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Come ridurre il cuneo fiscale

La pressione contributiva italiana è certamente alta e occorre ridurla. Ma bisogna considerare gli effetti sul montante contributivo. Per compensarli, va prolungata la durata della contribuzione aumentando l’età al pensionamento, spesso ancora troppo bassa.

Le pensioni non preoccupano gli italiani

Facendo ricorso a una procedura costituzionale “estrema” e politicamente rischiosa, il governo francese è coraggiosamente riuscito a garantire la sostenibilità del sistema pensionistico con un’impopolare riforma che, per sommi capi,

  • contrasta gli esosi privilegi di alcune categorie,
  • eleva gradualmente l’età pensionabile minima da 62 a 64 anni,
  • promuove in vario modo la continuazione dell’attività lavorativa, in particolare penalizzando chi non può vantare un’anzianità contributiva di 43 anni, ridotti a 40 al compimento di 65 anni d’età.

In Italia, dove si può andare in pensione d’anzianità a 58 anni, i sondaggi demoscopici sorprendono con la notizia che, nella graduatoria delle loro “preoccupazioni”, i cittadini hanno relegato le pensioni all’ultimo posto. È possibile che il governo voglia fare altrettanto, pago dei rattoppi con cui

  • il nodo della flessibilità è stato sciolto confermando tutte le forme di pensionamento anticipato a eccezione di ‘quota 102’ sostituita con ‘quota 103’;
  • il costo dell’atteso ritorno alla perequazione ‘per scaglioni’ è stato evitato prorogando, in termini perfino più restrittivi, la cervellotica perequazione ‘per fasce inventata dal governo Letta nel 2013.

L’insieme dei due provvedimenti produce il singolare risultato che l’erosione del potere d’acquisto delle pensioni in essere concorre a finanziare la possibilità di anticipare le nuove.

Eppure, la previdenza italiana resta un vestito d’Arlecchino le cui pezze, nel corso del tempo, sono state confusamente cucite l’una accanto, o sopra, all’altra, nella totale assenza di un disegno complessivo. La stessa riforma contributiva fu afflitta da errori gravi, che la distanziano anni luce dalle riforme nord europee ugualmente denominate. Lungi dall’emendarli, con disinvolta insipienza i governi continuano ad aggiungerne altri, l’ultimo dei quali ha che a fare col cuneo fiscale.

Chi paga i contributi?

Come nella generalità dei paesi, anche in Italia la contribuzione è formalmente distinta in una quota a carico dei lavoratori e una (maggiore) a carico dei datori di lavoro. Tuttavia, la teoria economica e l’evidenza empirica hanno dimostrato che i secondi riescono a “traslare” la loro quota sui primi sotto la forma di un’equivalente riduzione delle retribuzioni lorde.

Nella fase preparatoria della riforma Dini, balenò l’ipotesi di riconoscere tale stato di fatto includendo i contributi datoriali nella retribuzione lorda e ponendo l’intera contribuzione a carico del lavoro. Ciò avrebbe avuto il merito di certificare la finalità corrispettiva del sistema contributivo dove, infatti, si usa correttamente dire che la pensione “restituisce” i contributi a chi li ha versati.

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La “corrispettività” non è il solo obiettivo del sistema contributivo. L’altro è la “sostenibilità”. È dimostrato che la seconda segue dalla prima, cioè che l’equivalenza “microeconomica” fra la pensione complessivamente percepita da ogni individuo e i contributi complessivamente versati dal medesimo, consente l’equivalenza “macroeconomica” fra la spesa pensionistica e il gettito contributivo.

L’invenzione delle due aliquote

La coerenza non è mai stata una preoccupazione del legislatore italiano che, perfino nell’epocale occasione in cui adottava il sistema contributivo, ne contraddisse gli obiettivi escogitando la bizantina distinzione fra un’aliquota “di finanziamento”, deputata a comandare i contributi effettivi, e una “di computo” deputata a definire i contributi virtuali da conteggiare nel calcolo del montante contributivo e quindi della pensione. Naturalmente la seconda aliquota superava la prima così da generare pensioni “iper‑corrispettive”, cioè superiori ai contributi versati, che, a loro volta, avrebbero generato una spesa “insostenibile”, cioè superiore al gettito. Passarono anni prima che l’incoerenza fosse sanata e le due aliquote allineate.

L’assalto alla diligenza del gettito contributivo

La scoperta bipartisan della salvifica riduzione del cuneo “fiscale” (in realtà contributivo) sta ora determinando il ritorno al peccato originale. Infatti, il precedente governo ha riesumato la distinzione fra aliquota di finanziamento e aliquota di computo lasciando invariata la seconda al 33 per cento e tagliando di 2 punti percentuali la quota della prima a carico dei dipendenti con retribuzioni fino a 35 mila euro. L’attuale Governo ha elevato a 3 punti il taglio per le retribuzioni fino a 25 mila euro e confermato quello di 2 per le retribuzioni da 25 a 35 mila euro. Ciò che più conta, ha annunciato il traguardo, entro la legislatura, di un taglio permanente di 5 punti da estendere alle retribuzioni più alte e riservare, in parte, ai datori di lavoro. Nel lungo termine, la riserva non cambierà il costo del lavoro perché la traslazione funziona anche al contrario, cosicché gli sgravi alle imprese apriranno la strada a graduali aumenti delle retribuzioni lorde.

L’annunciata riduzione al 28 per cento dell’aliquota di finanziamento è destinata a generare un gettito contributivo che copre l’85 per cento (28/33) della spesa. I contributi mancanti saranno fiscalizzati e quindi pagati anche dai contribuenti non lavoratori, pensionati compresi. Il disegno intellettuale non è chiaro. La sola certezza è che il sistema contributivo italiano potrà meritare ancor meno il nome che porta.

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La decontribuzione “universale” si aggiunge a quelle “settoriali” di cui beneficiano le imprese operanti nelle regioni del Sud e quelle che assumono/stabilizzano under 36, donne, o percettori di reddito di cittadinanza. Tutto ciò a dispetto non solo della “filosofia contributiva”, ma anche del luogo comune che il sistema pensionistico, comunque configurato, non può essere strumento di politiche industriali o del lavoro.

Non servono bacchette magiche

È certamente vero che la pressione contributiva italiana è la più alta al mondo e che occorre ridurla. Tuttavia, gli effetti negativi sul montante contributivo, e quindi sulla pensione, non possono essere elusi con la magia dell’aliquota di computo invariata. Piuttosto, occorre compensarli prolungando la durata della contribuzione con politiche atte a stimolare l’occupazione dei giovani e delle donne, riqualificare i disoccupati, contrastare il lavoro sommerso, e, soprattutto, aumentare l’età al pensionamento che, a causa delle tante forme di anticipazione consentite, resta inferiore a 65 anni per il quasi 60 per cento delle pensioni liquidate ai dipendenti del settore privato nei primi nove mesi del 2022. L’aumento dell’età consentirebbe anche coefficienti di trasformazione più generosi.

La figura 1 mostra che i margini di manovra sono ampi. Infatti, la durata media della vita lavorativa, pari a 32 anni, impallidisce al confronto con quelle di paesi come l’Olanda (43 anni), la Svizzera (42), la Danimarca (40), il Regno Unito (39), la Germania (39), la Francia e la Spagna (36). Di particolare interesse è il confronto con i paesi scandinavi, Svezia (42) e Norvegia (41), che sono “gemelli” del nostro per avere anch’essi adottato, su basi di ben maggiore serietà, il modello contributivo.

Il grave ritardo italiano diventa clamoroso se riferito al solo genere femminile. La figura 2 suggerisce che le donne andrebbero aiutate a lavorare più a lungo e non ad andare in pensione prima.

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  1. Dell'Osso

    La natalità in Italia è in calo da diversi anni. Da alcuni anni è in calo anche il numero delle donne in età fertile. Pure da alcuni anni è iniziato il calo della proporzione, nella popolazione, delle persone in età lavorativa, e contributiva. Questa situazione, in costante e prolungato peggioramento, a fronte di una spesa pensionistica che non può in prospettiva diminuire, non solo pone il problema dell’adeguamento del bilancio dello stato e dell’ineluttabile aumento delle entrate fiscali, ma soprattutto mette in discussione la concezione stessa del nostro sistema pensionistico.
    Il nostro sistema, a differenza della maggior parte degli altri sistemi, mette a carico dello stato il completo mantenimento in età post-lavorativa delle condizioni e tenore di vita di tutti i lavoratori. Non si tratta cioè di garantire ai pensionati un minimo sufficiente per una vecchiaia decorosa, ma di restituire una rendita equivalente ai contributi versati. Non si capisce perché questo servizio debba essere fornito dallo stato, o meglio si capisce che, quando il sistema è stato gradualmente creato, nella prima metà dello scorso secolo, esistevano le condizioni demografiche, economiche e sociali che giustificavano tale impostazione.
    All’imponente aumento della popolazione pensionata (e della durata di vita), oggi in corso di stabilizzazione ma non ancora di prossima diminuzione, si è aggiunto da qualche anno il progressivo restringimento della base contributiva. Ciò ha fatto saltare (e continuerà a peggiorare) l’equilibrio di un sistema a ripartizione, tra entrate contributive e prestazioni di ogni anno. Ciò ha fatto diventare a carico della fiscalità generale il finanziamento del sistema pensionistico.
    Così si pongono alcune fondamentali domande. Può la fiscalità generale finanziare un sistema così costoso, che pone la spesa pensionistica nel bilancio dello stato ai più alti livelli in Europa, e nel mondo? E’ giusto che lo stato si accolli non solo un trattamento decoroso/adeguato, ma l’intero mantenimento del tenore di vita antecedente alla pensione, per l’intera popolazione in età pensionistica? E’ accettabile che non si usino criteri di ridistribuzione tra lavoratori che per la vecchiaia dipenderanno esclusivamente dalla pensione pubblica e lavoratori che potranno contare sulla capacità di risparmio, fringe benefits del contratto di lavoro e altri investimenti?
    Nella maggior parte dei paesi moderni la pensione pubblica consiste in un assegno fisso o è soggetta a fasce o massimali, ed esistono talvolta anche limitazioni negli obblighi contributivi. La finalità è assicurare una vecchiaia decorosa, conformemente all’obbiettivo originale di quando le pensioni furono inventate: liberare gli anziani dalla dipendenza dai figli o dalla carità pubblica.
    Mi sembra che le attuali discussioni sulle pensioni siano assolutamente fantasiose se parlano di miglioramento delle prestazioni, o inadeguate se pensano di risolvere i problemi con il solo aumento dell’età pensionabile.
    Vorrei conoscere un’opinione competente, soprattutto sulla totale assenza di questo problema dall’agenda politica, pur in presenza di un visibile deterioramento progressivo di questo capitolo delle finanze pubbliche e della prevedibile prossima e inevitabile crisi.

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