Per superare l’approccio emergenziale all’accoglienza dei rifugiati e promuovere politiche di integrazione lungimiranti, vanno considerate anche le caratteristiche socio-culturali del contesto che li accoglie, coinvolgendo gli amministratori locali.
Un fenomeno strutturale affrontato sempre come emergenza
Negli ultimi tempi si sono moltiplicati gli sbarchi a Lampedusa, con picchi di 1.800 migranti al giorno. Dall’inizio dell’anno sono più di 110 mila gli ingressi in Italia via mare (ministero dell’Interno), mentre si contano circa duemila migranti morti o dispersi nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa. Sono le cifre più alte dalla fine della “crisi dei rifugiati” vissuta in Europa fra il 2014 e il 2017, quando in Italia arrivavano in media 150 mila migranti e richiedenti asilo ogni anno. Guerre e instabilità politica e sociale ai confini dell’Europa, e in particolare la recente crisi in Tunisia, favoriscono la fuga verso le nostre coste lungo rotte gestite da trafficanti, in assenza di canali sicuri e regolari.
Con l’intensificarsi degli arrivi, aumentano le polemiche e gli scontri politici sull’accoglienza e la gestione dei rifugiati. Eppure, considerando l’esperienza maturata con la crisi del 2014-2017 e più di recente con quella ucraina, l’opinione pubblica si aspetterebbe di vedere attuate politiche stabili e mature di fronte a fenomeni che sono strutturali. Di decreto in decreto, invece, le politiche pubbliche in materia di accoglienza non sono più ispirate alle buone pratiche di quello che fu lo Sprar (ora Retesai), ma sono diventate paradossalmente sempre più precarie ed emergenziali. La logica, infatti, rimane ancora quella dell’accoglienza diffusa, che prevede quote di riparto proporzionali alla popolazione residente a livello di provincia (2,5 ogni mille abitanti), ma il sistema dei centri di accoglienza straordinaria (Cas) è stato progressivamente impoverito di risorse per servizi di integrazione di qualità (per esempio, l’informativa legale e l’assistenza psicologica) e di diritti per i richiedenti asilo (per esempio, la protezione speciale).
Due studi
Nel 2020 abbiamo condotto un’analisi rigorosa del sistema di accoglienza in Italia per valutarne l’impatto in termini di cambiamenti socio-economici e politici a livello locale. In particolare, tramite richieste di accesso civico generalizzato a tutte le prefetture, abbiamo raccolto i dati amministrativi a livello di comune sull’apertura dei Cas nel periodo che va dal 2014 al 2018 e abbiamo documentato gli effetti politici dell’accoglienza diffusa in quegli anni, veicolati soprattutto da una forte propaganda anti-immigrazione durante la campagna elettorale del 2018.
In un lavoro ancora più recente abbiamo analizzato l’eterogeneità dell’impatto politico a livello territoriale, notando per esempio che le città metropolitane sono meno avverse all’accoglienza di quelle situate nelle zone rurali. Ma quali fattori si celano dietro l’eterogeneità nella contrarietà della popolazione all’accoglienza dei richiedenti asilo? Qual è il ruolo delle differenze fra i territori e il contributo che alcuni contesti locali, più di altri, possono offrire all’integrazione dei rifugiati o richiedenti asilo?
Nella nostra analisi mostriamo che l’avversione all’accoglienza (backlash), misurata in termini di aumento del consenso per i principali partiti anti-immigrazione (Lega e Fratelli d’Italia), non è spiegata dalle caratteristiche economiche o dalle differenze di capitale sociale, bensì da differenze nella dimensione “culturale” dei territori.
In particolare, l’evidenza empirica mostra come nei comuni più benestanti e con più elevato capitale sociale, l’aumento del consenso per il fronte anti-immigrazione durante la crisi dei rifugiati sia stato più elevato. Questo suggerisce che nelle comunità con legami sociali più densi, l’arrivo dei richiedenti asilo aumenta la rilevanza dei conflitti etnico-culturali, rinforzando il legame identitario e generando maggiore antagonismo nei confronti dei richiedenti asilo provenienti da culture percepite molto distanti da quella locale. Al contrario, il backlash risulta minore nei comuni con esperienze di integrazione multiculturale più virtuose, intese come il livello qualitativo e quantitativo di contatti fra popolazione locale e immigrati (misurate con il tasso di matrimoni misti, la segregazione etnica territoriale e anche con il numero di persone straniere elette in cariche pubbliche locali).
Tale evidenza mette in discussione l’efficacia di un sistema di accoglienza che punta esclusivamente su un piano di riparto (con scarse risorse), senza prendere in considerazione il contesto di destinazione e le sue caratteristiche culturali.
Come redistribuire i rifugiati
Per comprendere come le caratteristiche locali influenzino l’avversione all’accoglienza, abbiamo stimato un semplice modello di distribuzione ottimale dei rifugiati, nel quale simuliamo politiche di accoglienza diffusa alternative, redistribuendo i richiedenti asilo sulla base non solo della popolazione locale residente, ma anche in base alle caratteristiche culturali e sociali del contesto locale.
Le politiche di redistribuzione controfattuali sono efficaci nel determinare una riduzione del backlash compresa tra il 34 e il 90 per cento, dati i diversi vincoli di capacità ricettiva territoriale, con effetti maggiori in termini di contenimento del supporto al fronte anti-immigrazione quanto maggiore è la riallocazione dei rifugiati verso contesti più culturalmente integrati. Un’estrema concentrazione dei rifugiati in poche municipalità non è plausibilmente realizzabile da un punto di vista logistico e può comportare costi in termini di minore qualità dei servizi di accoglienza. Tuttavia, la nostra analisi mostra che, anche mantenendo la quota di riparto dell’accoglienza diffusa, è possibile ridurre il backlash redistribuendo i richiedenti asilo verso realtà locali più virtuose.
L’analisi controfattuale ci consente inoltre di stimare il l’avversione potenziale che si verificherebbe nel caso in cui la redistribuzione dei richiedenti asilo sul territorio considerasse solamente le differenze demografiche ed economiche, trascurando le caratteristiche inter-culturali dei territori, come avviene in altri paesi europei come la Germania. Anche in questo caso, le politiche di redistribuzione controfattuali sono in grado di ridurre l’avversione all’accoglienza, ma l’effetto risulta significativamente minore rispetto a quanto ottenuto considerando anche le variabili culturali locali.
I risultati del nostro lavoro forniscono importanti indicazioni di policy per la gestione del sistema di accoglienza. In primo luogo, le politiche di redistribuzione dei richiedenti asilo dovrebbero considerare non solo le caratteristiche demografiche ed economiche ma anche, e soprattutto, le variabili socio-culturali del contesto locale, al fine di circoscrivere l’ostilità della popolazione residente e possibilmente promuovere l’integrazione sociale dei rifugiati stessi.
Inoltre, l’identificazione delle località nelle quali l’arrivo dei rifugiati può generare una maggiore avversione all’accoglienza dovrebbe guidare i governanti nella programmazione di interventi mirati a promuovere una integrazione virtuosa tra richiedenti asilo e popolazione locale, per esempio attraverso misure di condivisione dei servizi o di sostegno ad attività di interazione sociale. È necessario quindi un maggior coinvolgimento degli amministratori locali e va rafforzato il ruolo svolto dai comuni, che dispongono di informazioni più accurate sulle condizioni della popolazione locale.
Queste linee guida costituiscono la base per superare l’approccio emergenziale all’accoglienza dei rifugiati e sviluppare politiche di integrazione lungimiranti, considerando le caratteristiche e le esigenze dei rifugiati e delle comunità che li accolgono.
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Savino
E’ lo Stato che deve presentare un piano nazionale di accoglienza e integrazione e farselo finanziare dalla UE. Ci sono anche sindaci, parroci o associazioni che se ne sono approfittati.