La “fase 2” potrebbe penalizzare parecchio i lavoratori migranti. Svolgono infatti mansioni che li espongono di più al rischio contagio. E contemporaneamente cresce per loro il rischio povertà e quello di perdere il diritto al permesso di soggiorno.
Il rischio contagio
La cosiddetta “fase 2” nella gestione dell’emergenza coronavirus, in cui le attività economiche riprendono con precauzioni particolari e non a pieno regime, rischia di penalizzare in modo significativo i lavoratori migranti su almeno tre fronti: quello del contagio, della povertà e della irregolarità.
Come già sottolineato su lavoce.info, i lavoratori impiegati in occupazioni che comportano interazioni fisiche tra persone saranno probabilmente quelli che subiranno di più le conseguenze negative dello shock coronavirus, sia perché queste attività saranno verosimilmente le ultime a ripartire, sia perché è probabile che per adottare le adeguate misure di prevenzione del contagio sarà necessario un ridimensionamento della forza lavoro. Senza contare che anche nel caso “più favorevole” di mantenimento del posto e ripresa dell’attività produttiva, questi lavori hanno insito un rischio per la salute maggiore di quelli che non prevedono interazioni con altre persone.
Tutto ciò è preoccupante dal punto di vista della disuguaglianza: sono proprio i lavoratori a più basso salario che hanno una più alta probabilità di svolgere mansioni che li espongono a contatti interpersonali (figura 1).
Figura 1 – Prossimità fisica nell’occupazione svolta per decile di reddito.
Nota: figura basata sui dati dell’indagine Icp Inapp-Istat e dei primi tre trimestri 2019 della rilevazione Istat delle forze di lavoro.
Tra questi, i lavoratori migranti rischiano di subire in maniera sproporzionata le conseguenze negative delle restrizioni poiché più esposti dei nativi ai contatti interpersonali sul posto di lavoro (figura 2), anche a parità di posizione nella distribuzione del reddito (figura 3).
Figura 2 – Prossimità fisica, confronto migranti-nativi.
Figura 3 – Prossimità fisica e reddito, confronto migranti-nativi
Il rischio povertà
I lavoratori immigrati, più concentrati rispetto ai nativi in occupazione precarie e a termine, hanno una maggiore probabilità di risentire delle turbolenze del mercato del lavoro, come ci ha insegnato la recente crisi economica (si veda qui).
Infatti, la percentuale di migranti con contratti di lavoro a tempo indeterminato è inferiore a quella dei nativi (78contro 84 per cento). E sebbene gli immigrati svolgano nel mercato del lavoro italiano mansioni cruciali per la tenuta di alcuni settori, la percentuale di occupati in settori “non essenziali” alla luce del Dpcm è – soprattutto tra i maschi – più alta per i migranti che per gli italiani (60 contro 48 per cento), il che suggerisce che i migranti siano stati tra i più penalizzati dalle chiusure forzate del lockdown.
Inoltre, rispetto ai nativi, i lavoratori stranieri hanno una minore possibilità di accedere a misure di supporto del reddito, cosicché aumenta il rischio che cadano in povertà grave in breve tempo. Da un lato, infatti, sono sovra-rappresentati nel lavoro irregolare e in settori non coperti da cassa integrazione e Naspi, quali ad esempio i tirocini extracurricolari. Dall’altro, hanno potuto beneficiare in misura minore degli interventi previsti per consentire alle aziende di affrontare la riduzione o la sospensione delle attività senza procedere a licenziamenti. Gli interventi coprono i lavoratori a tempo determinato solo fino alla scadenza del contratto, mentre non sono state ancora definite le misure di sostegno per i lavoratori domestici che non hanno potuto lavorare nel periodo del lockdown e, più in generale, per tutti coloro che non risultavano occupati (regolarmente) alla data del 24 febbraio 2020.
Il rischio “irregolarità”
Va poi aggiunto un ulteriore fattore di precarietà. Sfuggono infatti alle nostre elaborazioni i migranti irregolarmente residenti in Italia: secondo le stime, sono intorno alle 600 mila unità e rappresentano una fascia di lavoratori ancora più esposti agli shock economici. A loro potrebbe essere indirizzato il provvedimento di regolarizzazione di cui si parla in questi giorni, e che però potrebbe essere solo parziale, benché comunque positivo per l’economia. Senza contare che il decreto legge 18/2020 ha sì prorogato la validità dei permessi in scadenza, ma solo fino al 15 giugno 2020. Trascorso questo termine, salvo interventi correttivi, chi ha perso il lavoro non potrà rinnovare il permesso di soggiorno scaduto, con conseguente caduta nell’irregolarità e nella emarginazione sociale ed economica. Un rischio che i decisori politici farebbero bene a tenere presente per non vedere rapidamente risalire il numero di migranti irregolari.
L’analisi in questo articolo è stata prodotta nell’ambito dell’Osservatorio sulle migrazioni di Collegio Carlo Alberto e Centro Studi Luca d’Agliano.
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Fabrizio Razzo
Spendiamo direttamente diversi miliardi all’anno per il business dell’immigrazione, almeno quelli che pagano le tasse, per non parlare del welfare accessibile a tutti. E perseveriamo questo gioco perverso come dimostrano i continui sbarchi di questi giorni. Non è una scoperta che gli immigrati svolgano prevalentemente lavori marginali a condizioni minimali. Scacciando progressivamente gli autoctoni. Ma peggio in prospettiva avremo così situazioni sociali fuori controllo (S, B, F, NL, UK,…).
Giampiero
se il rischio e’ quello di avere migranti irregolari la prima cosa e’ impedire che arrivino dei finti naufraghi. La seconda e’ quella di ripristinare la legge. Gli illegali vanno puniti non premiati.