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Giovani e donne in crescita di occupazione. Precaria

Ad agosto la disoccupazione è scesa all’11,2 per cento e l’occupazione è cresciuta, trainata da donne e giovani. Di nuovo ad aumentare sono i contratti precari, mentre l’indeterminato registra un lieve calo. Ambiguo rimane poi il ruolo giocato dal lavoro autonomo.

Giovani e donne sotto il sole d’agosto

Nel mese di agosto l’economia italiana ha creato 36mila nuovi posti di lavoro, con un ritmo simile a quello registratosi nei mesi precedenti. Il numero di occupati ha toccato così quota 23.123.000, portandosi molto vicino al valore massimo raggiunto nell’aprile 2008.

Particolarmente positivo è stato l’andamento dell’occupazione femminile (+47mila) e giovanile (+57mila tra gli under34); deludente invece quello maschile (-11mila) e quello della fascia di età 35-49 anni (-37mila).

Bene anche il tasso di disoccupazione complessivo, sceso di 0,2 punti percentuali e assestatosi all’11,2 per cento. Se la tendenza dei mesi precedenti era stata quella di un simultaneo aumento degli occupati e diminuzione degli inattivi – che lasciava così il tasso di disoccupazione pressoché invariato, nonostante i miglioramenti del mercato – nell’ultimo mese la contropartita dei nuovi occupati è stata soprattutto una diminuzione dei disoccupati, con un dato sugli inattivi rimasto quasi invariato.

Una crescita precaria?

Nei dati estivi, così come nei periodi precedenti, a trainare la ripresa è stato un aumento dei contratti a termine (+45mila), contro una diminuzione di quelli a tempo indeterminato (-2mila). Ma perché l’economia crea principalmente posti di lavoro precari? E, soprattutto, occorre preoccuparsene?

La prima riflessione riguarda il contesto generale: nel complesso, dalla fine del super-sgravio del 2015 l’economia italiana ha creato quasi mezzo milione di posti di lavoro (489mila), ricolmando così il divario occupazionale che ci trascinavamo dall’inizio della crisi (figura 1). Dopo il boom dell’indeterminato del 2015, è stato però il contratto a termine a fare la parte del leone.

Fonte: Istat

A una prima analisi emergono principalmente tre fattori con i quali è possibile analizzare il fenomeno: (i) gli effetti degli sgravi, (ii) la deregolamentazione dei contratti a termine e (iii) la fisiologia del ciclo economico.

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Lo schema decontributivo introdotto dal Jobs act, infatti, ha verosimilmente portato le aziende ad anticipare al 2015 le assunzioni con questo tipo di contratto, così da usufruire dello sgravio. Le imprese, in questo modo, si sono dimostrate particolarmente sensibili ad una riduzione del cuneo fiscale, un intervento che sarebbe dunque da riconsiderare in futuro se l’obiettivo dovesse rimanere quello di ridurre il precariato.

Inoltre vanno considerati gli effetti del decreto Poletti del 2014, che ha fortemente deregolamentato il contratto a termine, proprio poco prima del Jobs act, che puntava a dare centralità al contratto a tempo indeterminato.

Occorre infine soffermarsi sulle forze che spontaneamente agiscono nel mercato durante il ciclo economico. Così come i contratti a tempo determinato sono i primi a ridursi in fasi recessive, è lecito aspettarsi che siano anche quelli che guidano la ripresa: in un contesto di incertezza sulla domanda, le imprese non sono infatti incentivate ad assumere subito in modo stabile. Se analizziamo il tasso di crescita reale trimestrale e la variazione rispetto al trimestre precedente del tasso di incidenza dei contratti a termine sul totale (figura 2), la presenza di una correlazione tra ciclo economico e incidenza del contratto a tempo determinato emerge in maniera piuttosto chiara.

Dati trimestrali, medie mobili su 4 trimestri. Fonte: Eurostat, Ocse

Benché in crescita, la percentuale di lavoratori precari nel nostro paese rimane comunque perfettamente in linea con la media europea (figura 3). Il dato nasconde però un numero di lavoratori autonomi che in Italia, negli ultimi trimestri, è risultato maggiore di circa 10 punti percentuali rispetto alla media europea (figura 4), con divari da paesi come Francia o Germania ancor più importanti. In gran parte dovuti ad una ridotta dimensione delle imprese italiane, è lecito aspettarsi che dietro a questi numeri si celino anche persone occupate formalmente come autonome ma con posizioni lavorative che risultano pienamente assimilabili a quelle del lavoro dipendente, precario.

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Fonte: Eurostat

Fonte: Eurostat

Se i dati sembrano almeno in parte fisiologici, e pertanto non allarmanti, occorre comunque vegliare sul ruolo in alcuni casi ambiguo del lavoro autonomo e sul ritorno del precariato, programmando possibili interventi sulla disciplina del contratto a termine. Per il momento, rimane però delusa la speranza che il contratto unico a tutele crescenti potesse agire come scudo contro un naturale aumento del lavoro precario.

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  1. Marcomassimo

    La modesta ripresa italiana si basa sull’export e l’export si basa anche sulla svalutazione salariale dato che la svalutazione della moneta è impossibile; i lavoratori autonomi accusano una crisi di fatturato che perdura perchè i consumi interni non salgono più di tanto; tanti professionisti laureati si aggrappano alla speranza di una supplenza scolastica per arrotondare e sono sicuramente una riserva di flessibilità del lavoro; l’italia si conferma per quello che è, un paese con sacche di inefficienza notevoli, con profondi contrasti e disarmonie ma pure con capacità di adattamento e di sofferenza a volte stupefacenti anche per gli osservatori esterni; resta in sospeso quanto possa essere sostenibile e durare un modello di sviluppo ad “estrazione” di valore inteso come puro sfruttamento sia in Italia che all’estero, che non può non generare malessere e malcontenti di fronte ai quali solo un imbecille può non stupirsi; e gli imbecilli sono in questa epoca articolo molto richiesto.

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