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Per chi vale il contratto

L’efficacia generalizzata al contratto collettivo l’hanno attribuita i giudici, facendo prevalere l’articolo 36 della Costituzione. I problemi nascono se uno dei sindacati maggiori non firma l’accordo. Ma anche quando i firmatari sono rappresentativi solo di una parte dei lavoratori, e dunque non c’è alcuna garanzia che siano difesi gli interessi degli altri lavoratori, o degli irregolari, o dei disoccupati. Tra le possibili alternative alla situazione attuale, c’è anche l’idea di abbandonare il contratto erga omnes a favore del minimum wage.

Nei giorni scorsi a Milano, al convegno sulla “rappresentanza del lavoro” promosso dall’Associazione Italiana per gli studi sulle relazioni industriali, è emersa una domanda assai inquietante per molti cultori della materia, oltre che per molti dirigenti sindacali e rappresentanti delle associazioni imprenditoriali: e se abbandonassimo definitivamente l’idea del contratto collettivo erga omnes, ovvero del contratto che si applica a tutti gli appartenenti alla categoria e su tutto il territorio nazionale?

Per esempio, a Melfi le cose sarebbero andate peggio o meglio se, invece che applicarsi passivamente gli standard minimi fissati da un contratto collettivo nazionale, le condizioni di lavoro fossero state negoziate di anno in anno soltanto sul piano aziendale? E intorno a Melfi, se non si fosse applicato inderogabilmente quello standard minimo, come sarebbero andate le cose in generale? E come sarebbero andate ai lavoratori i particolare? Ancora più in particolare, come sarebbero andate alla parte più povera dei lavoratori, cioè agli irregolari, ai disoccupati, agli esclusi?

Due articoli della Costituzione

A norma dell’articolo 39 della Costituzione, il contratto collettivo nazionale, per acquisire efficacia erga omnes, dovrebbe essere stipulato da una rappresentanza sindacale nazionale unitaria dei lavoratori. Poiché, però, questa non è mai stata istituita, il contratto avrebbe dovuto applicarsi soltanto agli imprenditori e ai lavoratori iscritti alle associazioni sindacali stipulanti, oppure a quelli che avessero altrimenti aderito individualmente al contratto stesso.

Sta di fatto, invece, che l’efficacia generalizzata al contratto collettivo l’hanno attribuita i giudici, facendo prevalere sull’articolo 39 della Costituzione il 36: quest’ultimo attribuisce al lavoratore il diritto alla “giusta retribuzione”, e il giudice, per individuarla, fa riferimento al contratto collettivo anche se il lavoratore o l’imprenditore non sono iscritti alle associazioni stipulanti. A questo orientamento dei giudici si è poi aggiunta la legge, che penalizza fortemente sul piano della contribuzione previdenziale e in vari altri modi l’impresa che non applichi il contratto nazionale stipulato dai “sindacati maggiormente rappresentativi”.

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In questa situazione, un problema si pone quando i sindacati maggiori litigano tra di loro, come è accaduto negli ultimi anni nel settore metalmeccanico, dove il contratto nazionale è stato stipulato soltanto da Fim-Cisl e Uilm e non dalla Fiom-Cgil, che nel settore è largamente maggioritaria.

Ma un problema si pone anche quando, come accade quasi sempre nei settori industriale e terziario, i sindacati che stipulano il contratto nazionale unitariamente sono costituiti per oltre il 90 per cento da lavoratori regolari delle medie e grandi imprese del Centro-Nord e sono invece scarsamente rappresentativi dei lavoratori delle piccole imprese, degli irregolari e dei disoccupati del Sud: chi garantisce che nelle scelte rivendicative e negoziali di quei sindacati gli interessi di queste categorie di lavoratori siano tenuti nel debito conto? Ovviamente, nulla consente di escludere che Cgil, Cisl e Uil sappiano mediare equamente tra gli interessi degli uni e degli altri; ma chi garantisce che lo facciano davvero e in modo corretto, dal momento che la rappresentanza è così squilibrata?

Quest’ultimo problema qualcuno osserva non sarebbe risolto neppure da una legge che prevedesse un meccanismo rigoroso di verifica della rappresentatività del sindacato nei luoghi di lavoro e attribuisse il potere di stipulare il contratto collettivo con efficacia erga omnes alla sola associazione o coalizione sindacale che risulti godere del consenso maggioritario: quel meccanismo, infatti, non potrà mai consentire una verifica capillare dei consensi nella maggior parte delle aziende di piccole o piccolissime dimensioni; e comunque dalla verifica saranno sempre esclusi gli irregolari e i disoccupati, che costituiscono insieme almeno un quarto della forza-lavoro italiana. Per non parlare dei “disoccupati scoraggiati”, che a cercare un lavoro non provano neppure e non sono dunque censiti come disoccupati: diversi milioni anche questi.

Alternative possibili

Questi essendo i termini del problema, qualche giurista incomincia a chiedersi se non sia costituzionalmente scorretta l’estensione erga omnes dell’efficacia dei contratti collettivi nazionali che i giudici operano di fatto, facendo leva sull’articolo 36 e dimenticando il 39.

Qualche sociologo osserva che quell’estensione erga omnes corrisponde a un forte interesse dell’associazione imprenditoriale firmataria del contratto, per la quale è rovinoso che le imprese non associate possano applicare ai propri dipendenti standard di trattamento inferiori. Ma non corrisponde altrettanto a un interesse dei sindacati stipulanti, poiché consente ai lavoratori free rider di godere della protezione del contratto senza la necessità di iscriversi.

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Molti economisti, infine, sostengono da tempo che per le regioni del Sud, dove oltretutto il costo della vita è inferiore rispetto al Centro-Nord, il vincolo costituito da un contratto collettivo sostanzialmente stipulato dai rappresentanti dei lavoratori del Centro-Nord può costituire un ostacolo non da poco sulla via dello sviluppo economico e della piena occupazione.

Quali alternative al regime attuale (di costituzionalità assai dubbia), ma anche al regime delineato dall’articolo 39 della Costituzione (nato da una concezione del sistema di relazioni sindacali in larga parte superato)? C’è chi suggerisce di assegnare una funzione di filtro al Governo, cui competerebbe di attribuire l’efficacia erga omnes al contratto su richiesta congiunta delle parti stipulanti, previo controllo della sua compatibilità con gli interessi di chi al tavolo delle trattative non era adeguatamente rappresentato. Altri propongono di abbandonare l’idea stessa di una “giusta retribuzione” minima inderogabile unica nazionale, in modo che il contratto collettivo di categoria possa essere liberamente derogato dalla contrattazione collettiva di livello inferiore.

Ma c’è anche chi suggerisce, come Boeri e Perotti, di abbandonare del tutto l’idea del contratto erga omnes, optando per la tecnica del minimum wage orario stabilito in sede legislativa o amministrativa, come standard minimo assoluto inderogabile applicabile a qualsiasi forma di lavoro (anche autonomo), eventualmente differenziato non per settore produttivo, ma secondo criteri di geografia economica, o di altro genere, corrispondenti alla politica del lavoro del Governo. Così si eliminerebbe il sovraccarico delle funzioni che oggi il contratto collettivo nazionale svolge in Italia: un po’ contratto di diritto privato, un po’ legge dello Stato scritta da privati. “A ciascuno il suo mestiere”, come diceva Sergio Cofferati: e dunque: al sindacato quello di contrattare a nome dei suoi rappresentati e rispondendone a questi, al Parlamento e al Governo di emanare norme con efficacia generale, rispondendone alla generalità degli elettori.

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Fughe dalla verità

  1. Armando Tursi

    Pietro Ichino ha lucidamente riassunto gli approcci possibili al problema della rappresentanza sindacale in una situazione di crescente frammentazione degli interessi afferenti al mondo del lavoro, di pluralismo sindacale competitivo e di disaffezione sindacale delle coorti occupazionali più giovani, quale quella attuale.
    Ne aggiungerei una terza, che riprende alcune delle ipotesi avanzate da Ichino, alla luce di una riflessione che ho già sottoposto ai lettori de LaVoce.info in un mio precedente contributo (“Il sindacato nella riforma del lavoro, del 3.3.2004”). Vi sono indotto anche dalla lettura di un articolo pubblicato sul CorrierEconomia (allegato al Corriere del Mezzogiorno: “Riformare il sindacato ? Maroni sbaglia”) dello scorso 10 maggio, dove il senso del mio intervento su laVoce. Info viene equivocato (senza peraltro citare la fonte).
    Se è condivisibile l’idea che sia opportuno distinguere le ipotesi in cui il sindacato esercita poteri sostanzialmente delegatigli dal legislatore attraverso la tecnica del rinvio, dalle ipotesi in cui esso esercita la propria autonomia negoziale, se ne dovrebbe trarre la conclusione che il problema della selezione dei soggetti negoziali (e dell’estensione erga onnes degli effetti del contratto) si pone, con carattere di necessità istituzionale, solo nel primo caso (rinvii legali).
    E’ solo il secondo caso – quello del sindacato che contratta nell’esercizio della propria autonomia negoziale – che potrebbe restare affidato, senza drammi (quali drammi ha provocato la firma separata del contratto dei metalmeccanici ?), a quello che i giuristi chiamano il “diritto comune”, e che, in sostanza, può essere riassunto nella formula “il sindacato contratta per gli organizzati”. Ben venga, aggiungo, un potere di estensione erga omnes affidato al Governo, da esercitarsi caso per caso, su istanza dei sindacati (anche datoriali) firmatari.
    La legge, invece, stabilisce la base comune di diritti valida per tutti (incluso, probabilmente, un salario minimo intercategoriale). Dice bene, dunque, Ichino (citando Cofferati): “a ciascuno il suo mestiere” !

    Armando Tursi

  2. roberto

    Incredibile come l’ideologia liberista del prof. Ichino, storpi la realta dei fatti, il caso melfi non è dovuto al modello contrattuale , bensi’ alla disgregazione e frantumazione di quei valori di coesione sociale e nazionale, che uteriormente si vorrebbero accentuare con l’introduzione delle gabbie salariali al sud, di cui non si ha neanche il coraggio di chiamarle con il loro vero nome, pur di imporre un modello di discriminazione sociale e di disuguaglianze si avanzano i pretesti piu’ assurdi, con un tentativo di attuare una lotta tra poveri, disoccupati contro lavoratori, i disoccupati prof ichino, non si difendono smantellando i diritti e le retribuzioni dei lavoratori ma dubito che lei nutra una reale preocupazione verso i disoccupati..

    • La redazione

      Caro Roberto,
      a me sembra che la contrattazione decentrata dei livelli retributivi sia l’esatto contrario di una “gabbia salariale”. Il termine “gabbie salariali” viene usato, in genere, da chi vuole chiudere la questione senza discuterne in modo libero e non ideologico.
      D’altra parte, se le regole praticate per oltre mezzo secolo hanno prodotto, nel nostro Mezzogiorno, i risultati che sono sotto gli occhi di tutti, sarà pur lecito dubitare che queste regole siano davvero efficaci per la protezione della parte più svantaggiata della forza-lavoro italiana; e discutere di possibili regole diverse.
      Quella del minimum wage non mi sembra possa definirsi come una scelta liberista. Nel mio articolo, comunque, non ho preso partito per questa soluzione piuttosto che per un’altra: ho solo proposto di discutere senza preclusioni di possibili regole diverse da quelle attuali. Cioè di compiere un esercizio a cui il movimento sindacale italiano è troppo poco abituato: forse perché troppo sovente si usano espedienti lessicali come quello delle “gabbie salariali” per bloccare la riflessione sul nascere.
      Pietro Ichino

  3. Riccardo Mariani

    Vorrei fare un’ osservazione in merito alla risposta che il Prof . Ichino ha fornito al lettore Roberto. Tutto sommato ritengo fondate una parte delle “accuse” avanzate dal lettore visto che scorgo una chiara parentela tra il concetto di “gabbia salariale” e la pratica della contrattazione decentrata. Inoltre l’ opzione per il minimum wage non sarà una scelta liberista ma lo diventa quando, di fatto, è un modo per abbassare quello che oggi è il salario minimo ufficiale ovvero quello dei contratti collettivi. Personalmente concordo con entrambe le misure e vedo bene come possano favorire i soggetti più svantaggiati della nostra società. Quello che mi preoccupa è piuttosto il riflesso condizionato con cui ci si deve difendere dall’ accusa di essere liberali in economia nonchè del grande peso che si intende dare a quelli che vengono definiti “espedienti lessicali” quasi che per riconvertire i nostri sindacati sia più utile il linguista dell’ economista. In questa sede, che si vuole indipendente dalla politica, tali preoccupazioni potrebbero essere trascurate senza danno e con profitto per (la già apprezzabile) chiarezza.
    Cordiali saluti.

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