Disoccupazione diffusa e imprese che non trovano lavoratori. È un fenomeno che in Italia si manifesta da tempo, forse determinato in parte da un salto di qualità dell’industria, che ora cerca competenze più alte. Uno sguardo ai dati definitivi per il terzo trimestre, usciti il 14 dicembre.
Posti di lavoro che rimangono vacanti
In un paese con 2,3 milioni di disoccupati e 13,5 milioni di inattivi è mai possibile che un’impresa che cerca un lavoratore non lo trovi? E c’è qualche legame con l’aumento delle dimissioni che si registra anche nel nostro paese? La risposta è sì a entrambe le domande.
Partiamo dalla prima. Innanzitutto, quanti sono davvero i posti di lavoro che le imprese italiane non riescono a riempire? Sui giornali circolano vari numeri, non sempre coerenti e confrontabili tra loro (su questo sito se n’era già occupato Francesco Giubileo). Da una parte abbiamo i dati Istat sui posti vacanti, che possono essere considerati come una sorta di margine inferiore, i posti effettivamente pubblicati e che rimangono aperti. Lo stesso Istat produce, poi, stime sulle imprese manifatturiere che a causa di scarsità della manodopera non riescono a produrre quanto vorrebbero. Infine, il Bollettino Excelsior realizzato da Unioncamere e Anpal che registra le intenzioni di assunzione da parte delle imprese e le difficoltà previste nell’individuazione di profili idonei. I due ultimi dati riflettono, quindi, la percezione delle imprese e, al netto di una possibile sovrastima da parte dei datori di lavoro, possono essere interpretati come un margine superiore, che, oltre ai posti che effettivamente rimangono scoperti, include anche quelle posizioni che le imprese nemmeno aprono perché “scoraggiate”.
Se prendiamo le stime più conservative, cioè il tasso di posti vacanti Istat, che registra le ricerche di personale formalmente iniziate e non ancora concluse, vediamo effettivamente un aumento nel secondo trimestre confermato, poi, nel terzo trimestre (in realtà, il tasso di posti vacanti riflette i posti scoperti nell’ultimo giorno del trimestre, quindi 30 giugno e 30 settembre). Un tasso di posti vacanti del 2 per cento corrisponde a circa 450 mila posti aperti, un livello non così elevato se comparato a quello di altri paesi, ma il più alto dal 2016, quando inizia la serie che copre il totale delle imprese (figura 1a). A livello settoriale, gli aumenti più rilevanti si sono registrati nelle attività professionali, scientifiche e tecniche le cui posizioni lavorative sono di solito ad alto tasso di capitale umano (per esempio di professionisti nell’ambito legale, contabile, della ricerca e sviluppo o del marketing) o il settore del noleggio, agenzie viaggio e servizi alle imprese. Meno nei servizi di alloggio e ristorazione che, invece, erano al centro della discussione estiva (figura 1b). Per quest’ultimo settore si è registrato un aumento dei posti vacanti negli ultimi mesi, ma il livello è ancora al di sotto di quello pre-crisi. Sono soprattutto le piccole imprese ad aver difficoltà a trovare manodopera: il tasso di posti vacanti per quelle con 10 dipendenti e più scende all’1,5 per cento.
Il fenomeno delle dimissioni
C’è un legame tra posti vacanti e dimissioni? È ragionevole pensare che maggiori opportunità lavorative rendano le persone più sicure nel lasciare il proprio posto e, viceversa, che di fronte a un aumento delle dimissioni, le imprese debbano cercare un sostituto.
Nella figura 2a vediamo una correlazione positiva tra posti vacanti e dimissioni, la stessa che si può osservare in altri paesi (per esempio, Regno Unito o Stati Uniti), e il dato per il secondo trimestre non sembra un valore anomalo (non si discosta dalla relazione degli anni precedenti). Il tasso di dimissioni non appare anomalo nemmeno se confrontato con quello di disoccupazione (dove la relazione, invece, è negativa, figura 2b). La “Great Resignation” italiana, l’aumento di dimissioni, sembra quindi semplicemente il riflesso di un mercato più dinamico (a cui non siamo abituati), insieme a un po’ di recupero sulle dimissioni non date nel 2020, come è stato mostrato in un altro contributo su questo sito. Non appare quindi come una fase di forte ripensamento del valore del lavoro e delle priorità di vita.
Le ragioni delle difficoltà delle imprese
Posti vacanti e dimissioni in aumento possono essere interpretati come due facce di una fase di forte rimbalzo (o crescita) dopo una grave caduta, con conseguente chiusura e riapertura di posti. Ma, se allarghiamo lo sguardo, ciò che preoccupa è l’aumento “strutturale” della difficoltà delle imprese a trovare manodopera adeguata. In qualunque paese è normale che ci siano posti vacanti anche se ci sono persone disposte a lavorare: quello del lavoro non è un mercato perfetto dove la domanda incontra immediatamente l’offerta, ma ci sono “frizioni” che rallentano o addirittura impediscono il buon esito della ricerca.
In generale, è più facile per le imprese trovare personale quando il numero di persone che cerca lavoro è elevato, mentre è più difficile quando la disoccupazione è più bassa. La relazione (inversa) tra tasso di posti vacanti e tasso di disoccupazione è la cosiddetta curva di Beveridge, che dà una misura dell’efficienza del mercato del lavoro: più la curva si sposta in basso a sinistra, cioè bassa disoccupazione e pochi posti vacanti, più il mercato è efficiente; invece, più la curva si sposta in alto a destra, cioè la disoccupazione sale e i posti vacanti pure, meno il mercato del lavoro è efficiente.
Osservando la curva di Beveridge per l’Italia (in questo caso, abbiamo preso il tasso di posti vacanti calcolato solo sulle imprese con più di 10 dipendenti, che è disponibile lungo un orizzonte temporale più lungo), si nota come la nostra economia abbia perso efficienza nel far incontrare domanda e offerta già da diversi anni (ben prima che venisse introdotto il reddito di cittadinanza, per dire). Rispetto al 2010-2013 (etichette verdi), dal 2014-2015 (etichette gialle nella figura 3), a parità di tasso di disoccupazione, il tasso di posti vacanti è aumentato. Non siamo in grado al momento di individuare le cause di questo salto. Un’ipotesi possibile è che la crisi finanziaria e dei debiti sovrani, la concorrenza internazionale e incentivi come Industria 4.0 abbiano modificato in parte la struttura industriale e quindi la domanda di competenze da parte delle imprese italiane, cui, però, non ha fatto seguito l’offerta.
Certo è che se l’“inefficienza” nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro fosse destinata a perdurare (e magari a crescere con la transizione verde e digitale), la realizzazione degli ambiziosi piani di investimento del Piano nazionale di ripresa e resilienza sarebbe a rischio.
Figura 3 – Curva di Beveridge per l’Italia, primo trimestre 2010 – terzo trimestre 2021
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Arsenio Stabile
Gentili autori, nel vostro lavoro trovo piuttosto anomalo il fatto che voi non consideriate esplicitamente le basse retribuzioni e le peggiori condizioni di lavoro (meno diritti, meno pause, meno ferie, ecc.) tra i fattori che rendono più rigida l’offerta di manodopera
Pietro Della Casa
Per approfondire l´analisi e non rimanere sempre al palo con le spiegazioni bisognerebbe probabilmente suddividere per settori, area geografica e tipo di qualifica richiesta. Presumo che si leggerebbero a quel punto storie diverse.
Renato Fioretti
Questa storia di posti vacanti perchè le imprese troverebbero difficoltà a reperire sul mercato le figure professionali va avanti da troppo tempo. Sarebbe il caso di approfondire un altro aspetto della questione che, sistematicamente, viene ignorato. In questo senso sarebbe interessante verificare, attraverso i Centri per l’impiego, quante sono, in realtà, le richieste effettuate dalle imprese. Dopo 35 anni di attività sindacale, con particolare esperienza in Legislazione del lavoro e Mercato del lavoro, ho il sospetto che – a parte l’inefficienza delle strutture pubbliche nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro – il mancato “incontro” sia dettato dal fatto che le aziende non ricorrono alle strutture pubbliche perchè ciò renderebbe un pò più difficile eludere controlli e verifiche rispetto alle reali condizioni di lavoro proposte ai potenziali dipendenti. Resta eclatante, ad esempio, la “sparata” (risalente alla scorsa estate) dell’imprenditrice Sig.ra Santanchè, la quale si diceva pronta a corrispondere ben 2 mila euro di retribuzione ai camerieri che non riusciva a trovare. Salario, questo di 2 mila euro, di gran lunga superiore a quello contrattuale. Ora, assunto che la Sig.ra Santanchè non corrisponde esattamente a una figura da “buon samaritano”, se avesse veramente voluto trovare “stagionali” disposti a lavorare alle sue dipendenze (per un salario “da favola”) le sarebbe stato sufficiente ricorrere a un qualsiasi Centro per l’impiego. Probabilmente, la sua era “una fregnaccia” perchè – come a tutti noto – i salari offerti agli stagionali (e non solo a loro) sono nettamente inferiori a quelli offerti dalla Santanchè che, come tanti suoi colleghi imprenditori, rifugge dai Centri per l’impiego e preferisce trattative private “al ribasso”. Proprio quello già denunciato nel commento del lettore Arsenio Stabile.
Antonella Stirati
Lo spostamento della curva di Beveredge potrebbe essere legato alla ctescente polarizzazione tra Nord e Sud? Posti vacanti al Nord e disoccupati al Sud? Con inoltre la mobilità territoriale frenata da basse remunerazioni e contratti a termine
Massimiliano Grana
Domanda ed offerta per incontrarsi avrebbero bisogno, a mio parere, di sapersi adattare vicendevolmente. L’impresa italiana è capace di investire sull’esperienza al posto della qualifica accademica? Per mia personale esperienza ventennale direi che la risposta sia un sonoro no. D’altronde siamo il paese dove, una volta, si cercavano giovani con esperienza ed ora giovani residenti in zona. I siti specializzati sono pieni di offerte, ma provate a candidarvi con un indirizzo di residenza che non rientri in un determinato raggio dal posto di lavoro, il sito cancella in automatico la candidatura. Le imprese spiegano il motivo per cui una candidatura viene scartata per consentire al candidato di capire dove crescere ulteriormente o come migliorare il proprio cv se mancasse di qualcosa che il mercato valuta positivamente ma fosse stato sottostimato? Assolutamente no, quelle poche che rispondono, per non urtare la sensibilità, ci tengono a far sapere che il profilo è interessante, ma purtroppo non è allineato alla professionalità richiesta. Come se la professionalità si acquisisse solo sui libri.