Il disegno di legge di bilancio per il 2026 modifica ancora l’Irpef. Per modeste riduzioni sui redditi medio-alti, la struttura dell’imposta si complica ancor di più e si erode la base imponibile. Serve una riforma che riporti razionalità ed equità.
Le modifiche per il 2026
Il disegno di legge di bilancio 2026 interviene ancora sull’Irpef, ma sempre in modo poco organico e razionale: per modeste riduzioni di imposta concentrate soprattutto sui redditi medio-alti, tra 50 e 200mila euro, si sovrappongono normative che continuano a complicare il sistema generando erraticità nel prelievo e si aggrava l’erosione della base imponibile, con buona pace dei principi di equità, efficienza e semplicità su cui dovrebbe fondarsi un sistema tributario.
I principali interventi riguardano un’ulteriore revisione delle aliquote legali e una contestuale nuova revisione delle detrazioni per oneri; un ampliamento dei regimi di tassazione cedolare, in luogo dell’Irpef e relative addizionali.
La revisione delle aliquote e delle detrazioni
A partire dai redditi 2026 è prevista la riduzione dal 35 al 33 per cento dell’aliquota applicata al secondo scaglione di reddito, quello tra 28 e 50mila euro (vedi tabella 1). Il risparmio di imposta erariale riguarda tutti i contribuenti con reddito maggiore di 28mila euro e sale proporzionalmente fino a raggiungere, per redditi uguali o superiori a 50mila euro, un massimo di 440 euro (2 per cento del reddito che ricade nello scaglione 28-50mila euro). Della riduzione di imposta beneficerebbero 13,6 milioni di contribuenti, circa un terzo del totale. Il costo complessivo è pari a circa 2,9 miliardi nel 2026 e circa 3 miliardi in seguito. L’intervento segue quello del 2024 (reso strutturale nel 2025) che ha accorpato i primi due scaglioni Irpef, con l’aliquota del 23 per cento fino a 28mila euro. L’intervento del 2024 valeva 18 miliardi di euro, sei volte di più di quello proposto dal disegno di legge di bilancio per il 2026.
La figura 1 illustra l’andamento dei risparmi di imposta per diversi livelli di reddito, limitandosi agli effetti delle sole modifiche di aliquote e scaglioni (tabella 1) che sono stati prodotti dai due interventi di revisione attuati dal governo Meloni a partire dal 2024. La linea rossa (che fino a 28 mila euro coincide con la blu) mostra il minor prelievo tra il 2024 (confermato per il 2025) e il 2023; la verde quello determinato dall’attuale disegno di legge di bilancio (quindi il vantaggio tra il 2026 e il 2025), mentre quella blu è la somma dei due interventi (2023-2026).
Figura 1 – Risparmi di imposta lorda a seguito delle modifiche del governo Meloni

Come si nota dalla figura, il primo intervento ha puntato a detassare i redditi bassi (ma ovviamente, anche con effetti per i redditi più elevati, dato che è stata ridotta l’aliquota base): si hanno risparmi di imposta a partire da 15mila euro di reddito, che crescono linearmente fino a raggiungere un massimo di 260 euro per redditi uguali o superiori a 28mila euro. Con il secondo intervento, previsto nel Ddl di bilancio 2026, i risparmi si concentrano su redditi più elevati: iniziano a partire da 28mila euro e raggiungono il massimo di 440 euro per redditi uguali o superiori a 50mila euro. Considerati congiuntamente, i due interventi forniscono risparmi di imposta crescenti a partire da 15mila euro per raggiungere un massimo di 700 euro annui per chi ha redditi pari o superiori a 50mila euro.
In alcune circostanze, i vantaggi fiscali potrebbero venire meno o essere ridimensionati. Infatti, analogamente a quanto fatto nel 2024, per escludere dai benefici della riduzione dell’aliquota i contribuenti più ricchi, il Ddl di bilancio prevede una riduzione di 440 delle detrazioni per oneri (escluse le spese sanitarie), liberalità ai partiti politici e premi per assicurazioni contro eventi calamitosi, ma non a partire da 50mila, bensì a partire da 200mila euro di reddito. I vantaggi maggiori sono dunque per i contribuenti con redditi compresi fra 50 e 200mila euro, che potranno beneficiare interamente della riduzione di imposta di 440 euro. Per i soggetti che dichiarano 200mila euro o più di reddito, sempre che abbiano le detrazioni citate, la riduzione di due punti di aliquota prevista dal Ddl di bilancio non avrà invece alcun effetto. Ma dato che contribuenti con questi livelli di reddito ce ne sono pochissimi, la riduzione delle detrazioni avrà un impatto assai limitato.
Continua l’erosione dell’imponibile Irpef
Il Ddl di bilancio 2026 introduce una nuova agevolazione una tantum, che si applica al solo 2026, sugli incrementi retributivi corrisposti ai dipendenti del settore privato, in attuazione di rinnovi contrattuali sottoscritti negli anni 2025 e 2026 e limitatamente a redditi da lavoro di importo non superiore a 28mila euro. Salvo espressa rinuncia del lavoratore, gli incrementi sono assoggettati a una imposta ad aliquota costante del 5 per cento, sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali regionali e comunali.
Inoltre, si innalza da 3mila euro a 5mila euro la quota dei premi di produzione soggetta a tassazione cedolare e si riduce la corrispondente aliquota dal 5 all’1 per cento, per gli anni 2026 e 2027. Si introduce poi, per il solo 2026, un’imposizione sostitutiva (di Irpef e addizionali) pari al 15 per cento, nel limite di 1.500 euro annui, per la parte di retribuzione imputabile al lavoro prestato nelle ore notturne oppure nei giorni festivi o nei giorni di riposo settimanale o relativa alle indennità di turno e a ulteriori emolumenti connessi al lavoro a turni, purché il reddito (osservato nell’anno precedente) non superi 40mila euro. Un’analoga agevolazione, ma limitata al periodo 1° gennaio-30 settembre 2026, è riservata ai lavoratori del settore turistico e ricettivo. Per il settore pubblico non è prevista la possibilità di tassazione cedolare degli incrementi contrattuali, ma viene introdotta un’agevolazione di importo massimo di 800 euro per i trattamenti accessori, se il reddito non supera 50mila euro.
L’insieme di questi provvedimenti, che comportano un costo complessivo di circa 1,6 miliardi nel 2026, introduce ulteriori discriminazioni fra dipendenti pubblici e privati, fra lavoratori i cui rinnovi contrattuali cadono nel biennio 2025-2026 e tutti gli altri e, più in generale, fra soggetti con uguale reddito di lavoro, ma di natura diversa. Si tratta poi di interventi che contribuiscono a erodere la base imponibile dell’Irpef, ne complicano la struttura e, poiché limitati nel tempo, generano inevitabilmente aspettative di una loro conferma o di ulteriori agevolazioni in futuro. Per quanto riguarda gli effetti di incentivo, l’efficacia è dubbia. In specifico, la detassazione degli incrementi contrattuali si applica anche ai contratti collettivi già stipulati nel 2025, mentre la spinta a chiudere quelli ancora aperti è debole, dato che il risparmio massimo è limitato a un solo anno ed è tutto sommato di importo modesto (18 per cento dell’incremento). Ad esempio, considerando un incremento contrattuale medio di 680 euro, come ipotizzato nella Relazione tecnica al Ddl bilancio, il risparmio di imposta sarebbe di appena 122,4 euro per il solo 2026.
In aggiunta, la complessità che ormai caratterizza l’Irpef come risultato dell’intreccio fra i molteplici interventi normativi che si sono succeduti nel tempo, è tale da far sì che il risparmio di imposta derivante dalle misure di tassazione piatta introdotte dal Ddl di bilancio finisca per non essere uniforme per i vari livelli di reddito e in alcuni casi sarebbe persino conveniente per il lavoratore rinunciare alla cedolare. Sempre per il caso degli incrementi per rinnovi contrattuali, la figura 2 illustra questo risultato misurando la differenza di debito di imposta 2026 tra due lavoratori dipendenti che percepiscono lo stesso reddito ma con uno dei due che deriva 680 euro di tale reddito – sempre come previsto nella Relazione tecnica – da un aumento contrattuale (si ipotizzano contribuenti senza carichi familiari e si prescinde per semplicità dalle addizionali regionali e comunali). La linea nera è ciò che ci si aspetterebbe: un risparmio di imposta costante di 122,4 euro a partire dall’uscita dalla no tax area e fino a 28mila euro (limite oltre al quale l’agevolazione non si applica). La linea verde è quella che si avrebbe qualora l’incremento contrattuale fosse tassato con cedolare al 5 per cento. Per alcuni lavoratori vi sarebbero benefici superiori a 122,4 euro, per altri addirittura perdite consistenti, che però possono essere evitate grazie alla possibilità di rinunciare alla cedolare (linea fucsia). Sono molteplici i fattori che generano questi andamenti erratici e, a prima vista, poco comprensibili. In larga parte, dipendono dal complicato e quasi inestricabile intreccio che ormai, nel sovrapporsi disorganico di normative, si è venuto a creare fra detrazioni, bonus, trattamenti integrativi e trasferimenti monetari parametrati in base a diverse definizioni e livelli di reddito. Ad esempio, la perdita di circa mille euro che si nota in corrispondenza di un reddito di 15mila euro dipenderebbe dal fatto che la detrazione per lavoro dipendente, se commisurata a un reddito che esclude l’incremento contrattuale soggetto a cedolare (come attualmente accade per i premi di produzione), passerebbe, nel caso di adesione alla cedolare da 3.091 a 1.955 euro, rendendo quindi non conveniente la tassazione cedolare stessa.
Figura 2 – Differenza di tassazione fra cedolare e Irpef ordinaria per un incremento contrattuale di 680 euro

In conclusione, il susseguirsi di interventi sporadici e parziali rende sempre più intricata e complessa la struttura dell’imposta. Si generano così effetti sempre più difficili da comprendere per il contribuente, ma anche sempre meno giustificabili sul piano dell’equità. Ancor di più dopo questo intervento, una vera e organica riforma dell’Irpef diventa sempre più urgente.
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Ha studiato economia nelle Università di Bologna e di Cambridge (UK). Nei suoi studi si è occupata prevalentemente degli effetti economici della tassazione dei redditi di impresa e di capitale, della valutazione di proposte di riforma fiscale e dei problemi di coordinamento in ambito comunitario. Ha collaborato con istituzioni e centri di ricerca nazionali e internazionali e ha partecipato a numerosi gruppi e commissioni di lavoro istituiti presso il Ministero delle Finanze. Attualmente è componente della Commissione ministeriale sulle spese fiscali. Professore ordinario di Scienza delle finanze presso l’Università di Bologna (dal 1993), è stata successivamente Vicesindaco del Comune di Bologna, con delega al bilancio, al patrimonio e alle società partecipate, nel mandato amministrativo maggio 2011-giugno 2016.
Simone Pellegrino è professore associato di Scienza delle finanze presso il Dipartimento di Scienze Economico-sociali e Matematico-statistiche (ESOMAS) dell’Università di Torino. In precedenza è stato ricercatore presso la medesima Università. Ha conseguito il Dottorato di ricerca in finanza pubblica presso l’Università di Pavia e il Master in public economics presso la University of York (UK). I suoi interessi di ricerca vertono prevalentemente su tematiche relative all’imposizione fiscale, alla costruzione di modelli di micro-simulazione tax-benefit e all’analisi dell’effetto redistributivo delle imposte.
Professore ordinario di Scienza delle finanze nell'Università di Bologna. Attualmente è componente del -Comitato scientifico per le attività inerenti alla revisione della spesa pubblica istituito presso il MEF. Durante il 2022 è stato presidente della Commissione tecnica per i fabbisogni standard presso il MEF e tra il 2014 e il 2022 componente del Consiglio direttivo dell’Ufficio parlamentare di bilancio. Nel passato ho fatto parte della Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale e della Commissione tecnica per la finanza pubblica presso il MEF.
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