Difficile capire le prospettive future della nostra economia dal Documento programmatico. Nella prima parte si prospetta un paese da crescita zero, nella seconda si dice il contrario, tra Pnrr e aumenti di occupazione e investimenti. Confusione anche sulla difesa.
Un paese da “zero virgola”
Il Documento programmatico di finanza pubblica (Dpfp) appena presentato dal governo delinea la situazione dei conti pubblici: nonostante i miglioramenti, continua a essere molto fragile e qualunque governo di qualsiasi colore politico sarebbe comunque chiamato a un’opera di risanamento (anche se gli strumenti potrebbero ovviamente essere molto diversi).
Nel Documento, quello che più impressiona sono invece i dati sulla crescita economica. L’Italia è di nuovo un paese da zero virgola. Il quadro tendenziale per il Dpfp prevede una crescita reale annua dello 0,5 per cento nel 2025 e dello 0,7 per cento nel biennio successivo (lo 0,8 per cento nel 2028); quello programmatico, visti i limitati interventi ipotizzati, è praticamente identico (solo uno 0,1 per cento in più, rispettivamente, nel 2027 e 2028). Il governo giustifica questo scenario deprimente come il risultato di un approccio prudenziale; tuttavia, almeno per il periodo in cui sono disponibili (il biennio 2025-2026), le stime del governo coincidono con quelle del consenso degli analisti e sono state validate dall’Ufficio parlamentare di bilancio.
Ovviamente, il dato del 2025-2026 riflette anche i dazi di Donald Trump e più in generale l’incertezza generata dal nuovo quadro geo-politico, che si fa sentire sulle decisioni di consumo e investimenti. È possibile che da un punto di vista congiunturale la situazione richiederebbe una politica fiscale più espansiva. Per le condizioni dei suoi conti pubblici, l’Italia non è in grado di sostenerla, a differenza di altri paesi, vedi Germania. Ma il dato è comunque sorprendente per lo meno per due ragioni.
L’impatto del Pnrr
La prima ragione è che almeno fino a tutto il 2026 c’è il Pnrr e il governo prevede una forte accelerazione della spesa nella fase finale del progetto. Lo stesso Dpfp presenta delle stime dell’impatto del Pnrr sulla crescita reale del Pil, distinguendo tra riforme e investimenti e tra interventi già adottati e interventi da adottare. Anche limitandosi solo agli interventi già adottati, il Dpfp stima che la crescita del Pil nel 2025 rispetto al 2024 sia stata dovuta per almeno un punto percentuale al Pnrr; visto che la crescita stimata per lo stesso anno è però dello 0,5 per cento, significa che senza il Piano il paese sarebbe stato in recessione. Lo stesso si può dire per il 2026; adottando gli interventi che mancano e che il governo si è impegnato ad attuare, sempre secondo il Dpfp, il paese dovrebbe crescere di circa un punto e mezzo in più rispetto al controfattuale; ma la stima della crescita complessiva per il 2026 adottata nel Dpfp è solo dello 0,7 per cento. O si assume che senza il Pnrr il paese sarebbe in forte recessione, peggiore perfino di quella tedesca, il che sembra poco plausibile, oppure questi numeri non si parlano.
Il Pil potenziale
Non solo. Negli ultimi anni si è vista una forte crescita dell’occupazione (il tasso di occupazione ha raggiunto il massimo storico del 63 per cento) e il Dpfp prevede che la tendenza si mantenga in futuro; in più, sempre nel Dfpf, il governo si è impegnato a tenere, anche dopo la fine del Pnrr, gli investimenti pubblici al livello, storicamente molto elevato, dell’ultimo triennio, il 3,4 per cento del Pil. In realtà, più che di un impegno politico si tratterebbe di un obbligo giuridico, imposto dalla Commissione per consentire al paese un allungamento a sette anni del processo di aggiustamento. Ma questo significa che sia il fattore lavoro che il fattore capitale sono stati in forte crescita negli ultimi anni e lo saranno ancora nei prossimi; come è possibile allora che la dinamica del Pil strutturale stimata nel Dpfp risulti così limitata?
L’unica possibilità è che si riduca la produttività totale dei fattori (Ptf); se l’economia italiana diventa sempre meno produttiva, allora anche l’impiego di maggior capitale e maggior lavoro può essere coerente con un Pil che non cresce o cresce poco. E questo è infatti quello che stima il Dpfp, con una Ptf in forte caduta (dello 0,2 per cento all’anno) nel periodo 2024-2026 e con una crescita pari a zero negli anni successivi. Ma la dinamica negativa per la Ptf sembra poco plausibile, sia alla luce dei dati storici che mostrano una crescita dell’occupazione nel post-pandemia soprattutto concentrata nei servizi ad alto valore aggiunto, sia di tutte le riforme e investimenti, in parte generati dal Pnrr e documentati nello stesso Dpfp, che avrebbero appunto l’obiettivo di far crescere la competitività dell’economia italiana. Di nuovo, è difficile tenere assieme questi due pezzi del documento.
La spesa per la difesa
Parafrasando Ennio Flaiano, la parte del Dpfp relativa alla spesa per la difesa dà l’idea di un paese magari tragico, ma anche poco serio. L’antefatto è che non più tardi di qualche mese fa, a giugno, l’Italia ha preso l’impegno solenne, assieme a tutti gli altri paesi Nato (eccetto la Spagna), di portare la propria spesa per la difesa al 5 per cento del Pil entro il 2035, il 3,5 per cento per la spesa militare strettamente intesa e un altro 1,5 per cento per una più generica “spesa per la sicurezza”.
La spesa attuale dell’Italia per la difesa viene stimata dal governo nel Dpfp, con un notevole sforzo di immaginazione, attorno al 2 per cento del Pil, come computata secondo i dettami Nato (poco più dell’1,2 per cento secondo la classificazione Cofog). Nel luglio del 2025, in zona Cesarini (a un giorno dalla scadenza dei termini), l’Italia ha anche prenotato 14,9 miliardi di prestiti agevolati da parte dell’Europa per finanziare maggiori spese per la difesa, nell’ambito del programma Re-Arm EU. Ci si sarebbe dunque aspettati che il Dpfp desse conto di questi impegni, per lo meno nel prossimo triennio.
Ma su questo punto, il Dpfp è un capolavoro di ipocrisia. Da un lato, si ribadiscono gli impegni assunti dall’Italia in sede Nato, dall’altro si dice che sono però necessari “ulteriori approfondimenti”. Senza prendere un impegno definitivo, tant’è che la spesa addizionale per la difesa non è conteggiata nel quadro programmatico per il prossimo triennio, si considera la possibilità di aumentare la spesa per la difesa dello 0,15 per cento del Pil ogni anno nel biennio 2026-2027 e dello 0,2 per cento nel 2028, fino a raggiungere una spesa cumulata in più nel 2028 pari allo 0,5 per cento del Pil (circa 12 miliardi). Inoltre, benché abbia già prenotato i fondi europei, il governo si dichiara anche incerto sul richiedere la clausola di sospensione dal percorso di spesa netta consentita dalla Commissione (fino all’1,5 per cento del Pil all’anno, per quattro anni, per le spese addizionali per la difesa, prendendo come riferimento per il calcolo l’ammontare del 2021) nell’ambito del programma Re-Arm EU. Comunque, la clausola, che fa riferimento al braccio preventivo del Patto di stabilità e crescita europeo, formalmente può essere richiesta da un paese solo dopo che è uscito dalla procedura per deficit eccessivo. Dunque, se ne riparlerà probabilmente la prossima primavera, quando la Commissione prenderà la decisione in merito alla chiusura della procedura per l’Italia.
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Savino
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