taglio in termini reali dei trasferimenti centrali.

Con un semplice esercizio (figura 1), si può capire cosa sarebbe successo al deficit dell’Italia se fosse mancato il gettito da drenaggio fiscale. L’obiettivo deficit/Pil sotto il 3 per cento sarebbe stato raggiunto nel 2029 (linea gialla), quindi con tre anni di ritardo rispetto a quanto risulta dal Piano strutturale di bilancio di medio termine (linea blu).

Il nuovo Patto di stabilità prevede anche un obiettivo di spesa netta, cui il fiscal drag potrebbe aver contribuito nel caso in cui sia stato classificato come entrata discrezionale, non ciclica. Non ci addentriamo sulle previsioni relative all’incremento di spesa netta poiché non è chiaro che quota di entrate relative al drenaggio fiscale sia stata inclusa o meno tra le entrate discrezionali, ma sarebbe utile avere informazioni puntuali in merito, per potere capire bene le determinanti degli indicatori molto positivi che sembrano caratterizzare la finanza pubblica italiana.

Figura 1 – Indebitamento netto su prodotto interno lordo. Dati (linea blu) tratti dal Piano strutturale di bilancio di medio termine

Progressività e flat tax

Il drenaggio fiscale è sempre esistito ed è legato, oltre che al livello dell’inflazione, al grado di progressività dell’imposta. Cosa possiamo fare, quindi, per eliminarlo? Una risposta di istinto potrebbe essere “cancelliamo la progressività”. Se tutti fossero sottoposti a flat tax, non esisterebbe fiscal drag. Ma sappiamo che non è possibile realizzare un regime di flat tax al 15 per cento (quello attualmente in vigore per gli autonomi) a meno che non si voglia far saltare il bilancio dello stato. Sull’inflazione non si può agire per decreto perché arriva dal mercato e dalla situazione macroeconomica del momento.

Si potrebbe allora rispondere con un’altra domanda: perché eliminarlo? Il fiscal drag è uno strumento per finanziare la spesa pubblica. E infatti è ciò che è stato fatto negli ultimi venti anni, ma si è trattato di un periodo in cui ci siamo trovati a fronteggiare tassi di inflazione estremamente bassi e a volte anche negativi. Quindi tutto sommato il contributo che lavoratori dipendenti e pensionati davano con il drenaggio fiscale era abbastanza modesto.

Negli ultimi tre anni le cose sono radicalmente cambiate. Tra il 2022 e il 2024 nel nostro paese l’inflazione è stata superiore al 17 per cento. Vuol dire che in media ogni contribuente si è visto ridurre il proprio reddito reale del 17 per cento e considerato che in un sistema di imposta progressivo l’aliquota media (ovvero la quota che del proprio reddito il contribuente versa all’erario) aumenta all’aumentare del reddito, in questa situazione sarebbe dovuta diminuire. Ma ciò avviene solo se il sistema di imposta progressivo è indicizzato, come in Austria, Danimarca e Olanda.

Come incide la riforma fiscale 

Ci sono quindi paesi che sterilizzano il fiscal drag. Quanto all’Italia, se dovesse tornare l’inflazione sarebbe intollerabile che a pagare il conto fossero ancora una volta i soli dipendenti e pensionati sopra i 35mila euro di reddito. Da noi, infatti, i quasi 2 milioni di forfettari sono esenti Irpef, incluse le addizionali locali: poiché pagano un’imposta proporzionale con aliquota al 15 per cento, non sono toccati dal drenaggio fiscale. Il paradosso, come mostra il Rapporto sulla politica di bilancio dell’Ufficio parlamentare di bilancio, è che se si fa una riforma fiscale più progressiva si arriva ad aumentare il gettito da drenaggio fiscale. Ipotizzando un’inflazione al 2 per cento, se facciamo un confronto tra il fiscal drag prodotto dalla struttura di imposta Irpef del 2022 e quello prodotto dalla struttura in vigore nel 2025 dopo la riforma del governo Meloni, vediamo che in entrambi i casi si avvicina a 3 miliardi, con una differenza tra il 2025 e il 2022 di 385 milioni. La riforma, visto che rende più progressivo il sistema, ha insito in sé, a parità di inflazione, un maggior drenaggio fiscale.

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