Pochi ventenni nel nostro paese. E quei pochi, benché più istruiti dei loro fratelli e padri, difficilmente trovano un’occupazione stabile. Le generazioni sono legate da vincoli di reciprocità etica e finanziaria. E questa consapevolezza deve essere parte essenziale del processo di rigenerazione del paese.

I “ventenni” di oggi sono ogni anno poco più di 600mila quando, solo dieci anni fa, erano 800mila e vent’anni prima quasi 1 milione (figura 1). Sono meno, ma sono meglio istruiti di un tempo, eppure la loro collocazione pare un problema insolubile. (1) I dati ci dicono che per i più giovani la disoccupazione è al 35 per cento e che, tra chi lavora, uno su tre è precario. (2)


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igura 1 – Consistenza coorti di età nel 1987 (linea rossa), 1997 (linea nera), 2007 (linea blu)

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Fonte: dati Istat

GIOVANI DIMENTICATI

Menomale che son pochi: se ci fossero i ventenni del 1987 con questa domanda di lavoro, il tasso di disoccupazione giovanile sarebbe oltre il 50 per cento. Già questo è strano, visto che molti analisti sostengono il rischio opposto, di scarsità di figure professionali elevate in un prossimo futuro sempre più hi-skill oriented. Gli uomini e le (poche) donne che lavorano sono cresciuti di poco negli ultimi venti anni e l’incremento è in larga parte dovuto agli immigrati; ma siccome questi ultimi non insistono sulle professioni migliori, si ricava che i “giovani” siano entrati in competizione con molti “anziani” dalle fulgide carriere, forse esagerate in relazione ai meriti professionali. Tale copiosa ascensione collettiva si rivela come un atto di forza poiché, essendo l’eccellenza (e la mediocrità) normalmente distribuita nelle generazioni, se fanno carriera troppe persone della stessa età, allora, inevitabilmente, la sta facendo qualcuno che non se la merita(va), con il risultato di aver falsato il valore del lavoro nel mercato e di aver prodotto scorie difficili da smaltire (debito pubblico, disequilibri previdenziali, dirigenza mediocre). Il mercato del lavoro attuale, inoltre, è solo nominale poiché il 40 per cento delle occasioni lavorative in realtà non transita neppure sul mercato in quanto frutto di intermediazione informale (network personali). Ciò inibisce gli strumenti di emancipazione sociale (in primis l’istruzione) e genera inefficienze tanto maggiori quanto più sono rilevanti i posti dati per segnalazione. Infatti, al costo della retribuzione (o pensione) va aggiunto il ben più elevato costo opportunità di non avere i migliori nelle posizioni più importanti. Il Paese si sta sempre più polarizzando tra chi ha rendite d’appartenenza (casa, lavoro, reti, rappresentanza, eccetera) e chi no, e ciò genera tensioni sociali crescenti, generalmente inversamente proporzionali alla mobilità sociale. Ma sarà un caso che i fenomeni di deterioramento dell’occupazione siano così concentrati sui più giovani? Pensate a due problemi recenti: gli esodati e i precari/disoccupati. Due questioni che meritano risposte appropriate perché lasciano nella disperazione tanti concittadini. I primi, però, hanno smosso tutti i leader politici e sindacali, che hanno fatto affermazioni perentorie; i secondi, invece, hanno ottenuto le solite dichiarazioni d’intenti. I primi sono 100-200mila, mentre i secondi alcuni milioni. Come si spiega l’attenzione inversamente proporzionale alla rilevanza sociale del fenomeno? Gli esodati hanno sostanzialmente tra i 50 e i 65 anni, mentre i precari e disoccupati da 20 fino 40 anni. Ma c’è di più, i lavoratori esodati hanno comunque beneficiato di un patto equivoco che contraddice lo spirito di una stagione di riforme previdenziali (bipartisan, altra rarità) che vanno gradualmente (forse troppo) verso un regime contributivo (senza se e senza ma) in cui la pensione è proporzionale ai contributi versati e quindi esclude, esplicitamente, l’uso del prepensionamento per risolvere crisi aziendali (che meritano altri tipi di interventi). Invece i giovani, al centro di tutte le dichiarazioni d’intenti, non ottengono sconti.

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CHI DEVE FARE UN PASSO INDIETRO

La meccanica della democrazia, in presenza di disequilibri demografici marcati, produce distorsioni nella rappresentanza: può succedere che una parte della popolazione (trasversale) risulti a lungo predominante, così come le relative istanze. Qualcosa di simile si è realizzato in Italia negli ultimi anni (tabella 1). L’individuo mediano (interprete della società) ha 42 anni mentre l’elettore mediano (il riferimento politico) ben 47, ovvero ci sono almeno cinque anni di gap (con tendenza crescente), di differenze nelle priorità e nelle soluzioni.

Tabella 1  –  Popolazione e individuo mediano

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Fonte: dati Istat

Non si intende in alcun modo mettere i giovani contro i vecchi, piuttosto – fatti salvi i poveri, di ieri come di oggi – si suggerisce che i vecchi che hanno avuto troppo diano qualcosa ai giovani che hanno avuto troppo poco. Sia solo chiaro che si è scelto di spendere i soldi pubblici in un modo, piuttosto che in un altro. I diritti si confondono con i privilegi, se non riguardano tutti e l’idea del tempo come una franchigia è immonda. Inoltre, si dice che l’esempio sia il modo migliore per educare, allora chi ha fatto carriera per scatti di anzianità e buone amicizie non è credibile quando sostiene la meritocrazia (altrui). Stupisce sempre che chi ha commesso molti sbagli sia prodigo di consigli. Generalizzare non è mai opportuno, ma serve a destare dal sonno la ragione, perché qualcosa non quadra. Infatti, sistematicamente, i baby boomers hanno difeso i propri interessi ogni volta che c’erano da sostenere costi o contenere benefici, in Parlamento come in azienda. La Old Boys Net – come la chiamava Alberto Ronchey – ha lasciato spesso il conto da pagare. Questa è solo l’ennesima manifestazione del suo istinto di conservazione. Ma la beffa non si limita a non affrontare i problemi: si introduce il divieto postumo, ovvero si impedisce l’abuso a chi non lo ha fatto, anziché punire chi l’ha già commesso. Hanno fatto concorsi farsa, hanno fatto carriera per anzianità, si sono arresi all’evasione fiscale e all’abusivismo edilizio, alle raccomandazioni e alla corruzione, hanno depredato e svilito le istituzioni, portando il Paese al dissesto. Come si è intervenuto? Impedendo a chi è venuto dopo di continuare. (3) È come vietare i dolci al figlio del diabetico. Hanno sbagliato, sapendo di sbagliare. Tre indizi fanno una prova. Il primo: almeno dal 1997 – Commissione Onofri – erano note le dimensioni del dissesto finanziario-demografico-previdenziale. Si sono persi quindici anni in cui si poteva diluire e ripartire in maniera più equa l’onere del risanamento e iniziare quella fase di riconversione delle istituzioni per un nuovo mondo del lavoro che sarebbe presto arrivato. Il secondo: si dice che per far quadrare i conti del sistema pensionistico sia sufficiente allungare la permanenza al lavoro delle persone. Si rischia che la toppa sia peggiore del bucocioè che gli occupati anziani facciano cadere la produttività e la crescita del sistema. (4) Si poteva scegliere di agire su entrambi i lembi della coperta: accorciando i tempi di ingresso e allungando un po’ la permanenza degli anziani. Infine, il terzo indizio, è una altra fuga dalle responsabilità: lo scambio politico-sindacale tra difesa del sistema occupazionale degli insider e un sistema assai deregolato per gli outsider, rinviando una profonda trasformazione del lavoro. Ma prima o poi il giochino finisce. E allora sono dolori, perché quando la precarietà ti arriva addosso ha la forza di un fiume in piena. Lo sanno bene quelli che vi sono più coinvolti, che restano senza appigli. Quando tracimerà in tutte le classi (d’età e sociali) serviranno radici robuste (un tessuto economico sano e strumenti di welfare adeguati) per evitare di essere travolti. La prevenzione qui, come in molti ambiti nel nostro paese, è un agire più opportuno (anche in termini di costi) del correre in soccorso delle vittime, esondati o esodati che siano. I processi di disboscamento dei diritti accelerano il processo di erosione dell’intero tessuto sociale. Le politiche conservatrici e di segmentazione, tese a difendere interessi particolari, riducono per tutti gli scambi e le opportunità. Diceva san Paolo “chi è in piedi stia attento a non cadere”. Indebolire il sistema – costituito da tutti – vuol dire indebolire anche le proprie prerogative: il valore del proprio lavoro non viene riconosciuto e il patrimonio nominale diventa inesigibile. In più, se far fortuna è aleatorio, cioè dipende da dove o quando sei nato e non dal merito e dall’impegno, allora la diseguaglianza viene percepita come una ingiustizia: un tarlo che alimenta il disagio e il dissenso sociale. Si è invertito tutto: ieri con il lavoro creavi ricchezza, oggi con la ricchezza crei lavoro. Al contrario delle più romantiche rivendicazioni del passato, questa volta, per i giovani la riforma del sistema previdenziale in un’ottica “contributiva pura” rende implicito un riassetto del mercato del lavoro in quanto solo un buon lavoro (e quindi buoni contributi) porterà a una buona pensione. Livelli alti di precarietà e discontinuità, uniti alla bassa partecipazione e alla situazione finanziaria, non rendono sostenibile il sistema nel lungo periodo a meno di non accettare povertà diffusa. È algebra, non ideologia. Le generazioni sono legate da vincoli di reciprocità “etica e finanziaria”; ma quando si parla di solidarietà intergenerazionale, si dà per scontato il senso dei “flussi”. La redistribuzione “degli oneri e degli onori”, pertanto, deve essere parte essenziale del processo di rigenerazione del paese. Chi ha avuto successo con il lavoro dovrebbe comprendere il medesimo desiderio di chi è venuto dopo e si trova impossibilitato a ottenere un’analoga affermazione. Purtroppo, le quinte colonne abbondano: è pieno di giovani che, anziché per rivendicazioni collettive, s’impegnano – colpevolmente – solo per riconoscimenti individuali. Quindi, dopo la fase emergenziale, serve una stagione (ri)costituente per superare la cultura del non cadere è già un passo avanti. Serve nuovo slancio: una volta costruivamo cattedrali, ora non riusciamo a mantenerle. C’è bisogno di idee, cultura, etica e un po’ di coraggio per far accomodare un po’ più indietro chi è stato molte stagioni in prima fila. Una volta si diceva che i veri signori cedono il posto. Spontaneamente.

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(1) I dati e i temi illustrati sono trattati nel volume “Indagine Plus – Il mondo del lavoro tra forma e sostanza- Terza annualità”, a cura di E. Mandrone e D. Radicchia Isfol, Roma, 2012, disponibile su http://bw5.cilea.it/bw5ne2/opac.aspx?WEB=ISFL&IDS=18957
(2) Per questi dati si veda, rispettivamente, http://www.istat.it/it/lavoro ed E. Mandrone e M. Marocco “La variante italiana della flessibilità” http://bw5.cilea.it/bw5ne2/opac.aspx?WEB=ISFL&IDS=18958
(3) Si pensi al blocco delle assunzioni nella Pa: anziché far uscire quelli cattivi che già c’erano, hanno impedito ai bravi di entrare.
(4) La questione è trattata in Il fattore anziani al lavoro di C. Mazzaferro e M. Morciano.

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